Si intendeva verificare se e fino a che punto i giovani
avessero comportamenti rituali per tentare di ristrutturare
simbolicamente il mondo circostante, al fine di prendere
coscienza di se stessi. Fino a che punto le “tribù” di giovani delle
discoteche ritornassero ai livelli più profondi che sono in tutti noi,
alle danze dei nostri antenati (con il fuoco, i costumi sgargianti, il
continuo agitarsi, il totem…), al rito sacro per “allontanare
efficacemente il disordine”; il ballo, un rituale neppure tanto
trasformato dalla cultura, dalle nuove esigenze del gruppo.
E fino a che punto la paura, l’angoscia del “vivere
moderno” (sempre più artificiale, ma di un artificiale più…
artificiale), questo senso di continua insufficienza, questa
conflittualità esistenziale, che viene dal profondo, da lontano,
questa fatica ad essere se stessi, portino l’individuo a tentare
strategie diverse per “sfuggire”.
I giovani avvertono fortemente, come non mai, il bisogno
dell’altro, di uscire da se stessi e confluire in un “Noi
securizzante” : cercano la massa, o l’antica, la primordiale muta
e solo così riescono a sbarazzarsi dello stato d’ansia, a vincere la
paura e sentirsi sicuri, protetti. Sperimentano nuovi riti, usano
nuovi oggetti-totem, cercano nuovi capri espiatori: ogni
sperimentazione, sfida, emozione li fa sentire come eroi, come
sopravvissuti alla morte.
Insomma, ogni sperimentazione di un nuovo “Sé”
comporta un’uscita dal proprio Sé originario, per sperimentare
l’ingresso, lo “sconfinamento” in un altro “Sé”, che non è più un
Sé dell’individuo, ma il “Sé” del “Noi”, della massa.
Un Sé securizzante che dà l’impressione di aver vinto
l’ansia, l’angoscia; un Sé che si contrappone ai possibili Sé
individuali che sperimenta nelle varie fasi della socializzazione.
Ma qualunque Sé, qualunque immagine di Sé l’individuo
sperimenti, nelle varie rappresentazioni della vita, è
insoddisfacente, e pieno di frustrazioni : non lo alleggerisce, se
non nel breve attimo in cui lo vive, dall’insicurezza, dall’ansia
della prestazione, dall’angoscia del vivere quotidiano.
Non lo rinfranca, dal vano vagare alla ricerca di punti di
riferimento, nella famiglia, nella scuola, nel gruppo dei pari.
Questi giovani si accorgono tristemente che nulla di ciò
che è stato previsto (dal mondo degli adulti, dalla società) gli si
confà. Ed allora, usano strategie diverse : come il “Noi”, la fuga,
la compensazione, l’illusione.
™ il “Noi”, la fuga
I giovani cercano il “Noi”, il gruppo, cercano tutte le dimensioni
collettive che li aiutino a sciogliere le tensioni, a sentirsi liberi
attraverso il contatto costante e globale con gli altri.
Il gruppo dei pari, nei quali sperimentano il “Noi”, assolve la
funzione di “salvatore”; in esso si sentono protetti e rassicurati
dalla indefinitezza e minacciosità della vita quotidiana.
Essere in tanti, vicini gli uni agli altri, con la illusione di
condividere il medesimo “territorio” (ad esempio in discoteca)
reale o immaginario, li fa sentire come se tutto accadesse “[…]
all’interno di un unico corpo. Forse è questa una delle ragioni per
cui la massa cerca di stringersi così fitta: essa vuole liberarsi il
più compiutamente possibile dal timore dei singoli di essere
toccati. Quanto più […] si serrano disperatamente gli uni agli
altri, tanto più sono certi di non aver paura l’uno dell’altro”
(Canetti, 1960, pag.18).
I giovani cercano le occasioni per estraniarsi dalla realtà e da sé
stessi per confluire nel Noi, nella massa. Nel piacere della massa,
nel capovolgimento della paura, nella perdita di individualità,
sperano di trovare risposte al loro bisogno di sicurezza, di amore,
risposte alla loro profonda solitudine, al loro profondo senso di
insufficienza a raggiungere il proprio ingresso nella vita adulta.
Invece, qui, tra gli altri coetanei, i giovani sperimentano la
condivisione delle ansie e dei conflitti, si sentono sicuri, protetti.
Insieme cercano le occasioni che gli consentano di ristrutturare
simbolicamente il mondo che avvertono caotico, complesso,
ingovernabile con gli “strumenti” di cui dispongono, che la
famiglia, prima, e la scuola, dopo, gli hanno proposto.
È qui, come vedremo nel capitolo dedicato all’adolescenza, che si
crea un’interconnessione della mente individuale con quella degli
altri membri del gruppo: la mente individuale “diventa,
metaforicamente, un neurone di una mente sovraindividuale” e si
dà vita “a un nuovo soggetto antropologico dotato di uno
straordinario potere decisionale sulla vita psichica dei membri
che hanno sottoscritto il patto” (G.P.Charmet, 2000, pag.224).
Il giovane avverte la paura di “prendere parte alla vita […]di
affrontare le ordinarie difficoltà dell’esistenza”: ed allora “l’unica
medicina che funziona è la dimensione collettiva” (Pieretti, 1996,
pag.18).
Soltanto nella massa trova una adeguata strategia contro la paura:
de-individualizzandosi ed identificandosi con il gruppo, forma il
Noi, ed è così che si sente invincibile, immortale.
™ La compensazione, l’illusione
Oppure, i giovani continuano a tentare di trasformare un’intima
sensazione di impotenza nei confronti della società in esperienze
di onnipotenza, ottenendo l’illusione di superare, di vincere .
L’atto estremo, a rischio, come testimonianza, come volontà di
marcare un “territorio” sociale negato, di rivendicare uno spazio
espressivo, un ruolo sociale, percepito come assente o
insufficiente.
Ecco la sperimentazione di un continuo vivere oltre i limiti,
cercando di distinguersi con le sfide alla morte e con una scarsa
considerazione per la vita. Il valore di tutto ciò che si possiede
viene affidato al caso, al destino, cui è legata la possibilità di
perdere tutto. Ma lo si accetta, pur di sperimentare emozioni che
li allontanino, per un istante, dal grigio della vita di tutti i giorni.
Ma noi sappiamo che : “il senso di felicità del sopravvivere
concreto rappresenta infatti un intenso piacere […] una volta
subentrato e approvato, esso esigerà la sua ripetizione e crescerà
rapidamente fino a diventare una passione insaziabile[…].
[…] La passione è quella del potere […].
[…] Chi ha preso gusto al sopravvivere vuole accumularlo.
Cercherà dunque di provocare situazioni in cui possa
sopravvivere a molti. Gli sparsi momenti del sopravvivere, offerti
a lui dall’esistenza quotidiana, non gli basteranno più” (Canetti,
1972, pagg. 22-23)
Ed allora, i giovani cercheranno di sperimentare il potere, contro
sé stessi e con atti estremi di autodistruzione (vedi, ad esempio, le
folli corse in autostrada contromano), e/o contro altri, con atti
estremi di distruzione, cercando le proprie vittime, dando la
caccia ad altri giovani (vedi, ad esempio le risse in e fuori le
discoteche) per sbeffeggiarli, sfidarli, cercando nello sguardo
impaurito dell’altro, “la documentazione del proprio potere”.
I giovani tentano continuamente di affrancarsi dal proprio
profondo risentimento, proiettandolo continuamente fuori di sé,
sull’altro.
E queste esperienze di vita gli regalano la visibilità, il potere, gli
restituiscono in parte la speranza del futuro.
PRIMA PARTE
“LA FATICA DI ESSERE SÉ STESSI”
PRIMO CAPITOLO : LA TESI
Il termine “stragi del sabato sera” evoca nell’immaginario
collettivo una forma di disagio dei giovani, che si manifesta non
solo con le morti sulle strade in incidenti stradali nel fine
settimana, ma in tutti i comportamenti estremi: le morti che
avvengono nella notte di divertimento, nelle discoteche e fuori
dalle discoteche, per aver assunto droghe o per le risse che spesso
terminano tragicamente.
Ed a questo fenomeno, cresciuto negli ultimi cinque anni,
si aggiungono da circa un paio d’anni anche le “folli corse”
contromano in autostrada.
Ero indeciso se allargare la tesi all’esame di altri fenomeni
rilevanti di disagio giovanile.
Poi, a ricerca già avviata, con una serie di dati significativi
già raccolti, sono accaduti alcuni episodi estremamente gravi che
hanno avuto come attori giovani, adolescenti, o che sono
comunque riconducibili all’universo giovanile .
Questi i fatti principali che mi hanno indotto ad allargare la
riflessione:
™ L’uccisione da parte di Roberto, studente diciassettenne, della
fidanzata Monica, sedicenne, a Sesto San Giovanni.
™ L’uccisione da parte di Paolo del padre professore
universitario a Padova, bruciandone il corpo.
™ La venuta in Italia, per una tournée, di un cantante, idolo di
molti giovani, Marilyn Manson (che si qualifica “l’anticristo”) e
la venuta a Sanremo 2001 di alcuni cantanti “estremi”: i Placebo
ed il rapper Eminem, idolo in America ed anche in Italia dei
giovani, con un’ampia polemica sui media sull’opportunità di tale
esibizione, addirittura con un interessamento della magistratura
che ha controllato in via preventiva (caso forse unico), negando
l’assenso, i testi delle canzoni.
™ La strage di Novi Ligure: episodio agghiacciante, che ha
scosso l’opinione pubblica, generando un forte allarme.
Questi episodi, in particolare quello di Novi Ligure, mi
hanno profondamente scosso, al punto di indurmi a rimettere in
discussione il lavoro originario, forse concluso.
Già tentare di spiegare le “stragi del sabato sera” al di
fuori di una comprensione della dinamica del disagio giovanile,
mi appariva impossibile nelle prime conclusioni della tesi. Ero
incline a classificare questi fenomeni di disagio giovanile come
un riflesso di un più ampio disagio della società, il disagio
dell’individuo moderno, dell’“uomo tecnologico” costretto a
vivere perennemente in uno stato di tensione, con innumerevoli
ansie, angosce e frustrazioni.
Costretto a vivere in perenne presenza di una “patologia
dell’insufficienza”.
Ed allora, seppure per esigenze di ricerca, è stato
necessario restringere il campo di osservazione al fenomeno delle
“stragi del sabato sera”, cercare di leggere tale fenomeno in modo
sganciato dall’insieme delle tematiche che riguardano i giovani,
risulterebbe fortemente riduttivo ed in parte errato.
Dunque, l’obiettivo della presente tesi diviene quello di
tentare una ricostruzione complessiva, dal punto di vista
antropologico, della dinamica dei comportamenti giovanili a
rischio, o comunque estremi.
Ma cos’è il disagio giovanile?
Quando il comportamento estremo è una malattia?
Chi sono questi giovani di oggi, e come vivono il loro
processo di crescita, con le relative tappe, e con le specifiche crisi
attraverso cui passano obbligatoriamente prima di divenire
adulti?
Come vivono questa sorta di “spaesamento”, di messa in
crisi delle certezze (o delle difese) dell’età scolare, questa
situazione interstiziale in cui non sanno bene chi sono, non sono
più quelli di prima, ma non appartengono ancora al nuovo?
Quale percorso possiamo utilizzare per giungere ad una
delle possibili spiegazioni dell’esplosione di violenza, su di sé e
sull’altro, talvolta agghiacciante per le modalità di esecuzione?
Spesso si tratta di una violenza che la criminologia
definisce “overkilling”: infierire su un cadavere come per farlo
sparire, per negare ciò che si è fatto. Per questo motivo, secondo
molti autori, spesso chi uccide padre o madre poi ne brucia il
corpo.
Ciò che -forse- contraddistingue tutte queste
fenomenologie omicide è un “debole” segnale, in continua
evoluzione, che è necessario captare e che intendiamo proporre :
la riduzione, sempre maggiore, della distanza tra la sfera della
psicopatologia individuale e quella della “patologia sociale”.
Intendiamo dire che con il crescere dei casi, l’analisi delle loro
dinamiche si presta sempre meno ad interpretazioni e letture di
tipo principalmente psichiatrico.