4
contrassegnati da uno stile inconfondibile, frutto di una felice unione di forma e
contenuto: il décor e le immagini denunciano l’estrema cura nella composizione
di ogni singola inquadratura, l’uso simbolico del colore ed il ritorno costante di un
certo tipo di atmosfera cupa e goticheggiante rivelano, nella loro concezione, una
serie di molteplici valenze allegoriche che si celano dietro alla perfezione grafica
e formale; a livello tematico occorre sottolineare il ritorno costante di una serie di
topoi, temi fondativi della poetica burtoniana che si intrecciano con motivi
autobiografici in una visione/rappresentazione soggettiva della realtà.
Quello di Burton è un cinema profondamente personale che, dietro le
vicende fantastiche che lo caratterizzano, rivela le tracce di uno sguardo allo
stesso tempo acuto ed ingenuo, ironico e malinconico, quello dello stesso regista.
Pur riscuotendo notevole successo anche presso il grande pubblico, Tim Burton è
un autore tutt’altro che commerciale: ad un’attenta visione delle sue opere egli
dimostra, infatti, una notevole consapevolezza degli strumenti della propria arte,
consapevolezza che deriva ovviamente da un’accurata riflessione sul cinema del
passato e da un profondo rispetto per questa forma di comunicazione.
Autore ancora più atipico proprio perché capace di conservare la propria
identità “indipendente” anche all’interno delle grandi produzioni hollywoodiane,
Burton è entrato a far parte dello star system senza tradire la propria originalità
artistica, inoltre, è stato capace di posizionarsi, con i propri lavori, all’interno di
un’area chiaramente codificata. Le opere oggetto della nostra analisi si collocano,
infatti, a cavallo tra generi cinematografici ampiamente sperimentati quali il
meraviglioso, l’horror ed il gotico; nonostante ciò il regista, pur ispirandosi ad una
tradizione iconografica precisa, è riuscito a creare una produzione estremamente
personale. La critica ha cercato le ragioni di questa originalità andando ad
5
analizzare la commistione di influenze culturali che lo stesso regista dichiara
essere alla base della propria poetica: il retaggio di una tradizione cinematografica
“nobile” unito al recupero ed all’assunzione a grado di cultura di fenomeni
folcloristici della modernità (dal fumetto al cinema di serie B) hanno portato
Burton a sviluppare uno stile visivo unico a cui poi si sono aggiunte una serie di
tematiche psicologiche personali ed autobiografiche; la continua ricerca e
rappresentazione di sé ha dato vita, film dopo film, ad una galleria di alter ego
differenti per sesso ed età, ma accomunati dalla solitudine, dalla diversità e
dall’emarginazione. La critica si è soffermata sullo studio comparato dei caratteri
dei personaggi, che ha dato buoni frutti poiché, a parte qualche eccezione, è
costante il ritorno di tematiche e comportamenti, di caratteri e dinamiche
psicologiche.
Il nostro studio vuole però affrontare la produzione di questo autore da un
altro punto di vista, isolando un aspetto specifico della poetica burtoniana toccato
da alcuni studi critici, i quali, però, non hanno approfondito l’argomento in
maniera esaustiva. Abbiamo fino ad ora sottolineato la compattezza formale e
tematica dell’opera di Tim Burton, compattezza che emerge soprattutto nella forte
presenza autoriflessiva all’interno del testo filmico. Le tracce di un enunciatore
all’interno della diegesi si materializzano in forme e modi diversi nell’arco
dell’intera produzione. Se si accetta la definizione di storia come “il luogo in cui
risuona la purezza dell’enunciato senza enunciatore”
2
ci si trova di fronte ad una
serie di testi in cui le marche del soggetto dell’enunciazione saltano fuori da tutte
le parti (autoreferenzialità, autoironia, strizzate d’occhio allo spettatore, citazioni).
2
Christian Metz, Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Venezia, Marsilio, 1980, p. 90
6
Aderendo al percorso tracciato da Christian Metz
3
nell’identificazione delle
marche di enunciazione, ossia le molteplici forme in cui l’enunciatore interviene
all’interno del testo filmico, analizzeremo la produzione burtoniana per ricercare
le forme metadiscorsive tipiche del suo cinema. La catalogazione delle varie
marche, ed il successivo isolamento delle più significative, ci permetterà di
ricostruire un vero e proprio percorso all’interno della produzione burtoniana per
arrivare a tracciare un quadro generale della poetica dell’autore. L’analisi si
soffermerà, in particolare, sulle forme enunciative che ricorrono più di frequente
all’interno del corpus esaminato, le quali, grazie al particolare significato che
rivestono nell’universo burtoniano, potranno essere utilizzate come chiave di
lettura che ci permetterà di accedere alla comprensione delle strutture profonde e
delle tematiche fondative di questo cinema.
Nel primo capitolo prenderemo in esame l’esordio del film come momento
dotato di forte presenza enunciativa. Dopo aver passato in rassegna le strutture
metadiscorsive che emergono all’interno dei singoli incipit, metteremo a
confronto i risultati ottenuti, soffermandoci principalmente sull’osservazione delle
eventuali somiglianze e differenze riscontrate nella strategia narrativa tratteggiata
all’interno delle sequenze esordiali. Gli obiettivi di questa analisi saranno
principalmente due: stabilire il tipo di istanza narrante che emerge dai singoli
esordi e verificare se, dopo aver individuato l’esistenza di alcune costanti nelle
strutture narrative, è possibile tratteggiare un modello di incipit comune a tutte le
pellicole esaminate.
3
Christian Metz, L’enunciazione impersonale o il luogo del film, Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane, 1995
7
Nel secondo capitolo la nostra attenzione si concentrerà su un altro elemento
narrativo, il flashback, e sulla valenza enunciativa che la sua presenza acquista
all’interno del racconto filmico. L’analisi si soffermerà, in particolare, su tre
pellicole: Batman, Edward Mani di Forbice e Il Mistero di Sleepy Hollow, che
includono al loro interno alcuni flashback accomunati da uno stesso contenuto
tematico. In questo caso il principale intento sarà quello di isolare ed identificare i
temi basilari contenuti all’interno delle sequenze analettiche, successivamente
questi temi verranno messi in relazione con gli altri tratti identificativi del cinema
di Burton per comprendere il significato e la funzione che i flashback assumono
nel corpus burtoniano.
Nel terzo ed ultimo capitolo, infine, verranno messi a confronto alcuni
aspetti specifici della produzione cinematografica di Tim Burton con quelli
corrispondenti di un genere letterario molto antico: la fiaba classica. Nello
specifico, l’analisi verterà sul raffronto di quattro elementi: strutture esordiali,
formule conclusive, sistema spaziale e tempo del racconto. Il fine della
comparazione sarà quello di stabilire se esiste un legame di filiazione diretta che
unisce il cinema di Burton con l’universo fiabesco, ed inoltre, cercheremo di
comprendere ed approfondire il ruolo e le funzioni che la fiaba assume
nell’universo poetico del regista.
8
CAPITOLO 1
1.1 L’incipit: la matrice del film
Il primo elemento che andremo ad analizzare per identificare i caratteri
specifici della forte presenza autoriale nel cinema di Tim Burton è l’incipit. Le
caratteristiche specifiche proprie delle sequenze incipitali hanno spinto i teorici
del cinema a focalizzare l’attenzione sull’inizio della diegesi. David Bordwell
4
,
analizzando diversi modelli di cinema narrativo, evidenzia un aspetto comune ai
vari tipi di narrazione filmica da lui elencati; chiedendosi come e in che misura il
testo filmico sveli apertamente la sua natura di racconto emesso da un narratore-
enunciatore ed indirizzato ad un pubblico, lo studioso introduce il concetto di
autoriflessività. Bordwell specifica che tutte le narrazioni filmiche sono
autoriflessive, ma alcune lo sono più di altre poiché l’autoriflessività varia in
grado e funzione a seconda dei generi e dei modelli di pratica filmica. Anche
all’interno di uno stesso film però, la progressione temporale dell’intreccio può far
fluttuare le proprietà della narrazione e queste fluttuazioni sono codificate.
Tipicamente, l’apertura e la chiusura di un film sono i momenti più
autoriflessivi, omniscienti e comunicativi; i titoli di testa e le prime inquadrature,
infatti, mostrano tracce di una narrazione aperta anche in modelli rigorosamente
codificati come quello hollywoodiano classico. Moltissimi analisti hanno insistito
sulla particolare ricchezza semantica degli inizi dei testi filmici, tanto da giungere
all’elaborazione del concetto di incipit come matrice del film: l’incipit
conterrebbe in nuce il senso ultimo del film interamente concentrato nella sola
sequenza d’apertura, il quale poi “esploderà” per diffondersi nel corso dell’intera
4
David Bordwell, Narraction in the Fiction Film, Madison, University of Wisconsin Press, 1985
9
pellicola. “Il film è sottoposto a una dinamica interna, a una generazione, a delle
compressioni e rilassamenti di forze. I titoli di testa sono la matrice di tutte le
rappresentazioni e sequenze narrative. [...] Fascinazione degli inizi, per l’analista:
raccolto su se stesso, il film espone le proprie catene significanti (l’ordine
successivo) nella simultaneità. [...] L’inizio rimane il luogo più “moderno”,
plurale, del testo”
5
. Il film si genera, dunque, proprio a partire dal suo inizio che
stabilisce le regole del gioco, inoltre le prime immagini del film determinano
immediatamente il regime di finzione e di disponibilità a credere richiesta allo
spettatore. “Si tratta sempre di operare un transfert radicale da un’istanza di realtà,
quella della sala cinematografica, a un’istanza immaginaria, quella della diegesi
filmica”
6
.
Per comprendere i meccanismi di attuazione di questo transfert all’interno
del cinema di Tim Burton, verranno prese in esame le dieci pellicole realizzate dal
regista fino ad oggi, ed in particolare le sequenze esordiali. La nostra analisi, dopo
un’accurata descrizione di ogni incipit, si concentrerà sui due versanti opposti
della narrazione: quello del narratore-soggetto dell’enunciazione e quello del
narratario-spettatore. L’esame dei vari tipi di marche enunciative sparse
all’interno delle sequenze incipitali ci permetterà di ricostruire le strategie
narrative adottate dall’istanza narrante, il modo in cui si evidenzia la sua volontà
organizzatrice e le funzioni che essa ricopre all’interno del testo filmico. Il
modello di narratore così tratteggiato ci permetterà di ricostruire quello
corrispondente dello spettatore interno al testo, il cui posizionamento all’interno
della diegesi è frutto della dimensione discorsiva del soggetto dell’enunciazione.
5
Thierry Kunzel, “Le travail du film 2”, Communications, n. 23, 1975 (citato da Jacques Aumont,
Michel Marie, L’analisi dei film, Roma, Bulzoni Editore, 1996, p. 117)
6
Jacques Aumont, Michel Marie, L’analisi dei film, Roma, Bulzoni Editore, 1996, p. 117
10
1.2 Pee-Wee’s Big Adventure
Pee-Wee’s Big Adventure (1985) è il primo lungometraggio diretto da Tim
Burton, il quale viene scelto per dirigere il film dai funzionari della casa di
produzione (la Warner) e dall’attore protagonista Paul Reubens grazie ai due
cortometraggi (Vincent e Frankenweenie) realizzati quando Burton lavorava alla
Disney come disegnatore. Nonostante l’opera manchi degli elementi
autobiografici che caratterizzeranno la sua produzione successiva, Burton riesce a
mostrare già in questo primo lavoro uno stile registico personale e visionario
infarcendo il film di elementi autoriflessivi, citazioni ed omaggi e trasformando
una sceneggiatura per bambini in un’originalissima slapstick comedy.
Il film, privo di una vera trama, anticipa una delle caratteristiche costanti
della cinematografia burtoniana: l’estrema cura dell’aspetto visivo e scenografico,
che è un elemento dominante, non è accompagnata quasi mai da una struttura
narrativa forte e lo stesso regista, in molte interviste, sottolinea come la critica
americana gli rimproveri costantemente il fatto di non saper raccontare una storia.
La ricchezza del cinema burtoniano, dunque, deve essere cercata altrove. Pee-
Wee’s Big Adventure “non racconta nulla, raccontando magnificamente”
7
, il film
altro non è che una folle sarabanda di peripezie che coinvolgono il protagonista,
Pee-Wee Herman, un incrocio tra Harry Langdon, Buster Keaton (dotato in più,
però, di una risatina acuta ed infantile) ed uno Charlot in un continuo
incontro/scontro con gli oggetti e le macchine domestiche che lo circondano.
La ricerca della bicicletta rubata da un ricco prepotente è la molla, il Mac
Guffin per dirla alla Hitchcock, che fa scattare la lunga serie di gag e di avventure
che animano la narrazione, trasformando la commedia iniziale in un road movie, il
7
Massimiliano Spanu, Tim Burton, Milano, Il Castoro Cinema, 1998, p. 34
11
quale permette al regista di giocare con i generi tradizionali incastonando di volta
in volta, all’interno della vicenda principale, l’horror, il western, la commedia
sentimentale e il musical, per poi concludere il film con una rocambolesca fuga
proprio all’interno degli studi Warner, attraverso numerosi set, con la fida
bicicletta ritrovata proprio in uno di questi set.
Passiamo ad analizzare la sequenza d’apertura del film. Dopo il marchio
della Warner Bros i titoli di testa scorrono su uno sfondo nero, accompagnati da
una musica allegra composta da Danny Elfman, autore di tutte le colonne sonore
delle pellicole realizzate da Burton (ad eccezione di Ed Wood). Il sodalizio
Burton-Elfman può scomodare tranquillamente paragoni illustri come quello
Hitchcock-Herrman o Fellini-Rota; la colonna sonora, nei film di Burton, non può
essere considerata semplice musica di sottofondo, ma diventa essenziale,
imprescindibile dalle immagini, capace di creare quelle atmosfere “alla Burton”;
usando le parole dello stesso regista “è come se Elfman avesse aggiunto un altro
personaggio a ogni film attraverso la musica”
8
ed ogni analisi formale e tematica
dell’opera di Burton dovrà tener conto di questo elemento fondamentale e del suo
strettissimo legame con le altre componenti filmiche. Inoltre, in questo caso, la
musica che accompagna i titoli di testa richiama apertamente la marcetta di Otto e
mezzo, una somiglianza tutt’altro che casuale in quanto lo stesso Burton non fa
mistero di apprezzare moltissimo la fantasia anarchica e onirica di Fellini e di
ispirarsi, talvolta, al maestro riminese ed al suo cinema visionario.
Il prologo di Pee-Wee’s Big Adventure è composto da 17 inquadrature (inq),
ed è chiaramente delimitato da due segni d’interpunzione forti (una dissolvenza
d’apertura e una dissolvenza incrociata a conclusione della prima scena).
8
Dichiarazione di Tim Burton, in Massimo Monteleone, Luna-dark. Il cinema di Tim Burton,
Recco, Le Mani, 1996, p. 137
12
Inq 1 Il film si apre sulla Tour Eiffel, ma l’illusione dura solo pochi secondi, un
travelling all’indietro ci svela che in realtà quello che stiamo guardando è solo un
cartellone pubblicitario del Tour de France; a conferma di ciò subito dopo davanti ad esso
sfreccia un gruppo di ciclisti che percorre a gran velocità un strada di campagna a fianco
della quale corre una staccionata bianca decorata con bandiere francesi.
Inq 2 Una carrellata laterale accompagna la corsa dei ciclisti finché, all’improvviso,
questi vengono superati da un buffo personaggio vestito con un completo grigio, Pee-Wee
Herman, in sella ad un’enorme bicicletta rossa.
Inq 3-7 Si alternano piani frontali e laterali che mostrano le varie fasi della corsa, con i
ciclisti che cercano ripetutamente di superare Pee-Wee, senza riuscirvi.
Inq 8 Totale dall’alto di un lunghissimo viale alberato. In primo piano campeggia lo
striscione che indica l’arrivo del Tour. Man mano che i ciclisti si avvicinano al traguardo
la macchina da presa (mdp) si abbassa fino a raggiungere il livello della strada proprio nel
momento in cui Pee-Wee taglia il traguardo tra due ali di folla festante.
Inq 9-10 Pee-Wee viene sollevato dal pubblico e portato in trionfo in un tripudio di
coriandoli e palloncini, poi viene condotto davanti al palco della premiazione.
Inq 11 Mdp a livello del terreno, forte angolazione dal basso verso l’alto, Pee-Wee si
avvicina alla miss che ha il compito di premiare il vincitore del Tour.
Inq 12-14 Campi/controcampi sulla linea dei 180°. Si alternano i primi piani (PP) di Pee-
Wee e della miss che sta deponendo una corona sulla sua testa. L’azione sembra quasi
rallentata, la musica crea un effetto di suspence. Nell’inq 14 la mdp si avvicina sempre di
più al volto di Pee-Wee fino al primissimo piano (PPP).
Inq 15-16 All’improvviso lo squillo di una sveglia fa fuggire tutti. Nel totale dall’alto
dell’inq 16 vediamo premiatori, pubblico e fotografi correre via lasciando Pee-Wee, da
solo, nel bel mezzo del prato, davanti ad un palco vuoto.
Inq 17 PPP di Pee-Wee con gli occhi chiusi in attesa della sua corona. Dissolvenza
incrociata del PPP di Pee-Wee con un altro PPP (inq 18) del nostro protagonista, stavolta
con la testa appoggiata ad un cuscino rosso. Un movimento di gru verso l’alto ci mostra
che il suono della sveglia, che è la causa dell’interruzione del sogno, proviene dalla sua
stanza.
L’incipit di Pee-Wee’s Big Adventure è caratterizzato da una serie di
inquadrature che variano per durata ed angolazione, il ritmo all’interno della scena
è rapido e vivace, tutte le inquadrature sono separate da stacchi, ad eccezione,
come già detto, delle due dissolvenze all’inizio ed alla fine. La presenza
13
enunciativa in questo incipit è molto forte, Burton non si risparmia angolazioni
atipiche e movimenti di macchina improvvisi che “rendono manifesta la presenza
di un dispositivo”
9
(cioè la macchina da presa) fin da subito, catalizzando
l’attenzione dello spettatore non solo sul “cosa” viene mostrato, ma soprattutto sul
“come”. L’intera scena è accompagnata da una musica extradiegetica che rafforza
il contenuto delle immagini, contenuto che, come scopriamo solo con l’ultima
inquadratura, è di stampo onirico. Quello che apre il film, infatti, è un sogno del
protagonista che, grazie alla sua amata bicicletta, sale sul podio del Tour de
France, acclamato dalla folla festante. Con l’ultima inquadratura dell’incipit lo
spettatore si “risveglia” insieme al protagonista, rendendosi conto che quello che
sta vedendo non è il film, ma un film nel film.
Possiamo infatti affermare che ogni sogno ha un contenuto diegetico. “La
storia del film si sviluppa sempre chiaramente, è una storia raccontata, una storia,
insomma, che è rivestita da una narrazione. La storia del sogno è una storia pura,
una storia senza narrazione, che affiora nel tumulto o nelle tenebre, una storia che
non viene a formare alcuna istanza narrativa, una storia che non viene da nessun
posto, che nessuno racconta a nessuno. E tuttavia è ancora una storia”
10
. Il sogno è
quindi a tutti gli effetti un racconto secondo per quanto riguarda l’effetto di
“frattura” che causa nella diegesi, e per questo è assimilabile alle altre forme di
raddoppiamento e di riflessione di cui Metz evidenzia la natura enunciativa,
seppur specificando che esistono diversi gradi di forza enunciativa a seconda del
rapporto che lega il racconto primo e i racconti secondi incastonati in esso (il
grado forte sarà la mise in abyme più pura, “quando il film nel film è il film
9
Christian Metz, L’enunciazione impersonale o il luogo del film, Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane, 1995, p. 42
10
Christian Metz, Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Venezia, Marsilio Editori,
1980, pp. 115-116
14
stesso”
11
). La scelta di Burton di aprire il suo film con un sogno mette in gioco una
serie di problematiche che cercheremo di approfondire nella nostra analisi di
questo incipit, affrontando dapprima gli aspetti formali della scena, poi
soffermandoci sugli aspetti tematici ed infine sull’enunciazione.
1) Aspetti formali. Fin dalle origini, il cinema ha sempre tentato di
trasporre sullo schermo il sogno e gli stati onirici (allucinazione, follia, etc.), in
parte per sottolineare quanto il suo stesso statuto sia costitutivamente onirico (la
sala oscura che equivale ad una “caduta nell’inconscio”, la stessa definizione di
“fabbrica dei sogni”) e moltissimi teorici si sono soffermati sul rapporto cinema-
sogno evidenziandone somiglianze e differenze. Tuttavia la rappresentazione
cinematografica del sogno ha posto molti problemi, in quanto la “logica del
sogno” (ampiamente studiata da Freud) è determinata dal processo primario,
processo che entra in azione solamente durante il sonno regolando l’attività
dell’inconscio e che stabilisce una logica basata sui principi di condensazione e
spostamento, gli stessi principi grazie ai quali “un oggetto può trasformarsi,
all’istante, in un altro senza provocare lo stupore del sognatore e una figura umana
può farsi riconoscere chiaramente come essendo due persone
contemporaneamente”
12
. Perciò la rappresentazione del sogno risulta molto spesso
artificiosa, sia perché deve “marcare” la natura mentale delle immagini che mostra
(in modo da distinguerle dalle immagini “reali”) sia perché deve imitare il
funzionamento del processo primario.
“Il film si trova in difficoltà nell’intento di raggiungere l’autentica assurdità,
l’incomprensibile puro, ciò che il più comune dei nostri sogni raggiunge
11
Christian Metz, L’enunciazione impersonale o il luogo del film, Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane, 1995, p. 118
12
Christian Metz, Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Venezia, Marsilio Editori,
1980, p. 113
15
immediatamente e senza sforzo. È per questa ragione, probabilmente, che sono
quasi sempre tanto poco credibili le “sequenze di sogno” che figurano nei film
narrativi”
13
. Per risolvere il problema molti cineasti hanno scelto di “ricorrere a
stilizzazioni scenografiche di matrice espressionista o surrealista”
14
e di saturare le
sequenze oniriche con i più svariati effetti ottici (distorsioni prospettiche, flou,
filtri, mascherini, sovrimpressioni) col risultato che viene a mancare una delle
proprietà costitutive dell’esperienza onirica, l’impressione di realtà (o illusione di
realtà, come la chiama Metz).
Burton, per la resa iconica del suo sogno, sceglie delle soluzioni visive non
troppo marcate o artificiose: le immagini che noi vediamo all’inizio non hanno
quell’impatto tipico di altre sequenze oniriche, lo spettatore rimane affascinato
dalla vivacità dei colori e dalla sapienza con cui la mdp si muove nello spazio
diegetico, ma non riconduce immediatamente ciò che vede ad un sogno (almeno
ad un primo sguardo), casomai ad una più generale atmosfera giocosa ed infantile
che sarà tipica del resto del film. La sequenza onirica è marcata a posteriori e
Burton sfrutta dapprima un espediente sonoro; dall’inquadratura 15 lo squillo
insistente di una sveglia irrompe nella diegesi interrompendo la premiazione di
Pee-Wee e facendo fuggire tutti coloro che si trovano intorno a lui. Lo stesso
spettatore è disorientato, da dove proviene il suono? Quello che sentiamo ha tutta
l’aria di essere un suono extradiegetico, perché non ha alcun tipo di legame con le
immagini e con la situazione rappresentata, eppure i personaggi (tranne Pee-Wee)
hanno mostrato di udirlo perfettamente e di percepire qualcosa di minaccioso che
li ha fatti fuggire. Questo espediente stimola lo spettatore ad esercitare le sue
capacità predittive e nello stesso tempo genera un’attesa che culmina nella
13
Ivi, p. 112
14
Alberto Boschi, “I wake up screaming: la messa in scena del sogno nel noir”, Cinema &
Cinema, n. 61, maggio-agosto, 1991, p. 52
16
suspence. Il mistero viene svelato tre inquadrature dopo, con una dissolvenza
incrociata che ci mostra, infine, il volto del protagonista dormiente. Il regista
sceglie quindi una soluzione classica, servendosi del segno di interpunzione che
ormai, nella grammatica filmica, viene utilizzato per identificare il sogno,
specialmente quando la dissolvenza incrociata è seguita dal PPP del protagonista
che dorme, come in questo caso. A posteriori notiamo come una lieve atmosfera
onirica pervadesse la scena grazie anche all’atmosfera creata dalla colonna sonora
e ad un moderato uso del ralenti in alcune inquadrature, ma solamente alla fine
dell’incipit lo spettatore avrà la certezza che quello che ha visto è solo un sogno.
2) Aspetti tematici. Il contenuto del sogno che apre il nostro film è la
proiezione mentale di una bambino troppo cresciuto, il sogno di un bici-maniaco:
vincere il Tour de France. La rappresentazione della gara, però, non ha niente di
realistico. La corsa si svolge in una strada di campagna delimitata da una
staccionata bianca che ha ben poco del paesaggio francese, anzi “chiaramente non
può che trovarsi nella California meridionale”
15
. Nonostante la staccionata sia
costellata di bandiere francesi, chiunque abbia visto almeno una volta il Tour in
televisione o abbia una vaga idea del paesaggio francese difficilmente può essere
ingannato. Quella che vediamo non è la Francia, ma una fantasia, una
rappresentazione mentale della Francia e del Tour come se li potrebbe immaginare
un appassionato di sport che non vi è mai stato (e che è dotato di una vivace
fantasia). Inoltre Pee-Wee supera un gruppo di corridori professionisti su bici da
corsa superaccessoriate vestito nella stessa buffa “divisa” (completo grigio e
farfallino rosso) che indosserà per tutto il resto del film e con un’enorme (e
15
Ken Hanke, Tim Burton. Una biografia non autorizzata, Torino, Lindau, 2001, p. 67
17
pesantissima) bici anni ’50. Lo spettatore di finzione
16
che viene attivato in questa
prima scena (non dimentichiamo che i titoli di testa del film scorrono su uno
sfondo nero, perciò queste sono le prime immagini che vediamo) viene sollecitato,
mediante gli indizi che gli vengono forniti dalle immagini, alla ricomposizione del
mondo testuale. Le informazioni date (il cartello pubblicitario con la scritta Tour
de France, le bandiere francesi disseminate ovunque) ci conducono su una pista
falsa, verso la ricostruzione di una realtà diegetica che, dopo un attento esame,
non può essere realistica, ma appartiene al mondo del sogno. L’atmosfera onirica
della scena, quindi, è legata più al contenuto delle immagini che non alla forma.
Dopo aver verificato ciò possiamo provare a rispondere ad una altra
domanda: qual è la funzione di questo sogno? Indagando le ragioni della messa in
scena del sogno filmico, che peraltro è posto in una posizione di privilegio proprio
come esordio della narrazione, ci si può collegare all'idea, all'immagine, che il
film vuole offrire e all’importanza che il sogno assume rispetto alla situazione del
personaggio. In questo caso la scena non riveste una funzione narrativa vera e
propria, non porta avanti l’azione, che per l’esattezza non è neanche cominciata, è
“un’oziosa digressione” che serve ad introdurci nel mondo fiabesco di Pee-Wee, a
far scivolare lo spettatore in un’atmosfera giocosa e burlesca che permea tutto il
film, a farci “entrare nella finzione” dell’universo burtoniano.
3) Enunciazione. Il sogno ha una doppia natura enunciativa. Ad un primo
livello, come abbiamo già notato precedentemente, esso può essere considerato a
tutti gli effetti un racconto secondo incastonato nella narrazione principale e,
come tale, ha la valenza enunciativa (e riflessiva) del film nel film. Ma c’è di più.
Leonardo Quaresima cita un interessante contributo di Jacqueline Risset in cui si
16
Ruggero Eugeni, “Nascita di una finzione. La costituzione dello spettatore nei titoli di testa di
Via col Vento”, in Gian Paolo Caprettini, Ruggero Eugeni (a cura di), Il linguaggio degli inizi.
Letteratura, cinema, folklore, Torino, Il Segnalibro, 1988