10
più importanti ipotesi postulate in merito dalle varie scuole di pensiero.
Il paragrafo successivo costituisce, invece, una rassegna delle più grandi raccolte di
fiabe, partendo dai resti di pergamene egiziane, si passa attraverso la lussuosa corte
di Versailles, il laborioso lavoro dei fratelli Grimm, e la raccolta tutta italiana di Italo
Calvino, per poi atterrare negli orientali ambienti delle Mille e una Notte, accompagnati
dalla suadente voce della bella Shahrazàd.
Aiutata dal grande contributo di Bruno Bettelheim, ho quindi osato sbirciare nel vasto,
difficile, ma estremamente affascinante mondo della psicologia infantile, per cercare di
capire l’ingrediente magico che rendesse le fiabe così amate e richieste dai bambini di
ogni epoca e di ogni paese. L’obiettivo era anche quello di fornire una spiegazione
sulle grandi potenzialità delle storie fantastiche e sugli effetti benefici del narrare.
Il grande successo della serie di Harry Potter ha innescato la curiosità necessaria per
le stesura del quinto paragrafo: è possibile considerare le avventure del giovane mago
come una fiaba moderna, dove al posto del vecchio re troviamo un anziano Albus
Silente e dove il ruolo della regina cattiva viene ricoperto dal terribile Voldemort?
Nonostante le sue grandi potenzialità, questo genere letterario è stato vittima, nel
corso della storia, di numerose critiche e di molte riserve: è stato accusato di violenza,
di trattare temi troppo lontani dalla realtà e di promuovere ruoli eccessivamente
stereotipati. Analizzeremo insieme questi punti, cercando di capire le motivazioni
nascoste dietro ad ogni giudizio negativo.
Mi piace individuare la terza meta, LA FIABA COME PONTE TRA LE
CULTURE, non tanto come “Isola che non c’è”, quanto piuttosto come “Isola in
costruzione”. Troppo spesso e da troppe persone l’immigrazione viene vissuta
esclusivamente come un problema e una minaccia. Oltrepassando la dimensione
soggettiva, risulta però evidente che le problematiche migratorie fanno parte di
cambiamenti profondi e strutturali del nostro mondo: “diviene quindi irrinunciabile
l’esigenza di affrontarle con lungimiranza e allo stesso tempo con strumenti giuridici,
11
sociali e culturali nuovi”
1
. Questo capitolo tratta proprio il tema dell’intercultura e della
possibilità di utilizzare il genere fiabesco come spunto di unione e di comprensione di
altre culture e civiltà.
Anche l’Italia, storicamente paese di emigranti, si è velocemente trasformata, negli
ultimi decenni, nella meta di consistenti flussi migratori. Uno dei luoghi dove questo
fenomeno si è fatto sentire in modo più consistente è sicuramente l’ambiente
scolastico, dove i bambini di tutti i paesi si trovano a vivere, banco a banco, giorno
dopo giorno. La scuola viene inoltre spesso indicata come il “laboratorio” in cui
anticipare l’integrazione di domani, creando le premesse di una nuova convivenza. Nel
primo paragrafo cercheremo quindi di orientarci nei numeri forniti dal Ministero
dell’Istruzione, per fotografare al meglio la situazione italiana odierna.
Il viaggio continua attraverso le stratificazioni che si sono create nel continuo e ripetuto
scambio di conoscenze tra culture diverse; queste cessioni possono essere evidenti
anche nei più piccoli e ripetuti gesti quotidiani di ognuno di noi, come ad esempio, la
lettura di un giornale: per poter fabbricare un quotidiano si utilizza la carta, che è stata
inventata in Cina, i caratteri ideati dagli antichi Semiti, e il metodo della stampa
studiato in Germania. Nell’incontro tra culture diventa però fondamentale non chiudere
gli occhi, temendo una “contaminazione”, ma aprirli ancora di più, ispirandosi al
“pensiero migrante” proposto da Franca Pinto Minerva.
Il terzo paragrafo può essere considerato il cuore dell’elaborato, ciò che trasforma le
varie isole in un arcipelago, rispondendo alla domanda: la fiaba può avere una
vocazione interculturale? La risposta è pienamente affermativa. Attraverso il racconto
fantastico si possono infatti ideare itinerari formativi multiculturali, transculturali e
interculturali. Esistono varie metodologie per trasformare queste teorie in fatti.
All’interno del capitolo ne abbiamo analizzate tre: la didattica dei personaggi ponte con
le fiabe di Cenerentola e di Giufà, l’animazione interculturale con la presenza del
mediatore e la rappresentazione cinematografica attraverso l’analisi del cartone
animato Kirikù e la strega Karabà.
1
M. Santerini (a cura di), Processi educativi e integrazione culturale. Immigrazione in provincia di Como, Milano,
12
Come il capitolo precedente, anche questo termina con le critiche che possono essere
rivolte a questa metodologia di insegnamento, sicuramente positiva, ma anche molto
delicata a causa delle dinamiche psicologiche che possono innescarsi nel bambino
immigrato.
Approdare sull’ultima isola significa passare dalla teoria alla pratica. La quarta
tappa, IN PRATICA…FIABE. PROGETTI CONCRETI TRA FIABA E INTERCULTURA,
è infatti composta da alcuni piccoli e grandi viaggi, alla ricerca di avventure che
abbiano già utilizzato la fiaba come strumento di comunicazione interculturale. Si tratta
di progetti “micro” e a volte poco conosciuti, la cui esistenza dimostra però la voglia e
l’intenzione di procedere in una direzione nuova ed affascinante.
Il primo progetto, “Filidifiaba”, organizzato dalla Provincia di Milano, in collaborazione
con la Cooperativa Farsi Prossimo, è inserito all’interno di un’iniziativa molto più vasta,
“Riannodare i fili del tessuto famigliare”, che si proponeva di affrontare con
competenza l’integrazione delle famiglie immigrate attraverso l’elaborazione di
strumenti informativi, la formazione degli operatori, la promozione dell’incontro e dello
scambio culturale a partire dall’infanzia. Attraverso “Filidifiaba” (2002-2003) è stata
organizzata la raccolta di numerosi racconti narrati da mamme e papà immigrati. Le
storie sono state poi pubblicate, anche grazie al contributo dei ragazzi del Liceo
Artistico di Via S. Vito e degli alunni della Scuola Media per Ciechi di Via Vivaio, che
hanno rispettivamente illustrato e musicato le fiabe. L’esperienza è stata poi portata
avanti anche in alcuni Comuni dell’interland milanese. In particolare, riportiamo
l’esperienza dell’asilo nido e dello spazio gioco di Melzo, in collaborazione con la
Cooperativa Milagro.
Il teatro è sempre stato uno degli strumenti più utilizzati per trasmettere nuovi
messaggi. Il secondo progetto utilizza proprio questo mezzo per raccontare una storia
di origine marocchina, Heina e il Ghul, ma lo fa in un modo estremamente particolare:
sulla scena è presente un unico attore, Abderrahim El Hadiri, che impersona il cuoco
del maestoso palazzo di Heina. Egli è alle prese con la preparazione del pranzo per i
Franco Angeli, 1996, pag. 15.
13
festeggiare il ritorno della ragazza, che era stata rapita dal terribile Ghul.
Contemporaneamente, proprio utilizzando come personaggi gli ingredienti di uno dei
più tradizionali piatti marocchini, il cous-cous, l’anomalo chef narra ai propri spettatori
l’avventura della giovane principessa in perfetta lingua araba.
La terza esperienza, portata avanti in alcune scuole del circolo didattico di Rovereto,
unisce l’insegnamento della lingua italiana come L2 ad una riflessione sul valore della
differenza. Nella prima fase del progetto, gli studenti stranieri sono stati coinvolti nella
stesura del copione, nella produzione delle scenografie e nella rappresentazione
teatrale di una fiaba moderna, Un quadrato nel paese dei rotondi. Con l’aiuto di sei
mediatori interculturali, si è poi proceduto alla scelta e alla traduzione di alcune fiabe
popolari dei paesi di provenienza dei bambini. I racconti sono stati quindi narrati, nella
lingua originale e in italiano, in tutte le classi, analizzati e rappresentati graficamente. Il
grande coinvolgimento di alunni ed insegnanti ha portato all’elaborazione di alcuni
lavori autonomi legati al progetto.
Le conclusioni sigillano la fine di questo viaggio, almeno su questa carta che lo
ha momentaneamente ospitato.
14
CAPITOLO 1:
LA NARRAZIONE
“Fratello,
tua è la fabbrica, la casa,
il cavallo e la pistola.
Mia è la voce antica della terra.
Tu te ne vai con tutto
e mi lasci nudo
ed errante per il mondo.
Ma io ti lascio muto.
Muto!
E come farai a raccogliere il grano
alimentare il fuoco
se io mi porto via la canzone?”
2
Raramente ce ne accorgiamo, ma trascorriamo la maggior parte della nostra
esistenza immersi nella narrazione
3
. Ogni giorno, a partire dalla nostra nascita,
“nuotiamo” in un mare di storie e racconti
4
, che leggiamo, ascoltiamo, esponiamo o
vediamo, a seconda della situazione
5
.
La facoltà di narrare è una costante umana: come sottolinea Roland Barthes,
2
Leon Felipe, Hay dos Espanas.
3
Per narrazione si intende l’atto del narrare, ovvero “esporre per ordine uno o più fatti reali o inventati,
raccontare”, Grande Enciclopedia De Agostini, Novara, 1993, vol. 15, pag, 38.
4
I racconti sono presenti nella nostra vita anche nella forma di aneddoti, pettegolezzi, brevi storie di vita, diari…
5
A. A. Berger, Narratives in popular culture, media and everyday life, Londra, SAGE Publications, 1997, pag. 1.
15
questa è “come la vita, esiste di per sé, è internazionale, trans-storica, trans-
culturale”
6
. Essa è presente longitudinalmente nello sviluppo umano; le sue origini
risalirebbero, secondo lo studioso Edward M. Forster
7
, all’epoca neolitica o, addirittura,
a quella paleolitica; ne sarebbe prova la forma del cranio dell’Uomo di Neanderthal.
“L’uditorio primitivo era un uditorio di teste arruffate, raccolto a bocca aperta
intorno ad un falò da campo, sfinito contro la lotta con i mammuth o i rinoceronti
lanosi”
8
.
L’affabulazione può, quindi, essere ritenuta il dato fondante della civiltà: secondo
l’opinione diffusa, infatti, l’uomo è diventato civile nel momento in cui ha inventato la
storia, “ha imparato a vedersi e a capirsi quando ha imparato a raccontarsi, anche in
maniera molto semplice, molto primitiva, con le rappresentazioni artistiche e pittoriche
sulle grotte”
9
.
Sulla base di queste considerazioni, lo scrittore Antonio Tabucchi
10
ritiene che il
narrare sia una vera e propria esigenza intrinseca dell’uomo, una sua profonda
necessità. Attraverso il racconto riusciamo, infatti, a fissare la nostra esistenza e ad
attribuirle un senso. “Se si perdesse la capacità di raccontare non riusciremmo più a
vivere nella storia e non riusciremmo più a vivere dentro noi stessi; la vita diventerebbe
un caos completo, una grande schizofrenia in cui esplodono, come in un fuoco
d’artificio, i mille pezzi delle nostre esistenze, perché per ordinare e capire chi noi
siamo, dobbiamo raccontarci”
11
. Sono, infatti, la struttura narrativa, l’organizzazione
testuale, la sintassi che ordinano e selezionano gli eventi, i tempi, le cause e gli effetti:
“mentre si vive non accade nulla. Le scene cambiano, le persone entrano ed escono,
questo è tutto. Non ci sono inizi. I giorni si aggiungono ai giorni senza capo né coda, è
6
Roland Barthes, Introduzione all’analisi strutturale dei racconti, in Aa. Vv., L’analisi del racconto, Milano,
Bompiani, 1969, p. 7.
7
E. M. Forster, Aspetti del romanzo, Milano, Garzanti, 1991.
8
Ibidem, pag. 40.
9
P. Gaglianone, M. Cassini (a cura di), Conversazione con Antonio Tabucchi. Dove va il romanzo?, Roma, Il libro
che non c’è, 1995, pag. 7.
10
Ibidem.
11
Ibidem, pag. 6-7.
16
un’addizione interminabile e monotona […] Ma tutto cambia quando raccontate la
vita”
12
. Il momento della narrazione autobiografica ci consente, in un certo senso, di
modificare e ricostruire la nostra identità personale, permettendoci di presentarci agli
altri nel modo in cui riteniamo opportuno, rispetto ad una determinata situazione e in
conformità ai canoni del sistema simbolico culturale di cui si è parte
13
.
Tutti possediamo la facoltà di narrare, e compiamo questa azione in vari
momenti della nostra giornata, in modo casuale o in modo più sistematico. All’interno
della comunicazione quotidiana, la narrazione si costituisce come una lunga sequenza
durante la quale uno degli interlocutori prende il possesso della parola e l’altro assume
la parte dell’ascoltatore
14
. Uno dei più importanti scopi del narrare potrebbe essere
individuato proprio nella dinamica del riconoscimento che si gioca tra narratore e
destinatario
15
, permettendoci di identificare questa attività fondamentalmente come
una transazione sociale. L’ascoltatore non ricopre un ruolo totalmente passivo, ma
opera un’essenziale funzione di interpretazione del contenuto del racconto, e partecipa
ad esso anche attraverso le espressioni del volto, la propria postura, interventi più o
meno brevi. Il significato della narrazione, come quello di ogni romanzo, si realizza
soltanto grazie a questa collaborazione tra le due figure coinvolte.
Un importante fattore da sottolineare in questo contesto è il fatto che la facoltà e
la capacità di narrare subiscono inevitabilmente l’influsso del momento culturale e
dell’organizzazione sociale in cui ci si trova. Una cultura può, a seconda del modello in
base al quale è strutturata, incentivare o disincentivare questa attività. Peter Bischel,
nel suo elaborato Il lettore, il narrare
16
, riporta l’esperienza di un amico, che trascorse
molto tempo presso la tribù degli Haussa, nel Sahara. Questi uomini ritengono che
parlare, chiacchierare, esibirsi o lamentarsi non siano da considerarsi come attività
degne di un uomo valoroso, ma vengono comunemente viste come simbolo di
12
Citazione di Sartre in S. Stame, Narrazione e memoria in R. Lorenzetti, S. Stame (a cura di), Narrazione e
identità. Aspetti cognitivi e interpersonali, Bari, Ed. Laterza, 2004, pag. 7.
13
R. Lorenzetti, Tempo e spazio della narrazione autobiografica in R. Lorenzetti, S. Stame (a cura di), op. cit.,
pag. 21.
14
P. Jedlowski, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Milano, Mondadori, 2000, pag 64-65.
15
Ibidem, pag. 24.
16
P. Bichsel, Il lettore, il narrare, Milano, Marcos y Marcos, 1989.
17
debolezza e di incapacità a sopportare gli eventi della vita. “Tra gli Haussa
l’espressione per essere matto è: parla con il proprio cammello – cioè uno che
comincia a parlare perché ha paura, perché è solo”
17
. Il racconto di storie, letterarie e
tramandate, ad opera del membro più anziano viene utilizzato dagli uomini di questa
tribù, come momento comunitario, per “impedire, a sé e agli altri, di parlare”
18
.
17
Ibidem, pag. 27.
18
Ibidem, pag. 28.
18
1.1 – La narrazione oggi
“L’arte di narrare si avvia al tramonto. Capita sempre più di rado di incontrare
persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve: e l’imbarazzo si
diffonde sempre più spesso quando, in una compagnia, c’è chi esprime il
desiderio di sentir raccontata una storia. È come se ci fossimo privati di una
facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di
scambiare esperienze”
19
.
Secondo l’opinione di molti studiosi, la nostra cultura moderna tenderebbe a
riservare alla narrazione uno spazio sempre più ridotto. Le cause legate a questo
fenomeno sono le più disparate: una quotidianità contraddistinta da tempi sempre più
ristretti, una maggiore importanza attribuita ad altre forme di comunicazione, il flusso
degli eventi storici, la nascita di nuove forme narrative e di nuovi narratori… Nei
prossimi paragrafi cercheremo di approfondire alcune di queste ipotesi, nel tentativo di
comprendere i tratti caratteristici della narrazione nella nostra epoca e nella nostra
società occidentale.
1.1.1 – L’informazione
Con la nascita della stampa apparve una nuova forma di comunicazione, che si
impose immediatamente e che occupò subito un posto d’onore nella vita quotidiana
della gente: l’informazione. Questa tipologia comunicativa ricopre ancora oggi un ruolo
essenziale.
Secondo Walter Benjamin
20
, le caratteristiche dell’informazione si pongono in
netta antitesi rispetto a quelle tipiche della narrazione.
Innanzitutto, l’essenza dell’informazione può essere individuata nella novità: essa “ha il
suo compenso nell’attimo in cui è nuova. Essa vive solo in quell’attimo, deve darsi
19
W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus Novus. Saggi e frammenti,
Torino, Einaudi, 1962, pag. 247.
19
interamente ad esso e spiegarglisi senza perdere tempo”
21
. La narrazione, al contrario,
non si consuma, ma ha la facoltà di vivere a lungo nella coscienza dell’ascoltatore,
fornendo la possibilità di una continua rielaborazione del materiale offerto;
rielaborazione consentita dallo stato di distensione, oggi sempre più difficile da
provare, in cui la narrazione dovrebbe avvenire.
Per l’informazione è inoltre indispensabile apparire plausibile. Il ricorso al
meraviglioso, ad eventi fantastici, tipico della narrazione, viene quindi completamente
eliminato. Uno dei tratti essenziali e imprescindibili dell’informazione, infatti, è uno
stretto rapporto con la verità; verità con cui, al contrario, la narrazione ha un
collegamento controverso. Il racconto tende, infatti, alla verosimiglianza, in quanto
raccontare non è mai riportare un evento nella sua integrità ed oggettività: “mediante la
narrativa costruiamo, ricostruiamo, in un certo senso perfino reinventiamo, il nostro ieri
e il nostro domani. La memoria e l’immaginazione si fondono in questo processo”
22
.
Questa sua caratteristica è in parte dovuta anche all’impossibilità di eliminare la figura
del narratore, che filtra la realtà che lo circonda attraverso i propri occhi e il proprio
punto di vista. Questo essere perennemente vincolato alla voce a cui appartiene, fonte
di incertezza, è probabilmente una delle caratteristiche che ha reso il racconto
sospetto alla cultura moderna.
Infine, l’informazione è contraddistinta da “un carattere puntuale, atomistico,
slegato da antecedenti e da conseguenti”
23
: sulla stessa pagina di un quotidiano o
durante l’edizione di un telegiornale, si trovano notizie totalmente slegate le une dalle
altre. Solo confrontando notizie di giorni diversi è possibile avere la percezione di
eventi che si snodano nel tempo, ma questo andrebbe ad opporsi alla logica della
novità, prima illustrata. In questa mancanza di consequenzialità con il resto del
discorso in cui è inserita, essa mostra tutta la distanza dalla narrazione: “un racconto
non è infatti una mera collezione di frasi slegate: è una costruzione che dà ordine al
suo materiale scegliendo ciò che è significativo, condensando la vita, accelerandone o
20
Ibidem, pag. 247-274.
21
Ibidem, pag. 254.
22
Bruner in L. Lorenzetti, op. cit., pag. 21.
20
rallentandone l’esposizione, stabilendo relazioni tra evento ed evento, fra le azioni e i
caratteri, fra i caratteri e il caso”
24
.
1.1.2 – La fine delle Grandi Narrazioni e le due Guerre Mondiali
In ogni tempo, la storia dell’umanità è stata contrassegnata da Grandi
Narrazioni, che avevano lo scopo di rendere unitaria – o sotto il profilo religioso o sotto
quello politico-ideologico – l’immagine della realtà in cui l’uomo viveva, dandone una
spiegazione esauriente in tutte le sue molteplici sfaccettature. Una delle principali
caratteristiche di queste Grandi Narrazioni può essere individuata nel loro forte
carattere antropocentrico: un significato ed un senso umano vengono proiettati su
elementi della realtà, che nulla hanno di umano. Questo artificio fa parte di una serie di
strategie di sopravvivenza attuate dalla nostra specie nei confronti
dell’incomprensibilità del reale da cui tutti siamo circondati. Non essendo in grado e
non avendo le capacità per comprendere e risolvere tutti i misteri che ci si propongono,
il tentativo diviene quello di renderli più “umani” e più accettabili ai nostri occhi,
inserendoli in un orizzonte di senso più ampio. Tutto ciò ci permette di sopportare ed
attribuire un significato anche agli eventi più traumatici ed apparentemente
incomprensibili come, ad esempio, la morte o la sofferenza. Negli ultimi decenni, però,
i grandi orizzonti di senso sono entrati in crisi: è crollata “l’idea che per l’uomo sia
possibile tessere delle reti narrative che coprano esaustivamente il reale,
sovrapponendosi in modo perfetto e totale”
25
.
Uno dei momenti del crollo dell’illusione inerente alle Grandi Narrazioni e alla
costruzione di un mondo antropocentrico viene a volte individuato con la Prima Grande
Guerra: “non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte
ammutolita, non più ricca ma povera di esperienza comunicabile?”
26
. Lo stesso
23
P. Jedlowski, op. cit., pag. 180.
24
Ibidem, pag. 112.
25
R. Mantegazza, Voci antiche della terra: per una pedagogia narrativa in M. Santerini (a cura di), Processi
educativi e integrazione culturale. Immigrazione in provincia di Como, Milano, Franco Angeli, 1996, pag. 142.
26
W. Benjamin, op. cit., pag. 248.
21
fenomeno, forse in maniera ancora più amplificata, si verificò anche al termine del
secondo conflitto mondiale: tutto nacque dalla “voglia di dimenticare le compromissioni
con il fascismo, di non prendere atto delle sue implicazioni e dei problemi che
scaturivano da una continuità culturale che si preferiva negare”
27
. A questo forte
desiderio, si aggiunse anche l’incomunicabilità e inaudibilità delle storie dei deportati,
che facevano ritorno dai lager nazisti. Seguendo un racconto di Giorgio Bassani
28
,
inizialmente erano i reduci della deportazione a non voler raccontare la propria
esperienza, come per non doverla rivivere una seconda volta. Quando, però, questi
furono pronti ad aprirsi, non trovarono nessuno disposti ad ascoltarli: le loro parole
sarebbero state in contrasto con la voglia comune di dimenticare i terribili anni appena
trascorsi. Ascoltando i racconti inerenti ai fatti storici avvenuti poco tempo prima,
sarebbe stati costretti a “rivedere tutto il tessuto della vita sociale che si stava
ricomponendo: se le loro storie fossero state accettate, allora sarebbe stato il presente
ad essere assurdo, a reggersi su qualcosa di osceno”
29
. Bisogna sottolineare anche il
fatto che questi racconti, come tutti quelli di coloro che hanno subito violenze imputabili
ad altri esseri umani, avevano uno specifico destinatario: il carnefice. In questo caso,
la cerchia delle persone coinvolte venne estesa anche a tutti coloro che, con l’omertà o
con l’indifferenza, avevano permesso al carnefice di essere tale. Il racconto dei
sopravvissuti era rivolto anche a loro.
Raffaele Mantegazza, nel suo saggio Voci antiche della terra: per una
pedagogia narrativa
30
, avanza l’ipotesi che il decadimento delle Grandi Narrazioni sia
da attribuirsi anche alla fine della possibilità di esperire l’alterità. Il secolo appena
trascorso, come dimostrano i fatti storici, è stato infatti contraddistinto dalla paura
dell’Altro; questo terrore ci ha preclusi dalla possibilità di dialogare, di mettere in
comune storie personali o tradizionali. Il grande afflusso di persone provenienti da altri
paesi può divenire, forse, l’occasione ideale per riprendere questo scambio. Il tentativo
27
P. Jedlowski, op. cit., pag. 138.
28
G. Bassani, Una lapide in Via Mazzini in Dentro le mura. Il romanzo di Ferrara: libro primo, Milano,
Mondadori, 1988.
29
P. Jedlowski, op. cit., pag. 139.
30
R. Mantegazza, op. cit., pag. 139-154.
22
deve essere quello di non interrompere le narrazioni dei nuovi arrivati, per adattarle al
nostro modo di vivere e di vedere ciò che ci circonda, ma consentire loro di trasferirle
direttamente dal proprio paese di origine.
1.1.3 – La narrazione mediata.
Nella nostra società, la grande diffusione di narrazioni mediate può essere vista
sotto due diversi punti di vista, in qualche modo tra loro complementari: come una
delle cause della crisi in cui versa la capacità personale di raccontare, evidenziata
all’inizio di questo paragrafo; o come una conferma della profonda esigenza, insita in
ogni essere umano, di uno scambio di racconti. Nel mondo attuale si possono
individuare diverse grandi agenzie narrative, che occupano uno spazio preponderante
delle narrazioni della vita quotidiana di ognuno di noi: cinema, radio, carta stampata
nei suoi vari formati… È la televisione, però, che si è parzialmente sostituita ai
momenti comunitari della nostra vita, andando così ad occupare la fetta più grossa
della comunicazione nella quotidianità della maggior parte della gente:
“Qui c’erano le streghe, qui c’erano gli orchi, qui c’era un’umanità che viveva
non di televisione ma di fantasia, che passava le serate a veglia raccontando
storie che venivano chissà da dove, dai nonni, dai bisnonni”
31
.
Il generale successo dei talk-show può essere forse tradotto proprio in questa
necessità di raccontare e di vedersi raccontato nelle narrazioni degli altri. Nella loro
grande varietà, infatti, essi sono essenzialmente costituiti da narrazioni, che possono
variare dalla disputa coniugale davanti ad un giudice, passando per la storia d’amore
tra due personaggi famosi, fino ad arrivare alle macro-narrazioni, che caratterizzano
tutte le edizioni dei vari reality show. Probabilmente, la grande diffusione della
televisione è anche dovuta al fatto che questo mezzo mediatico sfrutti forme di
31
T. Terzani, La fine è il mio inizio. Un padre racconta al figlio il grande viaggio della vita, Milano, Longanesi,
2006, pag. 370.
23
comunicazione, estremamente simili a quelle utilizzate nella nostra vita quotidiana: “i
programmi televisivi non sono testi precisamente delimitati, sono piuttosto un flusso in
cui, proprio come in una conversazione, discorsi diversi si intrecciano e si
sovrappongono”
32
.
Nel tempo, gli studiosi hanno esposto opinioni estremamente diverse sulla reale
efficacia sociale di queste grandi agenzie. Raffaele Mantegazza definisce come false
le narrazioni “della pubblicità e delle telenovelas”: “false perché autoreferenziali,
veicolanti l’unico, monotono significato della ripetizione dell’assunto capitalistico del
primato del mercato; false perché sorde rispetto al desiderio di una possibile parziale
umanizzazione del mondo”. Secondo il parere dello studioso, quindi, nelle narrazioni
mediate verrebbe parzialmente a mancare quella funzione sociale di cui si parlava
sopra, incentivando così una sorta di isolamento. Bisogna però considerare il fatto che
proprio le trasmissioni televisive, i film, i reality show possono divenire uno degli
oggetti più frequenti della nostra comunicazione quotidiana: “la storia che ci ha
appassionato, la raccontiamo a chi ci sta vicino; se l’altro ha perso una puntata della
soap opera che entrambi seguiamo, gliela riferiamo; insieme valutiamo le azioni dei
protagonisti e le confrontiamo con ciò che avremmo fatto al loro posto; utilizziamo le
storie per articolare i nostri ideali, per valutare possibilità di comportamento, per
comprendere la realtà e per definire le nostre appartenenze e la nostra identità”
33
.
32
P. Jedlowski, op. cit., pag. 56.
33
Ibidem, pag. 58.