2
cofattori quale una probabile predisposizione genetica o un
possibile disagio psicologico possano fungere da facilitatori.
La definizione di alcolismo che più di altre coglie la
complessità del fenomeno è quella del gruppo di lavoro della
Società Italiana di Alcologia: “una condizione (disturbo, stile di
vita, comportamento..) caratterizzata da uso di alcolici che
determina in maniera non strettamente dose dipendente
modificazioni della qualità della vita nelle diverse aree vitali,
cioè psichica, familiare, relazionale, fisica, in maniera globale o
multidimensionale”
iii
.
Ed è proprio alla globalità e alla multidimensionalità di
tale condizione che è rivolto l’intervento di prevenzione, cura e
riabilitazione da parte dell’equipe dell’ambulatorio di Alcologia
dell’ASL AV/2. Una presa in carico globale che non riguarda
solo l’individuo portatore del disagio ma tutta la sua famiglia,
nella quale l’alcol è entrato a causa di un alterato equilibrio della
comunicazione familiare (visione sistemica dell’alcolismo quale
problema familiare).
La “condizione-alcol” altera, quindi, il sistema (o i
sistemi) con il quale l’individuo si trova in relazione (famiglia,
ambiente di lavoro, comunità di appartenenza) e, di conseguenza,
il trattamento tenderà a coinvolgere l’intera famiglia,
promuovendo il cambiamento dello stile di vita e delle modalità
relazionali che rafforzano stili di vita patogeni. “Processo
iii
AA.VV. Documento unico del gruppo di lavoro su trattamento e riabilitazione. In:
Ceccanti M., Patussi V., Consensus Conference sull’alcol I 1994 – 1995, Ed. Scientific
Press 1995.
3
riabilitativo, questo, che non può limitarsi allo stretto spazio di
un ambulatorio ma deve, necessariamente, contestualizzarsi
all’ambito sociale attraverso programmi di sensibilizzazione e di
promozione di stili di vita sani ed attivando le varie risorse della
comunità”
iv
.
L’attenzione al contesto sociale significa anche analisi
dei costumi, dei consumi, del grado di tollerabilità sociale e delle
dimensioni del fenomeno. Negli ultimi decenni si è, infatti,
osservato il passaggio dalle modalità d’uso mediterraneo, che
caratterizzava il nostro bere vino ai pasti, verso i costumi dei
popoli del nord e centro Europa, che usano prevalentemente birra
e superalcolici al di fuori dei pasti. E sono proprio queste forme
emergenti di “alcolismo nordico”, diffuso soprattutto fra i
giovani, che faticano ad entrare in contatto con i servizi.
Si sono legittimate pratiche alcoliche che un tempo erano
devianti, c’è stato il consolidarsi di abitudini come quelle
dell’aperitivo domenicale e del bicchiere di metà pomeriggio, il
momento del cocktail, le birre durante le partite di calcio, lo
spumante e lo champagne per festeggiare qualunque cosa,
continue occasioni per bere sono divenute socialmente accettabili
e perciò normalizzate. “Bere molto” negando qualunque
difficoltà correlata è divenuto lo standard di un numero sempre
maggiore di persone, per cui è diventato sempre più difficile
iv
Puorro G., Perna L., La grande sfida. Risorse, limiti, prospettive d’intervento. In: Salute e
Prevenzione, La rassegna italiana delle tossicodipendenze, n.35, Edizione Franco Angeli,
Milano 2003.
4
tracciare una linea di confine tra il cosiddetto “bevitore sociale” e
l’alcolista.
La diffusione della “cultura del bere” appare oggi
fortemente condizionata e stimolata dalle modalità di
presentazione e marketing delle bevande alcoliche; accanto alle
forme esplicite si affianca la promozione attraverso i media (film,
telefilm e fiction) di comportamenti che propongono il consumo
di alcol come parte normale ed integrante della vita quotidiana,
“normalizzando” il concetto del “bere” e di fatto sostenendone la
cultura quale specchio della società.
Il fenomeno dell’alcolismo deve necessariamente fare i
conti per un verso con una realtà di mercato che contribuisce a
provocarlo e ad alimentarlo attraverso una produzione di alcolici
sempre più organizzata e diversificata, e per l’altro con un
insieme di aspetti economici che vanno dalla sponsorizzazione
delle numerose tipologie di prodotti alcolici alla pianificazione
dei costi sociali ed umani relativi alla terapia di recupero
dell’alcoldipendenza.
In ambito medico poche cose hanno insita nella loro
natura una ambiguità paragonabile a quella dell’alcol: se è vero
che esso è un prodotto che può provocare effetti contrastanti
sull’organismo e può rappresentare valori antitetici a seconda
delle modalità di assunzione, allora è anche vero che può
condurre ad una nuova dialettica riscontrabile sulla base
dell’interazione tra realtà economica e realtà sanitaria.
5
Se l’alcol risulta essere dunque a tutti gli effetti non solo
un valore culturale profondamente radicato nella nostra società
ma soprattutto un prodotto commerciale inserito nella dinamica
dell’economia di mercato, esso rappresenta allo stesso tempo una
causa alquanto complessa e remota sia di un insieme di patologie,
di suicidi e di decessi scaturiti da un forte abuso della sostanza,
sia di un complesso di disagi psichici relazionali e sociali legati
al sistema generale dell’alcoldipendenza.
L’OMS ha stimato che in Europa un decesso su quattro,
nei giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni, è causato dal
consumo di alcol e che in un anno circa 55.000 giovani muoiono
a causa degli effetti legati al consumo di sostanze alcoliche. Per
quanto riguarda l’Italia la situazione non è meno drammatica,
ogni anno muoiono circa 40.000 persone a causa dell’alcol:
vittime di cirrosi epatica, tumori, infarto emorragico, suicidi,
aborti, omicidi, incidenti stradali, in casa e sul lavoro.
Solo una cospicua attività di prevenzione volta al
miglioramento dello stile di vita e al cambiamento di questa
“cultura del bere” può determinare un’inversione del fenomeno,
purtroppo in crescita, dell’alcolismo.
Recentemente, è stata evidenziata anche la necessità di
interventi di prevenzione precoci mirati a fasce di età al di sotto
dei quindici anni, in quanto in Italia il primo “bicchiere” viene
consumato a 11-12 anni, l’età più bassa nell’Unione Europea,
dove la media si aggira sui 14 anni e mezzo. Si è visto anche che
l’avvicinamento precoce all’alcol avviene quasi sempre in
6
famiglia, spesso sono proprio i nonni o altri parenti maschi che
hanno spronato l’utente ad assaggiare modeste quantità di vino o
superalcolici, con l’intento di educarlo ad un rapporto corretto
con la sostanza. Anche questo atteggiamento è frutto della
“cultura del bere” e della profonda ambivalenza che caratterizza
le bevande alcoliche, che dovrebbero, invece, essere considerate
alla stregua di una vera e propria droga.
“L’alcol è un feroce lupo accettato come cane di casa, un
affettuoso e servizievole animale domestico”
v
.
La prima difficoltà che si incontra nel confronto con il
tema dell’alcolismo è costituita proprio dall’ambiguità intrinseca
alla sostanza di cui si parla: se assunta in piccole dosi può
inserirsi nell’equilibrio alimentare di tutto l’organismo senza
arrecare danni, se viceversa se ne fa uso in dosi spropositate si
rivela estremamente nociva e deleteria per la salute sia fisica che
psichica dei bevitori. Mi sembra opportuno fare riferimento a
quanto Franca Basaglia Ongaro dice a proposito dell’etimologia
del termine farmaco, precisando che anticamente tale concetto
possedeva una duplice valenza: medicina e veleno.
L’OMS ha risolto tale dubbio attribuendo all’alcol la
natura di droga, includendolo cioè tra le sostanze che creano
tolleranza e dipendenza, anche se si tratta di una droga con
caratteristiche particolari, infatti, per quanto sia abbastanza
diffusa la coscienza che l’alcol sia una sostanza stupefacente,
permane ancora un senso di superficialità e di diffidenza nel
v
Blane T., citato da Moretti V., Matteucci M., Re L., Rossigni L., Alcool, farmaci e droghe
tra i giovani. In: Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo, n.4-5, anno XII, 1989.
7
riconoscere le molteplici implicazioni sottese alla sua
fenomenologia. E anche secondo la prospettiva di definizione
comune l’alcol non viene considerato una droga.
Infatti, diversamente da quasi tutte le altre droghe l’alcol
manifesta una sua propria ambivalenza non solo sul piano delle
modalità di assunzione (può essere salutare o deleterio a seconda
delle dosi), ma soprattutto sul piano degli effetti provocati o
ricercati attraverso il suo abuso. L’alcol di fatto può dare
sensazioni di esaltazione, come può far precipitare in una
profonda depressione, può condurre a stati di euforia e di
ebbrezza che stimolano al coraggio e alla temerarietà, come può
portare fino al sonno e all’oblio inibendo i centri nervosi e il
controllo della coscienza. Per questo le conseguenze da esso
provocate non si limitano solo a compromettere la salute
dell’alcolista ma si ripercuotono ampiamente sia sulla sua sfera
familiare, sia su quella professionale, ossia sulla dimensione
pubblica e su quella privata della sua vita relazionale.
Le dinamiche nei rapporti familiari sono la prime ad
accusare disagi profondi legati allo stato di alcoldipendenza di
uno dei componenti del nucleo, tanto da creare tensioni, conflitti,
menzogne, incomprensioni, paure che portano tutte a forme di
interdipendenza spesso forzate e coatte, senza offrire opportunità
di soluzione se non attraverso il ricorso ad aiuti esterni.
Alla molteplicità di approcci metodologici e scientifici nei
confronti dell’alcolismo corrisponde tuttavia una differenziazione
di metodi e terapie che rispecchia in grandi linee le diverse
8
concezioni orbitanti intorno alle modalità di intervento per la
disintossicazione da alcol.
Proprio a partire dalla considerazione che l’alcolismo è
un disturbo complesso, dato dall’interazione di fattori
psicologici, medici, sociali e familiari e dalla consapevolezza che
non esiste un intervento terapeutico unico che possa essere
risolutore di un tale problema, viene utilizzato nel trattamento
dell’alcolismo il cosiddetto “trattamento complesso” con cui si
intende l’insieme degli approcci e delle modalità differenti di
trattamento e di riabilitazione dell’alcolista e della sua famiglia.
Un importante ruolo nella prevenzione spetta alla
metodologia dei CAT che si basa sul cosiddetto approccio
ecologico-sociale o approccio complesso, ideato da Hudolin e
finalizzata non solo al trattamento degli alcolisti ma anche a
porre in discussione la “cultura del bere” diffusa nella nostra
società.
Infatti, il trattamento psico-medico-sociale di Hudolin, è
integrato non solo perché tiene conto degli aspetti medici,
psicologici e sociali, ma anche perché ha lo scopo di integrare la
prevenzione, il trattamento e la riabilitazione. Del resto, è stata da
più parti sottolineata l’impossibilità di separare nettamente questi
diversi momenti; un buon trattamento instaurato precocemente
può essere, per esempio, di notevole valore preventivo,
impedendo l’instaurarsi di complicanze gravi.
9
PARTE PRIMA
CAPITOLO 1 :CENNI STORICI
1.1. Storia e alcol: un rapporto ambivalente
La storia dell’alcol cammina di pari passo con quella
dell’umanità.
Tale “convivenza” ha lasciato numerosissime tracce sia
nell’arte, sia nella letteratura scientifica che nella cultura
popolare e ripercorrendole sarà facile accorgersi di come l’alcol
abbia sempre avuto quel significato ambivalente che lo
caratterizza ancora oggi.
A seconda dei vari periodi storici esso è stato infatti
considerato: cibo, fonte di vita, rimedio medico, oggetto di riti di
iniziazione, simbolo di trasgressione e infine bevanda
intossicante. La varietà di questi significati dipende
dall’alternarsi degli effetti “benefici e malefici” delle bevande
che lo contengono.
Per quanto riguarda la sua diffusione nella storia, non c’è
ancora molto accordo riguardo alla esatta datazione delle prime
bevande alcoliche ma sappiamo che nei più antichi documenti
storici e nella tradizione orale sugli usi e costumi dei popoli si
trovano descrizioni della loro preparazione e del loro uso .Alcuni
autori hanno individuato nel IV millennio a.C. l’uso del vino
presso i Sumeri e gli Egiziani, mentre secondo altri la
10
domesticazione della vite selvatica sarebbe avvenuta nelle
regioni della Transcaucasia, tra il 10.000 e l’8.000 a.C.; in questa
stessa regione, verso i 6.000 e i 4.000 anni a.C. si cominciò poi a
coltivare la vite da vino. «In realtà, le scoperte archeologiche ci
informano che già 30.000 anni fa l’uomo sapeva produrre l’alcol
mediante la fermentazione».
vi
Oltre alla coltivazione della vite, già nel 5.000 a.C. iniziò la
produzione della birra, infatti «dai disegni e dai geroglifici del
IV-V secolo a.C. sappiamo che gli antichi Egizi conoscevano
tale bevanda».
vii
Sin da queste epoche remote l’atteggiamento nei confronti
di tali sostanze si è dimostrato ambivalente, infatti molti
documenti antichi contengono descrizioni dei disturbi provocati
dal bere e delle misure per porvi rimedio. Simili descrizioni le
troviamo nei testi delle civiltà più antiche: quella babilonese,
sumerica, egiziana, ebraica, greca e romana. Nonostante ciò,
però, gli stessi Egizi, Ebrei e Greci prescrivevano l’alcol per
scopi terapeutici permeandolo in tal modo di un forte valore
positivo. Presso queste culture il conflitto legato all’alcol si
manifestò anche in situazioni sociali; gli Ebrei, per esempio,
giunsero a bandire il consumo di alcol in concomitanza con i
rapporti sessuali in quanto equiparavano l’ubriachezza allo
straniamento e a una negativa perdita del controllo.
vi
Laming-Emperaire A., citato da Hudolin V., Manuale di alcologia, Erickson, Trento
1997.
vii
Hurlimann M., citato da Hudolin V., Manuale di alcologia, Op. cit.
11
Per quanto riguarda la distillazione, la tecnica con la quale si
producono i superalcolici, è stata scoperta invece molto più tardi,
infatti per il brandy si dovrà attendere il XII-XIII secolo e, per il
whisky ed il gin il XVII secolo. L’arte della distillazione,
comunque, era già stata messa a punto probabilmente dagli
Arabi, in quanto le parole “alcool” e “alambicco” sono di origine
araba; al contrario, altri autori sostengono che tale invenzione sia
da attribuire piuttosto ai Greci che insegnarono in seguito le loro
tradizioni di alchimia a tale popolo.
I Fenici, che furono i primi commercianti di vino anche di
produzione propria, contribuirono a diffondere la coltivazione
della vite per tutto il Mediterraneo. Per quanto riguarda l’Italia è
risultato da vari reperti archeologici che i popoli preromani
conoscevano il processo di vinificazione ma non c’è ancora
accordo su quale popolo abbia importato presso di noi tale arte;
alcuni sostengono che siano stati i colonizzatori micenei nel II
millennio a.C., mentre altre fonti dimostrano che è stato il popolo
dei fenici ad avere introdotto la coltivazione della vite.
A Roma il vino era inizialmente una bevanda esclusiva delle
classi agiate e veniva prescritta ai meno abbienti soltanto a fini
terapeutici, successivamente il consumo venne esteso anche alle
classi meno agiate, ma con l’esclusione delle donne, data la
stretta associazione ritenuta esistente tra ubriachezza e
disinibizione sessuale.
Il rapporto di ambivalenza nei confronti dell’alcol non
riguarda e non ha riguardato solo l’atteggiamento della gente
12
comune ma anche le religioni, i governanti e le organizzazioni
politiche.
Infatti, nel Codice di Hammurabi che risale circa al 1.800
a.C. sono riportate alcune leggi che servivano a regolare il
commercio del vino; in Cina e in Giappone invece i regnanti
bandirono il consumo di birra per sostituirla col sakè, ottenuto
dalla fermentazione del riso. Anche nel Corano ci sono accenni
di condanna all’abuso dell’alcol e su questi accenni alcune
società islamiche hanno istituito la proibizione e la condanna
dell'alcol religiosa e legislativa.
In Europa, la Chiesa non ha mai preso nette posizioni di
condanna verso le bevande alcoliche; e anche ai tempi della
Riforma, nella prima metà del 1500, riformatori come Lutero e
Calvino vedevano nel vino più un dono di Dio che non una
sostanza da cui astenersi, limitandosi a predicare la moderazione.
L’orientamento che prescrive il non abuso è ben diverso dalla
condanna di una sostanza ritenuta dannosa in sé e perciò da
bandire.
Quest’ultimo atteggiamento è emerso in alcuni ambienti
religiosi decisamente fondamentalisti e per niente permissivi
come le sette dei quaccheri e anabattisti. E’ in queste confessioni
portatrici di un estremismo ideologico-religioso che si trovano i
fondamenti del proibizionismo dell’alcol che ha storicamente
fatto capolino qua e là anche in Occidente.
E’ in Inghilterra che prende piede tra il 1500 e il 1600 un
movimento ostile all’alcol e nel 1525 viene varata per la prima
13
volta una legge che vieta l’ubriachezza, per ragioni di ordine
pubblico e la considera un crimine perseguibile. E
dall’Inghilterra, la mentalità e le leggi passano poi nelle colonie
della Nuova Inghilterra dove nel 1600 oltre a condannare
l’ubriachezza si tenta di osteggiare e controllare i locali pubblici
che servono alcolici.
In Europa, intanto c’era stata una notevole diffusione dei
distillati in concomitanza col diffondersi di gravi malattie quali la
peste; i medici, infatti, prescrivevano l’uso di bevande ad alta
gradazione alcolica, che per quanto risultassero inefficaci davano
almeno una generica sensazione di calore e di benessere.
Questo succedeva nonostante già nel XVI secolo
Sebastian Trank avesse sottolineato gli effetti nocivi dell’alcol
affermando che “Bacco uccide più gente che non le guerre” e che
“molte più persone annegano nel bicchiere che nel mare”.
Intanto in Inghilterra e nelle colonie americane le
polemiche contro gli alcolici continuano per tutto il ‘700 e si
tenta anche di proibirli; dopo la guerra d’Indipendenza, nella
neonata America il clima ostile all’ alcol aumenta e tra i firmatari
della Dichiarazione d’Indipendenza compare anche il nome di un
medico-psichiatra molto in vista, Benjamin Rush che si distingue
per i suoi scritti che negano ogni presunta virtù medicale
all’alcol. Egli suggeriva che la tendenza ad ubriacarsi dovesse
essere considerata una malattia e, in quanto tale, un problema.
Allo stesso modo, Thomas Jefferson osservò che buona
parte della popolazione si stava uccidendo con il whisky. Ma i
14
punti di vista di Rush e Jefferson non erano generalmente
conosciuti a causa del diffuso analfabetismo e della mancanza di
sistemi di comunicazione di massa. Inoltre, l’opinione di Rush
era in stridente contrasto con i valori culturali del suo tempo e fu
perciò ben presto liquidata, infatti in quel periodo il bere in
eccesso non era solo tollerato ma anche ammirato. Poteva essere
considerato “immorale ma era virile e divertente”
viii
. L’immagine
dell’uomo lottatore, forte bevitore e duro in tutti i suoi aspetti
divenne il modello ideale per la società di frontiera libera ed
espansionista. L’atteggiamento prevalente ai nostri giorni
secondo il quale il più importante segno di ospitalità sia quello di
servire da bere ha origine in questo stesso periodo.
Prima della rivoluzione industriale il bere e l’alcolismo
non avevano costituito un problema sociale rilevante ma con
l’avvento dell’industrializzazione si notò che l’ubriachezza e
l’alcolismo avevano un’influenza negativa sugli operai e sulla
produzione e si vararono allora le prime misure di natura
moralistica e repressiva per arginare il problema. L’alcolista
veniva considerato una persona moralmente tarata, per questo
motivo contro l’alcol e i suoi disturbi bisognava agire con misure
pedagogiche e repressive.
In questo periodo nacquero anche le prime organizzazioni
di astinenti e le associazioni di sobrietà che si battevano contro la
produzione e il consumo di bevande alcoliche, avvalendosi
spesso anche di alleanze religiose e politiche.
viii
Brown S. (a cura di)., Alcolismo, terapia multidimensionale e recupero, Edizioni
Erickson,Trento 1997.
15
Verso la fine dell’800 il cosiddetto «movimento
dell’astinenza» metteva in discussione il valore positivo
accordato all’alcol e suggeriva che fosse un problema, un agente
patogeno anziché curativo. Formando un fronte unito per
esprimere la loro opposizione alla potente industria alcolica,
forze politiche ed economiche rappresentate dai populisti si
unirono ai moralisti. Ai primi del ‘900, ai populisti e ai moralisti
si affiancarono gli antiimmigrazionisti, che basavano la loro
presa di posizione sull’associazione fra abuso alcolico e
l’immigrazione.
Queste questioni morali ma soprattutto interessi politici ed
economici portarono nel 1919 all’approvazione del XVIII
emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti, che vietava la
fabbricazione, la vendita e il consumo di alcolici. Nel giro di
pochissimo tempo i risultati della legge si rivelarono catastrofici
perché la nascita del mercato nero, per gli enormi interessi
economici in questione, portò al fenomeno del gangsterismo, i
locali che vendevano whisky sottobanco si moltiplicarono a
dismisura e le bevande alcoliche servite, prive di qualsiasi
controllo e garanzia, erano delle miscele spesso veramente
dannose.
La legge sul proibizionismo venne poi abolita nel 1933
non solo per le pressioni dei produttori di alcolici e per la
diffusione della criminalità ma anche perché non era servita a
cambiare la cultura della società in cui era stata introdotta.