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LA DOTTRINA DEL MIRACOLO IN DAVID HUME
PREMESSA
Le pagine che seguono espongono la dottrina del miracolo contenuta nel
breve saggio che David Hume dedicò all’argomento – Of Miracles: unico
luogo nel vasto opus humeano che tratti esplicitamente il tema.
Dopo aver criticamente esaminato la concezione del miracolo formulata
dallo Scozzese, abbiamo preso in esame alcuni problemi sollevati dalla
discussione che Of Miracles suscitò negli anni e nei decenni successivi alla
sua pubblicazione (1748); infine, abbiamo presentato alcune fra le più
significative argomentazioni filosofiche che il saggio di Hume originò
nella filosofia analitica contemporanea, e in particolare nel dibattito di
lingua inglese.
L’intento del presente studio è duplice: per un verso potrebbe essere
definito dossografico, in quanto espone idee altrui in modo quanto più
possibile obiettivo e circostanziato; per altro verso è schiettamente critico,
dal momento che passa le stesse idee al vaglio della comprensione e della
riflessione di chi lo ha redatto.
Se queste sono le finalità delle nostre pagine, nostra è anche la speranza di
aver per quanto possibile contribuito a diffondere, o meglio a difendere,
uno stile argomentativo - quello di David Hume – che ancora oggi appare
come il più efficace antidoto alla tentazione oscurantista di una Fede che
pretende di usurpare i diritti della Ragione, e che talvolta tenta di imporre
il proprio dettato a coloro che non lo condividono con le armi improprie
della minaccia e della scomunica, della tacita condanna o dell’esplicito
ostracismo dell’Extra ecclesia nulla salus.
Specie se letto accanto alle numerose e variegate opere che David Hume
dedicò al problema religioso - sezione XI delle Ricerche sull’intelletto,
Storia naturale della religione, Dialoghi sulla religione naturale… - Of
Miracles rivela una filigrana spirituale fuori del comune: una tempra
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argomentativa e una capacità di enucleare i motivi latenti della cultura
coeva quali raramente si incontrerebbero altrove.
Qualora per esempio si confrontasse l’operetta dello Scozzese con due fra i
suoi più illustri precedenti – il capitolo 37 del Leviathan di Thomas
Hobbes: Of Miracles, and their use (1651), e il breve saggio di John Locke
Discorso sui miracoli (1702-3), si troverebbe che i due grandi inglesi
offrirono una visione del miracolo molto meno originale, in fondo ancora
inscritta nella cornice ‘premoderna’ di un Tommaso d’Aquino, nella quale
“those things are properly called miracles which are done by divine
agency beyond the order commonly observed in nature (praeter ordinem
communiter observatum in rebus” (citazione tratta dall’incicpit della
voce Miracles della Stanford Encyclopedia of Philosophy).
In particolare, tre elementi risaltano in Hume quali salienti fattori di novità
e di discontinuità rispetto al passato:
1. l’introduzione nella definizione di miracolo della nozione di legge di
natura quale principio ‘antonomasticamente’ inviolabile;
2. la trattazione della probabilità a priori dell’evento miracoloso;
3. la discussione induttiva della credibilità intrinseca delle
testimonianze che pretendono di attestare eventi miracolosi.
Fra le voci ottocentesche che non abbiamo avuto modo di commentare
tematicamente, due meritano se non altro di essere evocate: le pagine che
John Stuart Mill dedicò alla trattazione humeana del miracolo nel terzo dei
Saggi sulla religione (Sul teismo), e i due brevi saggi che sullo stesso
argomento si trovano nei Collected Papers di Charles Sanders Peirce. A
nostro modo di vedere, il primo in particolare offre argomentazioni
innovative e una difesa del tropo humeano non priva di valutazione critica,
e attenta a delineare i limiti del ‘dogmatismo scettico’ di cui darebbe prova
Davi Hume nella sua appassionata ricusazione del miracolo.
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CAPITOLO UNO
OF MIRACLES: DALLA FEDE NEL MIRACOLO AL MIRACOLO
DELLA FEDE
PARTE I
David Hume compose Of miracles nei suoi anni giovanili, gli stessi nei
quali attendeva alla laboriosa redazione del Trattato sulla natura umana.
Ragioni di prudenza lo persuasero a non pubblicare il saggio - e anzi nulla
di argomento apertamente religioso - nella prima edizione del Trattato
(1739): sicchè il breve e pungente scritto attese il 1748 per vedere la luce,
quale Sezione X dei celebri Saggi filosofici sull’intelletto.
Non che nel ’48 la temperie culturale inglese fosse delle più favorevoli
all’accoglienza di Of miracles: tre grandi correnti di pensiero si
fronteggiavano sull’argomento: i difensori dell’ortodossia scritturale, i
riformatori religiosi, gli scettici. I primi erano naturalmente schierati in
favore dei dogmi teologici tramandati dalla tradizione cristiana, e in
particolare della verità letterale dei miracoli narrati nell’Antico ma
soprattutto nel Nuovo Testamento; i secondi difendevano un’idea razionale
di divinità e di religione - la cosiddetta versione deistica di Dio - che
tuttavia non escludeva la possibilità di accogliere il miracolo fra le ‘prove
esterne’ della Rivelazione (Locke); i terzi, rappresentati in modo eminente
da David Hume, mettevano in aperta discussione la realtà medesima del
miracolo, e soprattutto il fondamento epistemico della sua testimonianza.
Se per John Locke le verità rivelate non possono contraddire quelle
razionali, e se la sfera del soprannaturale non può contendere con quella
del naturale, per David Hume si pone dapprincipio il problema della
legittimità gnoseologica del soprannaturale: è esso un ambito di esperienza
possibile? Dà luogo a conoscenze incontrovertibili? E’ corroborato da
testimonianze attendibili? Su questo crinale i due grandi filosofi inglesi
divergono apertamente. Locke distingue ciò che è ‘contrary to reason’ da
ciò che è ‘above reason’: e per lui la Rivelazione è un’estensione della
ragione naturale, la quale a sua volta è una rivelazione divina: onde la
celebre dottrina del miracolo quale prova esterna della Rivelazione – suo
signum terreno, visibile e oggettiva manifestazione dell’Invisibile. Nella
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prospettiva deistica, senza il segno terreno del miracolo la ragione non può
conferire il suo assenso alla Rivelazione, e con ciò alla Fede. Hume
formulerà al riguardo idee ben differenti: per lui il problema originario si
sdoppia sin dalla iniziale formulazione nel duplice quesito: sono i miracoli
in sé possibili? E’ la testimonianza a essi relativa in qualche grado
attendibile? Nelle pagine di Of Miracles i due interrogativi si intrecciano e
anzi si confondono, sino a che il secondo appare in primissimo piano e il
primo sembra relegato su uno sfondo ormai quasi impercettibile: la
prospettiva del giudizio gnoseologico - possiamo fondatamente credere,
cioè conoscere, un miracolo? - prende il sopravvento su quella ontologica -
è il miracolo in sé possibile? Il saggio nel quale lo Scozzese discusse
questo tema divenne ben presto oggetto di aspre controversie, e originò
una tradizione esegetica che non si è ancora affievolita.
Hume fa precedere l’argomentazione sui miracoli da una fuggevole ma
significativa allusione al mistero dell’Eucarestia, nel quale il cristiano vede
una prova della presenza reale del Cristo: del suo corpo nel pane, del suo
sangue nel vino. Qui si insinua la prima, fondamentale obiezione dello
scettico: credere o non credere agli Apostoli, cioè ai soli testimoni oculari
dei miracoli di Cristo? E inoltre: come trascurare il fatto che nemmeno ai
tempi delle origini del Cristianesimo si raggiunse mai un’evidenza
superiore a quella offerta da testimoni? Ma la testimonianza di grado zero,
quella dei sensi, parla inequivoca: e parla contro la dottrina della presenza
reale. Similmente va per i miracoli: sussiste in entrambi i casi una
differenza di principio fra la testimonianza dei sensi – che a rigore
nemmeno dovrebbe esser detta testimonianza, essendo ciò a cui per
definizione non si può non credere – e la testimonianza dei testimoni – la
quale potrebbe simmetricamente definirsi come ciò a cui si può sempre
non credere: “Our evidence, then, for the truth of the Christian religion is
less than the evidence for the truth of our senses…nor can any one rest
such confidence in thei testimony, as in the immediate object of his
senses”.
Benché l’esperienza sia la nostra sola guida nelle deliberazioni su materie
di fatto (matters of fact), non è sempre una guida infallibile – e talvolta
incappa in errori. Tuttavia, è sempre l’esperienza a renderci edotti dei suoi
possibili errori: l’attesa di bel tempo in giugno, genericamente e
generalmente giustificata, può essere smentita – ma sempre da
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un’esperienza: da un caso contrario alle attese e altrettanto esperibile del
caso vanamente preconizzato. Così, nella questioni di fatto l’esperienza è
madre e maestra indiscussa; e l’esperienza medesima ci mette a
disposizione l’intiera gamma delle possibilità: dalla certezza piena (il sole
sorgerà domani: attesa corroborata da un’esperienza pregressa univoca e
uniformemente regolare), alla probabilità (in giugno farà bel tempo:
verosimile ma non ‘apoditticamente’ certo), all’incertezza più assoluta
(eventi insoliti ma teoricamente possibili: il sole si oscurerà per otto giorni
consecutivi).
Già nella tripartizione delle evidenze in certe, probabili e incerte
(indeterminabili) si annuncia la massima epistemica che informerà di sé
l’intera argomentazione di Of Miracles, e che richiama i celebri passaggi
del Trattato dedicati alla probabilità della cause e dei casi, nonché alle
regole dell’inferenza causale. La massima recita alla lettera: “A wise man,
therefore, proportions his belief to the evidence”. (E’ altresì chiaramente
delineato il ‘circolo’ entro il quale si muoverà l’argomentazione contro i
miracoli: la massima che prescrive di commisurare l’assenso al grado di
evidenza è tratta dall’esperienza, ciò che potrebbe essere efficacemente
parafrasato nel più esplicito: ‘La massima che impone di seguire
l’esperienza (pregressa) è tratta dall’esperienza (pregressa)’: benché
ovviamente la sua validità sia tacitamente proiettata sul futuro).
Là dove tutti i casi propendono da una parte (sono di segno uguale), il
saggio giudica con infallibile sicurezza; nei casi misti, che presentano
compresenza di evidenze dotate di segno opposto, giudica invece con
certezza e credenza variabili secondo la distribuzione specifica dei casi.
L’evidenza che regola e consente di credere con fondamento è perciò
proporzionale alla superiorità dei casi positivi su quelli negativi: tanto più
il numero dei casi positivi si avvicina al totale dei casi possibili (in termini
di calcolo delle probabilità, a 1), quanto più esiguo dunque si fa il numero
dei casi contrari, quanto più la probabilità si avvicina alla certezza. Il
metodo di misurazione della credenza è semplice e apparentemente
immune da obiezioni: “All probability, then, supposes an opposition of
experiments and observations, where the one side is found to overbalance
the other, and to produce a degree of evidence, proportioned to the
superiority…in all cases, we must balance the opposite experiments, and