prima, oggettivando determinati pensieri e invalidandone altri, dimostrando da
sola forse meglio di qualsiasi altra ricerca, cosa era stata realmente per certi
aspetti la via italiana al toyotismo della Fiat.
Il clamore suscitato era anche frutto di una contraddizione in termini di quella
fabbrica: come può una fabbrica fondata sul consenso e sulla partecipazione
operaia arrivare ad esplodere così, come può una fabbrica incentrata sulla
crescita comunitaria ed intellettuale, creare un tale clima di conflitto?
Quei giorni furono contraddizioni viventi di un insieme di idee, forse troppo
apologetiche, costruite sopra quella fabbrica, dopo quei giorni, infatti, più nessun
autore usò toni troppo enfatici.
Il focus di questo lavoro sono proprio quei giorni, non nell’ottica di una
descrizione degli eventi o di una indagine delle dinamiche proprie della
mobilitazione, ma nello spingersi il più possibile nel capire cosa abbia fatto
attivare quella rottura di un consenso, sbandierato da alcuni addirittura come la
fine del lavoro subordinato. Quel conflitto esplicita delle criticità da indagare,
partendo dalla rottura del consenso si fa un percorso di analisi a ritroso per
verificare le sorgenti di quelle criticità, per poi verificarle.
Criticità che vanno oltre la mobilitazione stessa e che svelano un modo di gestire
il lavoro, che certo non ha contribuito a creare un dissenso solo a ridosso della
mobilitazione.
Nel capitolo 1 si cerca quindi di descrivere quale è stata l’evoluzione storica
dell’insediamento della Fiat a Melfi e del modello toyotista in generale, cercando
sia di individuare le caratteristiche salienti e di novità, sia di fare i dovuti
parallelismi fra due modelli simili ma non uguali. Non esiste infatti una versione
preconfezionata del modello toyotista ogni applicazione è diversa per motivi
5
riguardanti principalmente la diversità storico/economica, nonché culturale, dei
paesi dove si è provata l’applicazione di alcune delle sue principali metodiche
produttive e gestionali. E’ lecito poter oggi affermare, soprattutto a fronte delle
nuove politiche di management delle risorse umane, che ogni stabilimento è un
vero e proprio caso a se stante, molto più di prima.
In questo capitolo si affrontano tutte quelle novità che hanno cambiato il modo di
produrre negli ultimi 20 anni ormai: il just in time, il kanban, il kaizen, la qualità
totale, la lean production, e quant’altro costituisce un paradigma del nuovo
modello.
Nel capitolo 2 invece si cercherà di descrivere il percorso di formazione delle
strutture e del personale della Sata, nonché degli elementi centrali
dell’organizzazione del lavoro. Si capisce che se si vogliono ricercare le
motivazioni di questa protesta bisogna cominciare a cercarle lontano, soprattutto
nei percorsi di formazione. L’importanza della formazione in un modello toyotista
è vitale perché è il principale strumento che riesce a dare all’operaio quella
capacità di intervento multifunzionale su più livelli e trasmette valori, che
proiettano la base per il consenso operaio, fondamentale per mantenere equilibri
partecipativi, richiesti dalla complessità del modello di produzione. La formazione
insomma crea aspettative negli operai che devono essere mantenute nel tempo,
pena la perdita del consenso.
Ma è l’ambito del lavoro con la sua organizzazione che rende direttamente
palpabile la fabbrica integrata nella sua vera forma, è qui che si realizzano i
principi della fabbrica integrata che poi ricadono materialmente sugli operai. Se
la formazione è il metro di misura, l’organizzazione è il banco di prova su cui
poterlo poggiare.
6
Nel capitolo 3 si concettualizza il modello d’indagine di questa ricerca.
La rilevazione è stata effettuata tramite l’utilizzo di un questionario strutturato,
principalmente dovuto al numero elevato del campione individuato, questionario
in cui si cerca di individuare quali sono i meccanismi critici che non hanno
permesso il reale attivarsi del consenso e del conseguente conflitto. Una
seconda rilevazione è seguita dopo quasi un anno, per approfondire una criticità
delle tante rilevate, cioè quella della fatica fisica, con una particolare attenzione
al rischio sulla salute che la metrica e l’organizzazione del lavoro contribuiscono
ad accentuare. La seconda rilevazione è stata realizzata con un questionario
preso in prestito dalla letteratura della medicina del lavoro, la check-list OCRA.
Di questo strumento si è fatto un duplice uso: uno originario della rilevazione del
rischio da sforzo da movimenti ripetuti, per limitarsi a darne una stima del
fenomeno e l’altro un approccio più sociologico cercando di rilevare meglio delle
classiche domande la percezione della fatica .
Nel capitolo 4 si analizza una discreta mole di dati, tentando di analizzare e
trovare i punti critici e contraddittori, che rilevino le cause del conflitto e il sopirsi
del consenso, nel trattare questi dati si fa riferimento a letture più diverse fatte sul
consenso in Sata. Ne esce fuori una serie di criticità che fanno riferimento alla
vecchia logica taylorista di gestione del lavoro, inserita pero in un involucro
nuovo. Rispetto alla fatica e al rischio sulla salute in Sata, questo lavoro inizia ad
indagare il fenomeno in superficie visto che nessun autore, oltre ad affermare un
problema con le velocità o i ritmi più duri, ha mai inteso occuparsene.
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Capitolo 1
LA VIA ITALIANA AL TOYOTISMO: LA FIAT A MELFI
Ancora ad oggi l’industria automobilistica continua a rappresentare, come nel
secolo scorso, il comparto maggiore dell’industria manifatturiera, 50 milioni di
automobili vengono prodotte ogni anno nel mondo e un lavoratore su 7 viene
impiegato per la sua costruzione, in Italia essa impiega direttamente e
indirettamente oltre il 7% degli occupati, assicurando entrate tributarie per oltre il
22% sul totale. Oltre a rappresentare una delle fonti maggiori di valore aggiunto
nelle economie nazionali dei paesi più industrializzati, rappresenta anche una
fonte d’innovazione nel campo delle tecniche produttive, gestionali, sociali ed
organizzative che, travalicando i cancelli delle fabbriche, hanno lasciato un
segno indelebile nella società contemporanea come il fordismo, il taylorismo ed
ultimamente il toyotismo.
Con la crisi petrolifera del 1973 simbolicamente si inaugurò la crisi del fordismo,
e molteplici furono gli effetti del disfacimento di tale paradigma socio-economico,
in particolare nel settore dell’automobile, anche a causa della nascente
globalizzazione dei mercati con le sue nuove sfide. Le fluttuazioni irregolari dei
cambi influirono pesantemente sulla competitività delle industrie automobilistiche,
costringendole a focalizzare l’attenzione su parametri strategici di breve periodo.
Si raggiunse la saturazione del mercato e la domanda si attesta su volumi più
contenuti generati dalla sostituzione del prodotto, invece che
sull’implementazione del mercato. Si cominciarono ad intravedere i limiti dello
sviluppo industriale, andava in crisi l’idea dell’infinita disponibilità degli input
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produttivi e dei loro prezzi progressivamente decrescenti grazie all’aumento dei
volumi produttivi. La conflittualità operaia mandò in crisi l’idea del controllo
operaio, la sua protesta contribuì anche al cambiamento dei ritmi di lavoro, del
salario, della gerarchia aziendale e la grande fabbrica concentrata in un unico
luogo cominciò a far vedere i suoi svantaggi. Oggi le scelte dei consumatori si
fanno più attente, diversificate ed esigenti rispetto al cambiamento tecnologico e
degli stili di vita. L’industria dell’automobile insomma, si trovò ad entrare in un
sistema più competitivo a cui doveva adattare il suo modo di produzione in tutti i
suoi aspetti, cambiamento che segnò una rottura epocale con il passato.
Anche alla Fiat, maggiore azienda automobilistica italiana, si fecero sentire i duri
colpi della crisi e alla fine degli anni ’70, ci si trovò a fronteggiare una difficile crisi
finanziaria e i forti limiti causati dall’arretratezza tecnologica. La crescita della
Fiat in quegli anni fu fortemente rallentata dal fatto che nel mercato interno
italiano si era accesa una forte concorrenza estera, proprio nella gamma
produttiva medio bassa, che aveva fino ad allora garantito la domanda su cui
l‘azienda si poggiava.
La risposta della Fiat venne subito negli anni ’80 e si articolò su più fronti, si
rinnovò la gamma dei modelli auto (nascevano: la Uno, la Tipo, la Regata,…), si
cambiarono le strategie commerciali verso un’ancora più accentuata
penetrazione nel mercato interno e in Europa, si intraprese una forte politica di
contenimento dei costi ridimensionando il costo del lavoro per unità di prodotto,
in sei anni gli addetti vennero ridotti a circa 57000 unità e venne ridotto il numero
dei fornitori diretti. Ma la novità maggiore risiedeva in un’intensa e diffusa
automazione dei processi produttivi prima in alcune parti di vecchi stabilimenti
poi con delle ristrutturazioni totali come in quelli di Termoli e Cassino con cui la
Fiat tentò di riformare il modello di produzione taylorista-fordista.
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In quel periodo la Fiat riprese un’eccezionale espansione produttiva, la filosofia di
quegli anni era imperniata dalla “convinzione che fosse possibile flessibilizzare la
produzione e minimizzare la conflittualità operaia massimizzando l’automazione,
senza cambiare il livello gerarchico tradizionale” (Cersosimo, 1994: 44). Per
flessibilità produttiva si intende la capacità di un’azienda di immettere sul
mercato prodotti sempre più complessi e specialistici, ma nella Fiat di quegli anni
la flessibilità era perseguita come un valore in sé, svincolata dai costi perché
favorita dall’espansione produttiva del periodo ed intrisa ancora della vecchia
logica fordista di produzione grassa
1
.
Sostituire lentamente il lavoro umano con l’alta automazione delle macchine era
all’epoca uno dei sogni che spinsero la Fiat a “ricostruire” le fabbriche di Termoli
e Cassino. Il progetto Termoli 3 (1980) nasce all’interno del vecchio stabilimento
sorto agli inizi degli anni ’70, nel giro di pochi anni quella fabbrica dedicata alla
costruzione di motori “Fire” diventa l’industria più automatizzata del mondo. Circa
il novanta per cento della lavorazione viene effettuata da macchinari
informatizzati, che controllano tutto il processo produttivo, le uniche lavorazioni
prettamente manuali si effettuano in piccole isole di stazionamento, che
integrano le cinque linee seriali del processo. La figura dell’operaio muta qualifica
e professionalità divenendo “conduttore di sistema”, infatti, la maggior parte delle
sue funzioni viene dedicata alla condotta guidata della macchina e alla sua
diagnostica al fine unico di garantire la regolarità del flusso produttivo.
Diversamente dal passato la figura del tecnologo di linea assunse un ruolo
primario, vista la centralità del livello tecnologico. Ma all’innovazione della
macchina non seguì quella dell’uomo, il livello organizzativo e di potere rimasero
1
Con l’espressione produzione grassa si intendono quei sistemi di produzione la cui organizzazione è
finalizzata ad assicurarsi livelli elevati di output standardizzati rispondenti alle esigenze di un mercato di
massa.
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quelli di sempre e la formazione cambiò solo nel suo versante prettamente
tecnico-pratico e non del pieno sviluppo delle risorse umane. Termoli funzionava
su una linea con flusso sincronizzato e completamente informatizzato, con
standard qualitativi integrati nel processo al fine di produrre un solo tipo di
motore (12 varianti). Questo sistema entrò in crisi non appena si cercò di
aumentarne ancora di più la variabilità di produzione, quando si cominciarono a
produrre tre tipi di motori (36 varianti) il sistema toccò il suo limite massimo di
capacità e iniziarono i primi problemi. Una produzione cosi complessa aveva
bisogno di una variabilità continua nel cambiamento della produzione in linea nei
tempi di resettaggio, e portò le macchine e il sistema informativo di gestione ad
un livello di stress così alto, che cominciarono a verificarsi i primi guasti ed
inceppamenti che bloccavano tutto l’impianto. “Nel periodo peggiore dei 2.700
motori programmati al giorno si riusciva a produrre a stento 1.800-2.000”
(Bonazzi, 1993: 82). Gli stessi problemi si verificarono anche nell’altra fabbrica
ad alta automazione quella di Cassino. In più c’è da aggiungere che nello stesso
periodo 1987-’88 il mercato era entrato in una fase di recessione e il mito della
flessibilità andava adattato alla realtà del mercato e proporzionato a degli
obiettivi d’efficienza.
Così nel giro di sette anni, anche il mito della fabbrica ad alta automazione
cadde, non era più possibile sognare l’unmanned factory ( fabbrica senza operai)
e la Fiat si ritrovò a compiere un altro lavoro di ristrutturazione. Si capì
perfettamente che la staticità di un sistema solamente tecnologico non poteva
soddisfare le richieste di un mercato altamente flessibile nella domanda, l’unica
flessibilità reale si poteva dare solo con il lavoro operaio diretto, capace più delle
macchine di essere malleabile ai cambiamenti repentini della produzione, grazie
all’inimitabile capacità umana di discrezionalità, creatività e professionalità. Per
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far ciò la Fiat doveva andare a colpire i limiti tecnico-organizzativi legati
all’asimmetria tra tecnologie sofisticate e il modello organizzativo tradizionale,
bisognava far ritornare gli operai alla loro funzione produttiva nella linea,
conciliandola con il salto tecnologico compiuto. Non valeva più il presupposto
classico che il guasto fosse un evento raro che si può sempre aggirare con
tamponamenti provvisori. Quindi si cominciò a cambiare l’impostazione delle
squadre nella direzione della Cellular Manufacturing
2
, definita come un caso
particolare della Tecnologia di Gruppo
3
, che prese questo nome “dal fatto che il
processo produttivo viene organizzato in celle e queste possono essere definite
come dei ministabilimenti autosufficienti a cui è affidata un’intera porzione del
processo produttivo” (Bonazzi 1993: 68).
Questa nuova impostazione di squadra venne mantenuta e resa più complessa
sia dal punto di vista produttivo che sociale nella costruzione del sistema Sata,
dando vita alle attuali UTE (unità tecnologica elementare)
4
.
Le squadre cambiarono diventando il più possibile autosufficienti e responsabili
di un segmento finito di produzione, gli uffici di produzione vennero spostati
dentro i reparti produttivi garantendo interventi rapidi, i tecnici in linea vennero
raggruppati in team tecnologi con compiti di gestione congiunta processo-
prodotto, vennero snelliti i livelli gerarchici e gli operai furono coinvolti in un opera
di miglioramento continuo.
2
Formula produttiva che già negli anni ’60 e ’70 conobbe fortunate applicazioni in campo dell’industria
aeronautica ed elettronica.
3
La Tecnologia di gruppo, caso particolare di layout, “consiste nell’abbinare lavorazioni di famiglie
omogenee di prodotti con gruppi eterogenei di macchinari, e questi vengono disposti in maniera tale da
eseguire l’intera sequenza delle lavorazioni richieste in quella famiglia di prodotti” (Burbige 1975 in
Bonazzi 1993: 66); i vantaggi della Tecnologia di gruppo sugli operai, conoscenti di tutto il processo di
lavorazione,“furono esaltati dal Partito Comunista dell’URSS come prova della superiorità del modo di
produzione socialista su quello capitalista” (Bonazzi 1993: 66)
4
Una trattazione della UTE seguirà nel cap.2.
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