19
sono ricordati, insieme a Virgilio e alla cosiddetta Ilias latina
36
 
(riassunto del poema omerico risalente al I sec. d.C.), tra le 
letture scolastiche di Gualtiero di Spira intorno all’anno 975
37
. 
L’XI secolo conferma e consolida gli autori del precedente
38
, 
senonché si rilevano timidi tentativi di introdurre Ovidio nel 
canone scolastico. I mss. pervenutici delle sue opere non sono 
ancora in numero cospicuo (11 copie per le Metamorfosi e 4 per 
i Fasti) e più di un terzo sono provenienti da collezioni private. 
Un’inversione di tendenza si verificherà per quanto riguarda 
Ovidio a partire dal XII secolo, che ci ha lasciato 34 copie delle 
Metamorfosi
39
. Simultaneamente, il canone scolastico raggiunge 
la sua massima estensione, includendo tutti gli autori cosiddetti 
maggiori : Lucano, Sallustio, Stazio, Ovidio, Virgilio, Orazio, 
Terenzio, Giovenale, Cicerone. 
  Oltre allo studio che veniva fatto di questi autori e di qualche 
altro ‘classico’, occorre però tenere presente che si leggevano e 
studiavano molti autori cristiani. Nel suo Dialogus super 
auctores (prima metà XII sec.), Corrado di Hirsau ricorda 
Prospero d’Aquitania, Prudenzio, Boezio e altri, affiancati senza 
distinzione cronologica agli autori classici
40
 ; Alessandro di 
Neckham in un elenco che dovrebbe riportare gli autori da lui 
studiati a Parigi dal 1175 al 1182, cita, oltre ai maiores e a 
qualcun altro, Solino (III sec.) che per la stesura dei Collectanea 
rerum memorabilium ( o Polihistor) utilizzò come fonte 
principale l’Historia naturalis di Plinio il Vecchio.     
  È implicito che le conoscenze offerte da questi documenti 
(intendo oltre le poche da me riportate) vanno ritenute 
indicative e, seppure non sia possibile dire, in assenza delle 
                                                          
36
 Di quest’opera, la cui prima menzione risale all’831, non ci sono pervenuti mss. per il 
IX sec., mentre ne troviamo uno nel X e ben undici nell’XI e nel XII sec. (Cf. Munk Olsen 
1991,  p. 63-4). 
37
 Cf. Curtius 1992,  p.58. 
38
 Cf. Munk Olsen 1991, p.32 sgg. 
39
 Cf. Munk Olsen 1991,  p.37 sgg. 
40
 Cf. Curtius 1992,  pp.58-9. 
 20
relative testimonianze, se nelle scuole si facessero altre letture, 
certamente i grandi studiosi altomedievali conoscevano molti 
più autori (lo stesso Curtius riporta l’esempio degli autori più 
apprezzati da Giovanni di Salisbury, per la maggior parte non 
compresi nelle liste di cui sopra
41
). Inoltre, senza addentrarmi a 
considerare lo sviluppo delle Università e il successo 
dell’aristotelismo nel XII sec., è fondamentale sottolineare che 
In tutte le scuole si insegnavano, oltre alle sette arti liberali, la 
filosofia, rifiorita dopo Anselmo (m. 1109), e la doctrina sacra, 
corrispondente a ciò che più tardi si chiamerà teologia
42
, e 
questo perché attraverso lo studio della Bibbia e dei 
commentatori e degli esegeti biblici - primo tra i quali 
sant’Agostino - venne trasmessa la maggior parte delle 
informazioni concernenti il drago e la sua carica distruttiva e 
demoniaca.  
  La figura del drago, infatti, fu mantenuta viva all’interno della 
cultura medievale grazie all’interesse naturalistico di 
derivazione greca e alessandrina e grazie alla mentalità mistico-
interpretativa che ebbe origine dalle letture gnostiche dei testi 
sacri
43
. Attraverso due filoni principali essa giungerà 
all’immaginario dei narratori francesi. Così, se da un lato 
abbiamo il filone scientifico, quello cioè che a partire da Plinio 
e dal Fisiologo greco costituirà, attraverso le enciclopedie e i 
bestiari, l’immagine del drago dal punto di vista fisico e 
naturale
44
, dall’altro il filone mistico-allegorico recupererà il 
materiale necessario per l’identificazione drago-satana-male col 
cominciare a leggere l’Apocalisse di Giovanni. Se poi le due 
correnti non si svilupparono separatamente e senza punti di 
                                                          
41
 Giovanni di Salisbury riporta, tra quelli di mio interesse, i nomi di Apuleio e di Plinio il 
Vecchio. 
42
 Cf. Curtius 1992,  p. 63. 
43
 Per l’analisi della mentalità interpretativa farò riferimento, anche in seguito, a : Todorov 
1986 ; Eco 1987, in partic. i capitoli 6 e 12. 
44
 Cf. Le Goff 1992, p. 224 sgg. ; Il Fisiologo, intr. p. 17. 
 21
contatto, lo dobbiamo al fatto che la cultura di allora era 
preferibilmente di tipo enciclopedico e non specialistico, quindi 
le descrizioni del drago che verranno fornite dai bestiari e dai 
testi naturalistici attribuiranno quasi sempre al drago particolari 
attributi morali negativi e la funzione devastatrice che nel 
contempo gli esegeti biblici, e primariamente quelli 
dell’Apocalisse, erano venuti elaborando
45
.  
 
 
2. il filone didattico-scientifico 
 
  Comincerò con il considerare l’autore della più imponente 
opera naturalista della latinità, Gaio Plinio Secondo il Vecchio 
(23-79 d.C.). Il suo gusto, molto più sobrio di quello degli autori 
medievali e non interessato all’edificazione moraleggiante, fece 
sì che il trattamento da lui riservato al drago esulasse quanto 
possibile dagli eccessi della fantasia e dagli ibridi chimerici. Per 
lui il drago è più semplicemente un serpente che, anche nel 
momento in cui si ritrova attribuiti comportamenti estranei alla 
sua natura, vorrebbe rimanere un animale e non trasformarsi in 
una figura allegorica.  
  Tuttavia Plinio si occupa del drago solo in riferimento 
all’elefante, oppure alla pietra che si diceva i draghi portassero 
nella testa, o ancora in riferimento alle proprietà magico-
terapeutiche della pelle e di alcuni organi dell’animale. Di 
seguito riporterò soltanto la parte riguardante il rapporto che i 
draghi intrattenevano con gli elefanti, dato che sarà 
fondamentalmente quella a riemergere nelle enciclopedie e nei 
bestiari del Medioevo.   
                                                          
45
 Si può riportare l’esempio di Rabano Mauro (784-856) che nel De Universo, VIII, 3 
dedica un capitolo ai serpenti e a proposito del drago, dopo avere informato sulle sue 
caratteristiche fisiche e comportamentali per le quali si rifà alle Etymologiae di Isidoro di 
Siviglia, dice : “Mystice draco aut diabolum significat, aut ministros ejus, vel etiam 
persecutores Ecclesiae, etc.” (PL, CXI, 230). 
 22
 
Elephantos fert Africa ultra Syrticas solitudines et in Mauretania, 
ferunt Aethiopes et Trogoditae, ut dictum est, sed maximos India 
bellantesque cum iis perpetua discordia dracones tantae 
magnitudinis et ipsos, ut circumplexu facili ambiant nexuque nodi 
praestringant. Conmoritur ea dimicatio, victusque conruens 
conplexum elidit pondere. 
 
   Mira animalium pro se cuique sollertia est ut his una. 
Ascendendi in tantam altitudinem difficultas draconi ; itaque 
tritum iter ad pabula speculatus ab excelsa se arbore inicit. Scit 
ille inparem sibi luctatum contra nexus ; itaque arborum aut 
rupium attritum quaerit. Cavent hoc dracones ob idque gressus 
primum alligant cauda : resolvunt illi nodos manu ; at hi in ipsas 
nares caput condunt pariterque spiritum praecludunt et 
mollissimas lancinant partes. Iidem obvii deprehensi in adversos 
erigunt se oculosque maxime petunt. Ita fit ut plerumque caeci ac 
fame et maeroris tabe confecti reperiantur. Quam quis aliam 
tantae discordiae causam attulerit nisi naturam spectaculum sibi 
paria conponentem ? 
   Est et alia dimicationis huius fama. Elephantis frigidissimum 
esse sanguinem ; ob id aestu torrente praecipue draconibus 
expeti. Quam ob rem in amnes mersos insidiari bibentibus 
intortosque inligata manu in aurem morsum defigere, quoniam is 
tantum locus defendi non possit manu. Dracones esse tantos, ut 
totum sanguinem capiant, itaque elephantos ab iis ebibi 
siccatosque concidere et dracones inebriatos opprimi 
conmorique. 
 
   Generat eos Aethiopia Indicis pares, vicenum cubitorum. Id 
modo mirum, unde cristatos Iuba crediderit.
46
 
 
[In Africa nascono elefanti al di là dei deserti delle Sirti ed in 
Mauritania, ed anche nei territori degli Etiopi e dei Trogloditi, 
come si è già detto ; ma l’India produce gli esemplari più grandi, 
ed enormi serpenti che combattono con essi in perpetua 
discordia, di tali dimensioni anche questi che facilmente riescono 
                                                          
46
 Plinio, Naturalis historia, VIII, 11-13. 
 23
ad avvolgere un elefante nelle loro spire e a stringerlo nella 
stretta del loro nodo. Questo combattimento provoca la morte di 
entrambi i contendenti, perché l’elefante sconfitto, cadendo, col 
suo peso schiaccia il serpente che lo tiene avvinto.  
 
Desta meraviglia l’accortezza che ciascuno degli animali ha per 
se stesso. Un esempio lo forniscono queste due bestie. Per il 
serpente salire all’altezza dell’elefante costituisce una difficoltà ; 
perciò, dopo aver spiato qual è il cammino consueto del branco 
verso il pascolo, dall’alto di un albero si lascia cadere su un 
esemplare. L’elefante sa perfettamente che la sua lotta contro le 
spire del serpente è vana ; perciò cerca di sfregarsi agli alberi e 
alle rupi. Questo spaventa i serpenti e per prima cosa con la coda 
tentano di impedire all’avversario di camminare : gli uni con la 
proboscide sciolgono i nodi, ma gli altri affondano la testa 
proprio nelle narici e contemporaneamente bloccano la 
respirazione e dilaniano le parti più molli. Gli stessi serpenti, se 
vengono sorpresi durante il cammino, si drizzano contro di loro e 
mirano soprattutto agli occhi. Così si spiega perché si trovano 
comunemente elefanti ciechi ed esausti per la fame e la 
consunzione causata dal dolore. Che altro motivo addurre, per 
una discordia tanto grande, se non che la natura combina queste 
coppie per inscenarsi uno spettacolo ? 
C’è anche un’altra versione di questo combattimento. Gli elefanti 
hanno il sangue molto freddo ; per questo soprattutto quando il 
caldo infuria vengono assaliti dai serpenti. Essi perciò, stando 
immersi nei fiumi, insidiano gli elefanti mentre bevono, e 
attorcigliandosi bloccano la proboscide e tentano di dare morsi 
negli orecchi, perché soltanto quel  punto del corpo non può 
essere difeso dalla proboscide stessa. I serpenti sono tanto grandi 
che assorbono tutto il sangue degli avversari, e così gli elefanti 
vengono da loro svuotati e come disseccati cadono ; anche i 
serpenti, quasi ubriachi, sono sopraffatti e muoiono insieme a 
loro. 
 
L’Etiopia produce serpenti simili a quelli indiani, di venti cubiti. 
Di questo soltanto c’è da meravigliarsi, come Giuba abbia potuto 
crederli provvisti di cresta.] 
 
 24
    Vediamo dunque come, piuttosto che di draghi così come li 
conoscerà il Medioevo, qui Plinio parli di serpenti in senso 
proprio. (Rilevo comunque l’accenno finale in tono scettico e 
derisorio in cui si dice che un tale Giuba riteneva i draghi 
provvisti di cresta - una delle caratteristiche dei draghi a venire). 
Eppure, nonostante la volontà di Plinio di mantenersi scienziato 
in senso proprio e perciò osservatore, la sua tendenza 
all’erudizione e alla curiosità fa sì che ci racconti storie raccolte 
in chissà quali testi e probabilmente soltanto ascoltate. È grazie 
a questa doppia attitudine che si trova nascosto tra le mille 
volute della sua opera un passo molto interessante, nel quale 
sono grossomodo contenute tutte le caratteristiche del 
combattimento drago-cavaliere senza essere però sviluppate e 
senza che le fonti o gli informatori casuali della notizia siano 
riferiti. La divergenza fondamentale consiste nel fatto che la 
parte che sarà successivamente tenuta dal drago è qui attribuita 
a un serpente chiamato basilisco : 
 
Eadem et basilisci serpentis est vis. Cyrenaica hunc generat 
provincia, duodecim non amplius digitorum magnitudine, candida 
in capite macula ut quondam diademate insignem. Sibilo omnes 
fugat serpentes nec flexu multiplici, ut reliquae, corpus inpellit, 
sed celsus et erectus in medio incedens. Necat frutices, non 
contactos modo, verum et adflatos, exurit herbas, rumpit saxa : 
talis vis malo est. Creditum quondam ex equo occisum hasta et 
per eam subeunte vi non equitem modo, sed equum quoque 
absumptum. Atque huic tali  monstro - saepe enim enectum 
concupivere reges videre - mustellarum virus exitio est : adeo 
naturae nihil placuit esse sine pare. Inferciunt has cavernis facile 
cognitis soli tabe. Necant illae simul odore moriunturque, et 
naturae pugna conficitur.
47
 
 
[Identica è la proprietà del  serpente basilisco. Lo genera la 
provincia della Cirenaica, non è più lungo di dodici dita e lo si 
                                                          
47
 Plinio, Nat. hist.,  VII, 33. 
 25
riconosce per una macchia bianca sulla testa, a mo’ di diadema. 
Col suo sibilo mette in fuga tutti i serpenti, e non muove il suo 
corpo, come gli altri, attraverso una serie di volute, ma avanza 
stando alto e diritto sulla metà del corpo. Secca gli arbusti non 
solo toccandoli, ma col suo soffio, brucia le erbe, spezza le 
pietre : tale potenza ha questo pericoloso animale. Una volta, 
così si credette, un esemplare fu ucciso da un uomo a cavallo con 
un’asta e dal veleno salito attraverso di essa non soltanto il 
cavaliere, ma anche il cavallo furono annientati. E per un simile 
mostro - spesso i re hanno desiderato di vederlo estinto - è 
mortale il veleno delle donnole : così la natura ha voluto che 
nulla fosse privo del suo uguale. Gli uomini fanno entrare le 
donnole nelle tane dei basilischi, che si riconoscono facilmente 
per la contaminazione del suolo. Esse uccidono i serpenti con il 
loro odore e muoiono nello stesso tempo, e così termina questo 
combattimento della natura.] 
 
  Come già in precedenza era accaduto con l’elefante, anche qui 
il serpente basilisco ha un nemico naturale (la donnola) 
fornitogli dalla natura, e la morte dell’uno implica di necessità 
quella dell’altro. Ma quando, anziché il nemico naturale, sarà un 
cavaliere ad affrontarlo e ucciderlo, anche lui non sopravviverà 
allo scontro.  Queste lotte, così come riferite da Plinio, mi 
sembrano sottoposte all’idea che forze uguali e contrarie si 
annullino per una qualche ragione necessaria insita nella natura. 
Un’intuizione forse inconsapevole, comunque assolutamente 
scientifica e, per allora, avveniristica. 
  Sarebbe stato molto interessante riuscire a rintracciare la fonte 
di tale notizia in Plinio, ma in tutte le edizioni della Storia 
naturale che ho consultato non ho rintracciato alcuna 
informazione e altrove non saprei dove cercare. Sarò costretto a 
prenderla per quello che è : un cenno. Ma un cenno che 
dimostra la presenza del tema del combattimento di un cavaliere 
contro un drago molto e molto prima che, con la leggenda di s. 
Giorgio, venisse fissato letterariamente nella cultura ufficiale 
dell’Occidente ; e un cenno che mi sarebbe piaciuto utilizzare 
 26
con più pregnanza in seguito, quando cercherò di delineare lo 
sviluppo in seno al mondo cristiano medievale del tema 
suddetto
48
. 
  Apro qui, prima di proseguire con il Fisiologo, una brevissima 
parentesi per riportare un brano della Farsalia di Lucano (39-65 
d.C.) che mi sembra importante non solo perché fu in parte 
ripreso da Dante (If.  XXIV, 85-90)
49
, e per quanto detto in 
precedenza
50
 ritengo molto noto agli scrittori dell’epoca, ma 
soprattutto perché in esso si racconta di terre infestate da diversi 
tipi di serpenti e dai draghi, che sono descritti come alati, 
costrittori e privi di veleno : 
 
Vos quoque, qui cunctis innoxia numina terris 
serpitis, aurato nitidi fulgore dracones, 
letiferos ardens facit Africa ; ducitis altum 
                                                          
48
 Un altro combattimento tra un eroe e un drago (marino) è riferito da Ovidio, Metam. IV, 
707-735 riguardo la leggenda di Perseo e Andromeda: “Ed ecco che come una nave 
lanciata solca con lo sperone proteso le acque, sospinta da giovani braccia sudanti, così 
il mostro teso scostando le onde con l’urto del petto non dista ormai dallo scoglio più 
dello spazio che una fionda delle Baleari, roteata, può far percorrere a una palla nel 
cielo. All’improvviso, dandosi uno slancio coi piedi, il giovane eroe se ne va in alto tra le 
nuvole. Appena la sua ombra si disegna sulla superficie del mare, il mostro si avventa 
contro l’ombra che vede ; e come l’uccello sacro a Giove, quando scorge in un campo 
aperto una biscia che espone al sole il livido dorso, la assale da dietro e perché non si 
rivolti con la bocca crudele le conficca gli avidi artigli nel collo squamoso, così con volo 
veloce, lasciandosi cadere nel vuoto, il discendente di Ínaco piomba sul dorso della belva, 
che si dimena, e fino all’elsa le caccia nella spalla destra la lama ricurva. Quella, 
tormentata dalla grave ferita, ora si solleva in alto nell’aria, ora si tuffa sott’acqua, ora si 
dibatte come feroce cinghiale spaventato da muta di cani che incontro gli latra. Lui si 
sottrae agli avidi morsi con pronti frullii, e, dove trova scoperto, vibra fendenti con la 
spada a forma di falce, ora sul dorso incrostato di cave conchiglie, ora sulle costole, ai 
fianchi, ora sulla parte che assottigliandosi finisce in coda di pesce. Il mostro vomita 
dalla bocca flutti misti a sangue rosso. Gli spruzzi inzuppano e appesantiscono le ali di 
Perseo. Non osando più affidarsi ai sandali imbevuti d’acqua, egli scorge uno scoglio la 
cui cima affiora quando il mare è tranquillo, è sommersa quando il mare è agitato. Si 
posa su quello, e reggendosi con la sinistra alle prime sporgenze, ripetutamente, tre e 
quattro volte, affonda la spada nei visceri”. 
49
 Il passo che Dante ricalca è quello compreso tra il v. 708 e il v. 721. 
50
 Cf. par.1 (le conoscenze letterarie), nonché, per una più completa descrizione della 
diffusione dei cdd. di Lucano, Munk Olsen 1991,  pp. 21-51.