vuol lasciare un ricordo indelebile e vibrante. Il Cristo è un “libro pittorico” e non a caso, infatti,
un’amica che l’ha letto, rispondendo alla mia domanda su come l’avesse trovato, mi ha risposto:
«Ma non succede niente!». Come un dipinto, come una foto, l’opera leviana è un’istantanea,
racconta di un anno come se fosse trascorso un secondo, descrive episodi e aneddoti come se fossero
favole, incastonandole tra le descrizioni rapide e incisive, o cariche e particolareggiate come
pennellate di colore, mai ridondanti, sempre essenziali. Tuttavia, sembra che non accada nulla, ogni
giorno pare uguale all’altro (e come potrebbe essere altrimenti per un uomo costretto a vivere in un
luogo non suo?), come una continua digressione che anticipa l’evento principale. Eppure, a ben
guardare, di cose ne succedono, e molte. Succede la vita quotidiana, la vita di tutti i giorni, si narra la
normalità alianese con l’occhio attento dello straniero. Succedono le malattie, l’arrivo della posta la
sera, le passeggiate al cimitero, i discorsi di magia, la morte, gli odi tra le famiglie borghesi, il
riempimento delle brocche alla fontana, l’ascolto del vento nelle notti invernali, l’osservazione dei
calanchi in mutamento a causa delle piogge, e poi gli eventi davvero importanti come la processione
della Madonna, l’eclissi di sole, l’arrivo del sanaporcelle. La pesante noia alianese emerge dalle
pagine del romanzo e sembra che il tempo non scorra: anzi, davvero il tempo non scorre. Tutto resta
immutabile e sempre uguale, sommerso dalla passività contadina e dall’assenza di speranza. “Non
accade nulla” perché “nulla” accade nella realtà alianese e il “niente” è una costante nelle frasi dei
contadini. Ma per un osservatore attento, curioso, che legga tra le righe, accade molto:
semplicemente, accade la vita.
Il mio studio tenta di presentare brevemente l’autore non solo da un punto di vista biografico, ma
anche attraverso le critiche che gli sono state mosse, e di tratteggiare gli elementi fondamentali della
sua opera sia attraverso un’analisi testuale che attraverso un’analisi tematica; si propone soprattutto
di focalizzarsi su una tematica particolare: la figura femminile. Essa non comprende solo i ritratti
delle donne incontrate da Levi durante il confino, ma si estende a un concetto più ampio di
femminilità, che si individua nel corso di tutta l’opera, si insinua tra le righe, emerge in modo
prepotente nelle descrizioni delle streghe o di alcune donne alianesi, e traspare in modo meno
chiassoso nelle narrazioni e nelle descrizioni. Semplicemente, la vita alianese è regolata da potenze
femminili, fortissime: la magia, la Madonna e la Madre Terra. Se a una prima lettura del Cristo la
figura della donna può sembrare priva di una rilevanza particolare, e tutt’al più incuriosisce il ruolo
misterioso della strega, a una lettura successiva le streghe diventano più umane, e la presenza
femminile si avverte come più estesa, forte, indispensabile. Molti sono i ritratti delle donne lucane,
descritti ora con minuzia di particolari, ora con i caratteri essenziali e sufficienti a far comprendere al
lettore il tipo di personaggio. Dalle contadine alle attrici, dalla “padrona del paese” alle streghe,
l’universo femminile è vasto e variegatissimo; le scene collettive sono forse ancor più interessanti
per i paragoni che l’autore propone, per le immagini che le donne in gruppo evocano nella sua mente
e che egli riporta nel testo: sono simili a uccelli, barche, animali del bosco, o talvolta a statue e dee
della mitologia greca e romana. Non la bellezza ma lo sguardo intenso e curioso, non la
consapevolezza e la volontà ma la passività e la rassegnazione sembrano caratterizzare queste donne,
a volte timide e ritrose, a volte lascive, a volte materne. L’accostamento tra il mondo femminile e
quello animale è costante: è come se l’autore non riuscisse a individuare che sprazzi di natura umana
nelle donne lucane, la cui essenza è fortemente animalesca, ancestrale, passionale. Il modo di
muoversi da sole o in gruppo, lo sguardo, i gesti, i corpi stessi, l’atteggiamento lasciano trasparire
qualcosa di animale, di primitivo, e l’autore lo sottolinea spessissimo con i paragoni e le descrizioni:
non c’è la natura umana, non c’è l’individuo, non c’è la donna come si è soliti considerarla. Eppure,
il continuo rimando della figura femminile al mondo animale non ha un fine di svalutazione o
disprezzo, non ha valore regressivo. Semplicemente l’autore si cala in modo completo nell’ambiente
alianese dove uomini e animali vivono insieme: in casa, sul letto dormono le persone, sotto il letto le
piccole bestie, a fianco del letto l’asino. Gli animali sono indispensabili per la sopravvivenza
contadina, sono allo stesso livello dell’essere umano: l’associazione tra la donna e l’animale non è
perciò negativa, ma naturale.
La presenza di femminilità nel romanzo si deve poi alla Madonna, in particolare quella del santuario
lucano di Viggiano, costantemente invocata, pregata e temuta, che regge le esistenze degli uomini e
decide se far vivere o morire. E alla Madre Terra, fondamentale per la vita dei contadini, che dona i
prodotti del raccolto, o si inaridisce lasciando morire di fame. Queste figure onnipotenti sono
presenti in tutto il testo leviano e, anche se non evocate direttamente, si intuisce all’interno delle
vicende narrate il loro peso e la loro costante e vitale importanza.
Elementi, inoltre, strettamente connessi con il mondo femminile sono la magia e il lamento funebre:
la prima è essenzialmente di dominio delle streghe, additate come pericolose dai galantuomini,
cercate dai contadini per la preparazione di filtri amorosi o guaritori; il secondo è un rito antico
messo in atto dalle parenti e dalle conoscenti del defunto, avente valore di onorare la passata
esistenza del congiunto e di dimostrare il generale cordoglio. Ho voluto approfondire queste
tematiche poiché sono a mio parere interessanti per comprendere usi, costumi e tradizioni della
comunità lucana negli anni Trenta e poiché hanno le donne come protagoniste principali. Alcune
delle pratiche magiche attuate non sono tuttavia relegate alla prima metà del Novecento, ma
permangono tuttora in alcuni piccoli centri del Mezzogiorno. Infine, ho posto attenzione anche al
rapporto tra i sessi nella civiltà alianese, basato su antichissime e assolute regole e su rigorosi divieti
volti a prevenire contatti illegittimi tra donne e uomini. La società alianese stessa è, infine, basata su
un regime matriarcale: in una comunità ove gli uomini sono spesso fuori casa e l’unica presenza
davvero costante sono le donne, queste ultime sono le uniche responsabili della crescita e
dell’educazione dei figli.
Ponendo attenzione alle tracce di femminilità disseminate in tutto il testo, ci si accorge che esse sono
le vere protagoniste, e non un semplice sfondo, dell’opera leviana. L’universo femminile è, in un
certo qual modo, il filo conduttore attorno al quale si svolge la vicenda, una presenza che, se anche
non sempre direttamente richiamata, si intende come costante. Non in tutta l’opera, ad esempio, si
parla del culto mariano o della infelice condizione dell’arida terra lucana ma, dai passi in cui se ne
racconta, si comprende come la vita contadina dipenda dal volere della Madonna e della Madre
Terra; così, l’esistenza umana è nelle mani delle streghe che, come antiche Parche, decidono di far
guarire, innamorare o morire. Un’alternanza permanente tra vita e morte si dipana all’interno del
testo; vita e morte dai confini labilissimi e fragili; vita e morte governate dalle potenze femminili:
magiche, terrestri o celesti.
All’interno della trattazione ho proposto anche tre possibili confronti: uno tra l’esperienza di confino
di Levi e quella di Pavese; un altro tra il viaggio leviano e quello di Conversazione in Sicilia di
Vittorini; il terzo tra la figura femminile predominante del Cristo, Giulia La Santarcangelese, e la
Lupa di Verga. Le due esperienze di confino, pur essendo esperienze di viaggio, sono
essenzialmente differenti tra loro: quella rievocata da Levi, al contrario di Pavese, non è un “carcere”
esistenziale, ma è il raggiungimento del proprio essere profondo, e testimonianza di una società
“altra” e lontanissima; nel loro confronto ho cercato di focalizzarmi sempre sulla figura femminile:
se nel Cristo, come già accennato, essa va oltre il ritratto delle singole donne di Aliano per
comprendere presenze più potenti e astratte, nel Carcere pavesiano si individuano rare figure
femminili, sempre concrete: sono donne in carne e ossa, umane a tutti gli effetti e riconosciute in
quanto tali; ma i paragoni col mondo animale hanno qui valore peggiorativo e dispregiativo. L’opera
di Vittorini è accomunata a quella di Levi per la tematica del viaggio nelle regioni del Mezzogiorno
e per il desiderio di denuncia sociale. Le figure femminile in Conversazione in Sicilia sono due e
simboliche: la madre, sola e risoluta, ma soprattutto capace di perdonare; la statua femminile,
onnisciente ma sofferente e materno simbolo del dolore del mondo. Nel confronto fra Giulia e la
Lupa, entrambe figure intense e fortemente connotate, emergono differenze che evidenziano la
diversa considerazione del ruolo della donna in Lucania e in Sicilia: mentre nel primo caso la donna
può essere amante e madre allo stesso tempo, senza che ciò provochi scandalo nè costituisca
peccato, nel secondo caso il ruolo femminile è essenzialmente quello materno. Mentre nel primo
caso la sensualità della strega è fredda, celata dietro un’antica passività, nel secondo caso la Lupa ha
una sensualità travolgente e distruttiva.
Come sottolinea Carducci, il Cristo risponde al bisogno leviano di riandare alle vicende del suo
confino, a otto anni di distanza: un’esigenza di autoricognizione, di confronto implicito tra gli
strumenti della propria analisi di alto intellettuale borghese e quelli ancestrali della “alterità”
primitiva. E risponde anche a un’esigenza di riflessione collettiva in un periodo, quello della
Resistenza, in cui la letteratura si configurava come lo strumento più adatto per il ripensamento del
passato e la comprensione del presente (Carducci 1999: 139-143). Un’opera, quindi, che è prima di
tutto risposta a una necessità personale dell’autore, e poi testo che regala al lettore uno spaccato di
vita, un frammento di una realtà vera e così diversa da quella a cui era generalmente abituato.
Bronzini fa notare che in questo testo i protagonisti sono gli umili e i vinti, ma non gli umili
manzoniani, modelli di una sofferenza morale dovuta ai soprusi dei potenti, né i vinti verghiani,
esempi di una sofferenza economica e sociale dovuta al lavoro stesso, bensì personaggi e paesi reali,
con i loro pensieri e comportamenti e con le loro strutture arcaiche, legati al passato e condizionati
dal passato (Bronzini 1981: 13).
La Lucania è, per il confinato, un luogo vero, reale, molto più di tutti gli altri luoghi:
La Lucania mi pare più di ogni altro, un luogo vero, uno dei luoghi più veri del mondo […]. Qui ritrovo la misura delle cose […] le
lotte e i contrasti qui sono cose vere […] il pane che manca è un vero pane, ma casa che manca è una vera casa […]. La tensione
interna di questo mondo è la ragione della sua verità: in esso storia e mitologia, attualità e eternità sono coincidenti (in De Donato
2001: 162-162).
«Eboli, punto di confine del passaggio in Lucania, assurge a simbolo di tale separazione, valevole
per molte altre separazioni che si verificano nel mondo» (Bronzini 1998: 17). Se sul piano reale
Eboli costituisce un punto terminale della civiltà industriale, sul piano mitico può essere considerata
la porta dell’inferno, un punto estremamente critico.
La Lucania smette presto di essere una regione circoscritta e diventa modello di altre Lucanie,
paradigma per altre terre separate come la Sicilia, la Sardegna, la Germania, il Vietnam. Levi ritrova
la Lucania altrove e la rintraccia un po’ in tutti noi:
Non crediate che quest’altra civiltà, quest’altro mondo, che si può chiamare il Mezzogiorno, o il mondo dei contadini, o il paese che è
al di là di Eboli […] sia qualche cosa di nettamente separato e geograficamente determinato. […] non soltanto lo si trova vicino a noi
in qualsiasi paese dove noi ci troviamo ad abitare, ma è dentro di noi, dentro a ciascuno di noi, è un elemento della nostra stessa vita,
della nostra persona, un elemento fondamentale non eliminabile (De Donato 2001: 206).
Per Carlo Levi, un’esperienza di forzato allontanamento dai propri luoghi e dai propri affetti, che si
preannunciava triste e opprimente, si è rivelata momento di scoperta e punto di partenza per altre
mete, altri viaggi in direzione di altre Lucanie. Il carattere di quest’uomo, le sue risorse, la sua
curiosità aperta, la tolleranza e l’equilibrio lo hanno portato a trasformare un momento negativo in
un quadro di vita vissuta, in un concentrato di usi e costumi di una realtà “altra”, in una denuncia
delle condizioni misere e sconfortanti di tanti contadini, in un’opera dove vita e morte si alternano e
si confondono. Lo stesso Levi, in una lettera del 1963 all’editore Giulio Einaudi scrive:
[…]La sola grande fortuna di quel giovane fu di essere (per età, per formazione,per carattere, per impossibilità di accettare un
mondo negativo) così libero dal proprio tempo, così da esso esiliato, da poter essere veramente un contemporaneo: e non soltanto un
contemporaneo della contemporaneità illimitata, ma, nei fatti, un contemporaneo degli uomini nuovi, dei piccoli, degli oscuri con cui
ebbe la ventura di vivere e di formarsi e conoscersi. Così egli si trovò ad essere adolescente con un mondo adolescente e ineffabile, e
giovane con un mondo giovanile di drammatica e pericolante liberazione, e adulto col farsi adulto di quel mondo, in tutti gli esseri
fraterni di tutte le Lucanie di ogni angolo della terra […].
L’estrema vicinanza tra sé e i contadini di tutte le Lucanie, il senso di profonda comunanza, il
fortissimo rispetto per la vita contraddistinguono l’esistenza di Carlo Levi e l’opera
1
che lo ha reso
famoso; egli, attraverso un io autobiografico, è diventato personaggio tra gli altri personaggi, si è
reso testimone di un tempo e di un mondo situati fuori dalla storia.
3.
TRACCE DI FEMMINILITA’
Strega con filtri veri
m’hai legato alla tua terra:
il mio cuore si serra
d’esser così lontano […]
2
Come già accennato nel precedente capitolo (vedi par. 2.5.8.), la popolazione di Aliano appare agli
occhi del lettore come un gregge, come un soggetto collettivo in cui non si distingue alcuna
identità. Ciò è senz’altro vero a livello generale, ma è anche vero e ovvio che il narratore-
personaggio ha avuto modo di approfondire la conoscenza di alcuni alianesi , e di essi ha riportato
le relative descrizioni.
In Cristo si è fermato a Eboli vengono presentati, descritti, indagati i caratteri di diversi personaggi.
Di alcuni vengono accennati solamente alcuni particolari somatici o biografici; di altri si ha una
trattazione più approfondita, sia perché il narratore è stato con essi a più stretto contatto, sia per la
rilevanza e la curiosità delle loro caratteristiche.
In generale, gli esponenti della piccola borghesia sono descritti con toni ironici e pungenti, volti a
sottrarre a questi personaggi l’alone di autorità e sussiego che sfoggiano. Il volgo, invece, è
descritto con toni meno aspri, la critica è affievolita, il senso di fastidio provato da “don” Carlo a
contatto con i “galantuomini” lascia il posto a un senso di desolazione e rassegnazione nei confronti
dei contadini. In particolare, la descrizione delle singole figure femminili è spesso piuttosto
1
Ogni citazione dall’opera di Carlo Levi contenuta nella presente trattazione è tratta da Cristo si è fermato a Eboli,
Torino, Einaudi, 2003
2
Levi C. (1990), p. 135
dettagliata, e quella delle donne in gruppo particolare. Nel Cristo si trovano frequenti e interessanti
tracce di femminilità, dal potere sia vitale sia mortale.
1.1. CONTESTO STORICO
Le donne lucane degli anni Trenta, così come sono descritte nel Cristo, sono estremamente lontane
dall’immagine di donna che, nell’Italia economicamente più avanzata e moderna, si dava da fare
per ottenere la tutela del lavoro e della maternità, e il miglioramento delle condizioni di vita. Il
periodo storico di cui scrive Levi si trova praticamente a metà tra lo sviluppo dei primi movimenti
femministi, che hanno avuto luogo tra la fine dell’ Ottocento e l’ inizio del Novecento, e la
successiva e più famosa ondata della fine degli anni Sessanta. A partire dalla fine del XIX secolo,
negli Stati Uniti e in Europa il concetto di maternità inizia a essere promosso come valore sociale e
fondamento per la costruzione dell’identità sociale e politica delle donne. Le donne cercano di
trovare legittimazione non solo come mogli e madri, ma anche come cittadine. In Italia, nel 1902,
gli sforzi del socialismo e del femminismo si coniugano per ottenere l’approvazione della legge sul
lavoro delle donne e dei bambini, e nel 1910 viene istituita la Cassa di Maternità per l’assistenza
delle operaie madri. Nel 1925 nasce l’ONMI (Opera Nazionale per la Maternità e l’Infanzia) che
forniva assistenza alle madri povere e alle madri nubili, e si occupava dei bambini abbandonati.
Con il Regio Decreto Legge n. 850 del 13 maggio 1929 viene concesso, alle neo mamme, un
periodo di astensione dal lavoro e la garanzia del mantenimento del posto di lavoro. Una legge del
1934, inoltre, prevede norme di tutela per le donne che svolgono lavori dannosi per la salute.
Tuttavia, se è vero che il regime fascista adotta politiche a favore dell’incremento demografico, è
anche vero che al centro del proprio progetto non c’è tanto la tutela delle donne e delle lavoratrici
madri e dei loro diritti, quanto una politica demografica di rafforzamento della razza a scopi bellici:
uno Stato molto popoloso, infatti, avrebbe reso necessaria un’azione espansionistica e coloniale. Lo
Stato tende a rafforzare l’idea di una famiglia centrata sul ruolo del padre: alla fine degli anni Venti
viene introdotta una riduzione delle tasse per il capofamiglia in base alla moglie e al numero dei
figli, e nel 1936 gli assegni familiari per moglie e figli a carico vengono corrisposti ai padri che
hanno un lavoro. Nelle parole di Mussolini, i figli sono la prova della virilità, e il regime si unisce
alla Chiesa nella denuncia dei metodi anticoncezionali. Infine, si cerca di relegare le donne nella
sfera familiare: nel 1923 si impedisce loro di ricoprire la carica di presidi di scuola media; nel 1926
si vieta di insegnare storia, economia, filosofia nelle scuole medie superiori; nel 1934 di accedere a
concorsi pubblici, finché, nel 1938, si impone alla pubblica amministrazione e all’impresa privata
un tetto massimo del 10% di assunzione del personale femminile. La perfetta donna fascista è un
ibrido: serve tutti i bisogni della famiglia e al contempo si fa carico dell’interesse dello Stato. Il
fascismo, infatti, istituisce la “Giornata della fede” in cui le donne, ricche e povere, nubili e
sposate, laiche e religiose, vengono caldamente invitate a donare il proprio oro all’ altare della
Patria, dimostrando la propria fiducia nello Stato di Mussolini.
In ogni caso, parlare di movimenti femministi e di coscienza di identità pare decisamente
anacronistico in una realtà come quella di Aliano. Lo Stato è un male inevitabile, e da Roma non
arriva nulla di buono, secondo i contadini lucani. Una sola cosa arriva ad Aliano, la “Giornata della
fede”: alle povere donne alianesi viene fatto credere che consegnare l’oro è obbligatorio, persino il
Papa l’avrebbe ordinato, e le donne si privano così dei loro anelli nuziali, ricordi degli antichi
matrimoni e dei mariti scomparsi oltreoceano (p. 214). Le leggi sulla tutela del lavoro femminile
non paiono però sfiorare minimamente le donne del Cristo, anche perchè si rivolgono alle operaie
cittadine; gli avvenimenti che si svolgono dentro e fuori dall’Italia, a parte le notizie della guerra
d’Africa, non raggiungono quelle terre malariche. L’analfabetismo imperante e la povertà
impediscono a chiunque di studiare; la popolazione vive unicamente, e a stento, di agricoltura: i
provvedimenti che limitano il ruolo femminile di insegnante e l’assunzione femminile nelle
imprese, perciò, sono assolutamente inutili ad Aliano. Ad Aliano non è arrivato Cristo, né il tempo,
né l’anima, né la speranza, né la storia. Non è giunto neppure lo Stato fascista: le sue leggi, ad
Aliano, non trovano ragione d’esistere. Pertanto, come potrebbero essere giunte la coscienza e il
desiderio di emancipazione femminile?
1.2. UNA SOCIETA’ MATRIARCALE
Aliano è un paese basato su un regime matriarcale. Molti uomini emigrano in America, lasciando le
mogli a casa. Per i primi due anni scrivono lettere e inviano denaro, dopo, pian piano, i contatti si
diradano, le lettere non vengono più spedite, e le donne perdono le tracce dei loro uomini. Questi si
costruiscono probabilmente un’altra famiglia nel “paradiso americano” e le mogli alianesi trovano
un altro o più compagni e nascono dei figli. Ad Aliano molti sono i figli illegittimi: ciò non è
sconveniente per le donne, e tanto meno per gli uomini, tant’è che i preti stessi hanno dei figli, e ciò
non li disonora. I figli sono amati e vezzeggiati dalla donne, allattati per anni, portati sulla schiena e
sulle braccia, avvolti negli scialli neri. Ad Aliano « […] l’autorità delle madri è sovrana […]. In
paese ci restano molte più donne che uomini: chi siano i padri non può più avere un’importanza
così gelosa: il sentimento d’onore si disgiunge da quello di paternità: il regime è matriarcale» (p.
89). Inoltre, durante il giorno, il paese è abbandonato alle donne poiché gli uomini si recano nei
campi a lavorare. Così, per le strade semideserte e assolate di aprile, si sentono dappertutto,
mescolate ai versi degli animali e ai pianti dei bambini, le voci delle donne, paragonate «a regine-
uccelli che regnano sulla turba brulicante dei figli» (p. 90). L’immagine è quella di madri protettive
e attente, nonostante la miseria in cui sono costrette a vivere, nonostante i numerosissimi figli che
nascono. Spesso i mariti le abbandonano, ma esse paiono trovare forza e aiuto l’una nell’altra,
come una grande famiglia allargata, basata sui fondamentali rapporti di solidarietà del vicinato, ove
zie, nipoti, cognate, comari si avvicendano attorno ai neonati. Molti bambini, dunque, crescono a
fianco di una o più stabili figure femminili, ma con figure paterne instabili o incerte. Giovanni
Falaschi riconosce a Levi il merito di aver indagato la natura matriarcale della società rurale,
«luogo comune di una concezione del Meridione risalente al mito della Grande Madre
mediterranea»: da un lato la contadina-strega, dall’altro la sua versione negativa, la donna
intrigante della piccola borghesia, l’unica a esercitare un vero potere (malefico) all’interno della
società (Falaschi 1996: 476). Ida Magli riporta una definizione tratta dall’Oxford Dictionary del
termine “matriarcato”: per matriarcato s’intende «un sistema di organizzazione sociale in cui la
madre, e non il padre, è il capo della famiglia, e in cui la discendenza e i legami familiari sono
riconosciuti attraverso le madri e non attraverso i padri» (Magli 1978: 12). La curatrice sottolinea
però come questa definizione riconosca alla donna un ambito di potere solamente all’interno della
famiglia, e non nella sfera sociale, politica, statuale. Per questo motivo, qualsiasi analogia con
società patriarcali sarebbe del tutto erronea: le società patriarcali conosciute, infatti, non limitano il
potere dell’uomo alla sola famiglia ma, anzi, il potere maschile nella famiglia è possibile in quanto
preceduto dal potere maschile nella società. Così, ad esempio, nella società romana antica, il pater
familias è il capo non dei figli, ma di tutti coloro che gli appartengono (donne, schiavi, figli, figli
degli schiavi) (Ibidem). Alla luce di queste precisazioni, la società alianese può essere ritenuta
matriarcale a tutti gli effetti, anche se ogni analogia con una società patriarcale va evitata: le donne
hanno potere nella famiglia e sui figli; i legami familiari sono riconosciuti attraverso le madri, visto
che molti sono i figli illegittimi e la figura paterna non è rilevante; infine, le donne non sembrano
avere autorità sulla società e tanto meno sulla politica, alla quale sono estranee. L’ambito di loro
competenza pare essere essenzialmente quello della famiglia e delle mura domestiche.
Parlando del dibattito che coinvolge molti antropologi e storici, sulla precedenza storica del
matriarcato o del patriarcato, la Magli sottolinea che il dato che accomuna questi studiosi è la
convinzione che «il periodo di predominio delle donne appartenesse a una cultura rozza e
animalesca, sia che fosse stato il periodo iniziale della organizzazione sociale, sia che ne fosse stato
invece un periodo di decadenza» (Magli 1978: 29). Anche in questo caso, questa affermazione
trova un richiamo nella condizione femminile alianese: Levi non esita a definire animalesche,
selvagge, selvatiche le donne del Cristo. Inoltre, la considerazione di tutto il popolo alianese quale
una civiltà pre-umana, si intona con la convinzione degli studiosi a cui la Magli accenna.
1.3. LE DONNE
«Le donne, chiuse nei veli, sono come animali selvatici» (p. 89), così Levi definisce le donne.
Questa è l’immagine con cui vuol comunicare al lettore la figura femminile alianese, questa è la
forma che meglio rappresenta la passività e l’avidità, la rassegnazione e la curiosità maliziosa dei
loro sguardi. La natura animale e i veli sono gli elementi che caratterizzano, per tutto il corso del
romanzo, la donna lucana.
Rispetto agli uomini, alcune donne vengono descritte con maggiore ricchezza di particolari e
maggiore attenzione. Rispetto agli uomini, esse non ricoprono mai ruoli di rilievo all’interno della
comunità alianese, e non si distinguono per attività o mestieri particolari, a parte - ovviamente - le
streghe. Rispetto agli uomini, esse, sia in modo diretto attraverso espliciti termini di paragone, sia
in modo indiretto per mezzo di aggettivi, vengono avvicinate più insistentemente al mondo
animale: paragonate a uccelli o caratterizzate da attributi (denti, occhi…) che rimandano a quelli
bestiali, ad esse appartiene qualcosa di selvatico, genuino, primitivo. Come già accennato (vedi par.
2.5.4.), anche le figure maschili vengono frequentemente paragonate ad animali (la risata da gallina
del podestà, lo sterno da uccello del becchino, i tre preti simili a volatili, il dottor Gibilisco
guardingo come un nero cane barbone), ma pare che la bestialità, nelle figure femminili, sia in un
certo senso intrinseca. Non solo certi loro tratti somatici rimandano agli animali, ma soprattutto
qualcosa nel loro atteggiamento, nel loro sguardo, nei loro gesti pare richiamare una natura
fortemente animalesca, passionale, ancestrale. Ciò si può notare prevalentemente nelle scene
collettive e nella descrizione delle streghe. Tali similitudini tratte dal mondo animale «[…] non si
connotano di semanticità regressiva, quasi a significare uno stadio inferiore di umanità, bensì
rientrano nell’orizzonte di una antropologia specifica che eguaglia uomini e animali, psicologia e
natura, uomini e piante […]» (Carducci 1999: 169). E’ perciò naturale e non toglie valore all’uomo,
nella civiltà contadina, lo stretto rapporto uomo-animale, come è naturale il rapporto uomo-
macchina nella civiltà industriale.
1.3.1. Scene collettive
Il Cristo è costellato di presenze femminili più o meno incisive, più o meno curiose. Si imprimono
facilmente nella mente del lettore come figure nere, volatili, schive, scrutatrici, e sono affiancate
spessissimo da termini di paragone particolari o suggestivi. Levi descrive alcune scene popolate
prevalentemente da donne in modo spiccatamente pittoresco: sembra di avere davanti agli occhi un
quadro che si anima o una scena teatrale. La prima immagine collettiva è quella a cui l’autore
assiste a casa della vedova, appena giunto ad Aliano. Le donne, attirate e incuriosite dalla presenza
del forestiero, si avvicendano, volonterose e rapide, nell’offrire favori alla vedova: portano acqua,
le chiedono se possono lavare qualcosa per lei al fiume. Stanno l’una vicino all’altra e parlano tutte
insieme, «[…]come uccelli. Fingevano di non guardarmi: ma ogni tanto, sotto i veli, i loro occhi
neri si voltavano rapidi e curiosi dalla mia parte e subito fuggivano, come animali del bosco» (p.
28). Indossano un costume il cui velo ripiegato che ricade sulla schiena incornicia loro il viso, una
camicetta bianca di cotone, una gonna scura e larga a campana, lunga fino a mezza gamba, lo
stivaletto alto: in realtà l’autore parla di un «povero residuo di costume» (p. 28) che nulla ha a che
vedere con quelli famosi di altri paesi lucani, come se ad Aliano nemmeno le tradizioni riuscissero
a sopravvivere, come se quelle donne non potessero neppure permettersi un costume degno di quel
nome. Il costume, invece di rendere le donne caratteristiche in senso positivo, le sminuisce; invece
di donar loro importanza e decenza, le rende simili l’una all’altra, indistinguibili agli occhi del
forestiero, come pecore in un gregge. Il portamento è ritto poiché sono abituate a portare pesi sul
capo, «e i volti avevano tutti un’espressione di selvatica gravità» (p. 28). I loro gesti sono gravi e
sgraziati, non femminili, e le occhiate che rivolgono a don Carlo di sottecchi sono invadenti e
curiose. La loro uscita dalla stanza è accompagnata da un ondeggiare nero di sottane e veli. Da
questo primo contatto tra il confinato e le donne emergono particolari ricorrenti nel testo: il
paragone tra l’aspetto ciarliero e sfuggente degli uccelli e il comportamento schivo ma curioso
delle donne; l’ondeggiamento dei veli; lo sguardo sfuggente, nero, pesante; l’aspetto grave e
selvatico che le contraddistingue. La natura fortemente e intrinsecamente animalesca è
rintracciabile sia nell’assenza di femminilità e grazia dei gesti delle donne, sia nel passo in cui si
parla di «selvatica gravità»: il lettore ne coglie un senso di pesantezza, severità, cupezza, superbia,
un po’ come quello che caratterizza una fiera che resta impassibile, immobile e solenne a
contemplare lo spazio circostante, consapevole della propria forza. Infine, Levi tratteggia un
paragone particolare: «Non mi parevano donne, ma soldati di uno strano esercito, o piuttosto una
flottiglia di barche tondeggianti e oscure, pronte a prendere tutte insieme il vento nelle piccole vele
bianche» (p. 28). L’autore è qui esplicito: quelle persone non hanno minimamente l’aspetto di
donne, come egli è abituato a vederle e conoscerle. Piuttosto, sono simili a soldati, forse per
“l’uniforme” che indossano, ma il loro esercito è «strano», poiché l’abito le ingoffa e le rende
indistinguibili. Ancora più efficace è il paragone con la «flottiglia di barche tondeggianti e oscure»:
le sottane scure e i veli delle donne le rendono simili a barche che ondeggiano disordinatamente
sull’acqua, ed è facile immaginarsele, goffe, che si muovono sgraziatamente, sospinte l’una
dall’altra, urtandosi. Il termine «flottiglia» è un diminutivo e, affiancato a «piccole vele bianche»,
rende l’idea di piccolezza e instabilità. Se si fosse usato il termine “flotta”, forse il lettore avrebbe
immaginato una scena di maggior imponenza e sicurezza di quelle donne. In questa immagine,
inoltre, la rigidezza del corpo è ravvivata dagli occhi curiosi, che sembrano racchiudere tutto il
potere espressivo controllato e limitato nel corpo. Secondo Grignani, il confronto con un esercito e
con le barche aggiunge un elemento simbolico e mitico: la terra si avvicina al mare, all’acqua che è
simbolo di vita (Grignani 1998: 175). Secondo Carducci, invece, la metafora della «selvatica
gravità» colta nell’espressione dei volti femminili, unitamente all’immagine della «flottiglia di
barche», è caratterizzata da una bivalenza dei sentimenti e degli apprezzamenti su questa realtà
“altra”: su una condizione femminile segnata dalla fatica che stanca e sottrae la grazia ai tratti delle
donne, e insieme sull’essere donna che, nonostante tutto, conserva un fascino segreto (Carducci
1999: 170).
I veli e le gonne che svolazzano, infine, apportano movimento e dinamismo al quadro, ma il
paragone con l’esercito di soldati e l’accenno alla gravità e alla pesantezza dei gesti riduce il senso
di leggerezza delle figure e della scena stessa.
Le donne sono protagoniste in un’altra occasione: la raccolta dell’acqua alla fontana. Aliano
possiede solo due fontanelle, che servono l’intero paese. Le donne hanno il compito di riempire le
brocche d’acqua e per questo motivo, a tutte le ore del giorno, la fontana è sempre gremita.
«Stavano in gruppo, attorno alla fontana, alcune in piedi, altre sedute per terra, giovani e vecchie,
tutte con una botticella di legno sul capo, e la brocca di terra di Ferrandina» (p. 43). Attendevano
pazienti il loro turno, e poi il lento riempimento delle loro brocche. I veli bianchi sul loro capo
svolazzavano al vento sulle schiene dritte, abituate a tenere i vasi in equilibrio sulla testa. «Stavano
immobili nel sole, come un gregge alla pastura; e di un gregge avevano l’odore» (p. 43), le voci
giungono confuse e continue alle orecchie del confinato che si accinge a passare davanti alla
fontana e fatica a comprendere il nuovo e strano dialetto. Al suo passaggio, egli si sente colpito
dagli sguardi neri, fermi e intensi delle donne. Il legame tra la donna e gli animali è, in questa
scena, esplicito: le donne sono «come un gregge». Come le pecore sono immobili, maleodoranti,
pazienti, in una sommessa e rassegnata attesa interrotta dal passaggio dell’uomo. Per scrutarlo, il
loro sguardo si ferma, concentrato e senz’altro diverso da quello ebete e vuoto delle pecore: quando
qualcuno attira la loro attenzione, quindi, la loro natura di animale sommesso muta in quella di
animale avido, vorace, attento. Levi lascia trasparire, nel suo racconto, una sorta di disagio quando
viene fissato dagli sguardi femminili, quasi che questi fossero eccessivamente indiscreti, quasi che
manifestassero una certa bramosia.
Un’altra situazione che coinvolge, anche se non da protagoniste, le donne, è la processione per la
Madonna di Viggiano (p. 103). Il corteo dietro la statua della Madonna è ordinato secondo un
ordine predefinito: dopo il sacerdote don Trajella, ci sono il podestà e il brigadiere, quindi i signori
e solo successivamente le donne, i ragazzi, i contadini. Le donne sono in gruppo, come sempre
contraddistinte dall’ondeggiare dei veli, bianchi per l’occasione, e cantano. Levi nel corso del
romanzo ha modo di sottolineare come, in nove mesi di confino, non abbia mai sentito cantare i
contadini (a parte i canti natalizi dei ragazzi al suono sgraziato dei cupi-cupi) e gli unici rumori
sempre udibili in paese siano i versi degli animali e le voci femminili dalle case. E’ quindi possibile
notare che i suoni provengono quasi esclusivamente dagli animali o dalle donne, in una curiosa
rinnovata associazione fra la donna e l’animale.
Un’altra situazione popolata prevalentemente da donne è quella che descrive l’opera del
sanaporcelle (pp. 165-169). Il suo arrivo viene annunciato dalla voce asessuata del becchino:
«Donne, è arrivato il sanaporcelle!», e l’indomani mattina, sullo spiazzo detto del Timbone della
Fontana, una folla di donne eccitate e impazienti attende il “sacerdote-chirurgo”: «quasi tutte le
donne, giovani e vecchie, erano là; e molte tenevano al guinzaglio, come un cane, la loro scrofa: le
altre le accompagnavano, e venivano ad assistere alla sanatura» (p. 166). I rapporti di vicinato e di
amicizia si mescolano ed entrano in azione in questo momento di apprensione: le scrofe devono
essere castrate perché ingrassino meglio e abbiano carni più delicate, ma il timore che l’operazione
non vada a buon fine e provochi la perdita dell’adorata bestia, tiene unite e solidali le donne del
paese, accomunate dalle stesse inquietudine, curiosità, trepidazione. Nonostante l’abilità del
sanaporcelle, «le donne esitavano attorno a lui: ciascuna spingeva la vicina o l’amica a portare per
prima la sua bestia, con grandi esclamazioni e deprecazioni» (p. 167), si fanno il segno della croce
e invocano la Madonna di Viggiano: i timori e l’eccitazione femminili vengono enfatizzati dai gesti
e dalle voci, come in una rappresentazione teatrale. Le scrofe stesse vengono in un certo senso
antropomorfizzate dalla scrittura leviana: puntano i piedi e cercano di fuggire come se conoscessero
la sorte che le attende, ma soprattutto «[…] strillavano come ragazze impaurite, con quelle loro
voci così umane» (p. 167). Il paragone creato tra i versi delle scrofe e gli strilli delle ragazze
impaurite richiama nuovamente il legame tra donne e bestie, non certo a favore delle donne.
Le voci femminili, man mano che le operazioni di sanatura vengono portate a termine, si fanno più
alte e allegre; le donne strillano insieme alle scrofe ogni volta che una di queste viene buttata a terra
per essere sottoposta all’operazione, in un’eco di risposte e commiserazioni, «come un coro di
lamentatici» (p. 169). In questo quadretto, le urla delle donne inquiete e preoccupate, o allegre e
sollevate, e gli strilli delle bestie spaventate, si mescolano in un gioco confuso di echi e rimandi,
tanto che sembra di assistere personalmente alla scena: pare difficile riconoscere e distinguere la
provenienza delle voci delle une e delle altre, pare di udire i suoni e i frastuoni, e di partecipare
all’ansia e all’apprensione femminili per la buona riuscita del lavoro. Anche qui le voci femminili
sono sovrapposte l’una all’altra, confuse come nella scena della casa della vedova e nella scena
della fontana, corali come nella scena della processione.