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Introduzione
Quanto è femminista il teatro-danza di Pina Bausch? Quanto corrisponde
a quell’emergere della questione femminile che fu tipico degli anni
Settanta? Non c’è qualcosa di vero nell’individuare una corrispondenza
tra il Tanztheater di Pina Bausch e quegli anni in cui le donne misero
coraggiosamente in discussione tutto della loro vita e dei rapporti con il
maschio e il mondo a misura di maschio? Quali sono le implicazioni
femministe nel teatro-danza di Pina Bausch? Come vengono
rappresentati i ruoli di genere? Pina Bausch condanna o glorifica la
guerra dei generi?
Queste ed altre domande rappresentano la base su cui si sviluppa la mia
analisi sul teatro-danza di Pina Bausch. Partendo dalla nascita storica del
pensiero femminista ho ripercorso alcune delle tappe più importanti del
suo dibattito, dalle prime formulazioni teoriche che riconoscono alla
donna un ruolo sociale e politico, a quelle più strettamente filosofiche
che sviluppano un pensiero più articolato e considerano la donna e il suo
operato all’interno di diverse discipline. Fin dalla sua nascita, il pensiero
femminista ha cercato di prendere coscienza e di cambiare il ruolo che la
società patriarcale ha attribuito alle donne. Attraverso i movimenti
organizzati politicamente, le prime femministe miravano a conquistare
una soggettività tanto pubblica quanto privata. Si rivendicava
l’uguaglianza dei diritti universali con la richiesta che venisse promossa
e salvaguardata la specificità dell’identità femminile. Queste prime
istanze sfociarono in quella che viene definita la “prima ondata” del
movimento femminista in cui le problematiche delle donne si
configuravano su un piano strettamente teorico, politico e pratico.
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La “seconda ondata” del femminismo, quella più radicale che va dalla
fine degli anni Sessanta fino agli anni Ottanta, è accompagnata da un
periodo storico di grandi cambiamenti culturali, politici, economici e
sociali. In questo contesto, nonostante il riconoscimento ufficiale della
parità in ampi settori della vita sociale, la condizione di sostanziale
subordinazione rispetto agli uomini permane immutata: il dominio
dell’uomo sulla donna, secondo le femministe radicali, tocca la sfera
della sessualità e della riproduzione, nella quale una differenza biologica,
anatomica, fisiologica, sessuale nel senso letterale del termine, viene
trasformata dagli uomini in differenza di ruoli sociali di genere. La
risposta più largamente condivisa per uscire dalla gabbia dei concetti di
sesso e genere e rompere l’ultima barriera che impedisce alle donne la
loro piena liberazione (sessuale), trova canali e mobilità nuove di
aggregazione: dai gruppi di discussione-confessione (Conscience-
Raising o “gruppi di autocoscienza”) ai cultural studies c o n l a
promozione dei Woman’s e gender studies. In questo contesto, il genere
viene considerato come una categoria ordinatrice e organizzatrice delle
relazioni sociali, per indicare il modo in cui la mascolinità e l a
femminilità sono concepite, ovvero come categorie “socialmente
costruite”. A partire dagli anni Ottanta, però, tutto il dibattito intorno al
genere viene rimesso in discussione: l’influenza delle teorie femministe
francesi, del decostruzionismo, del movimento lesbico ed etnico mirano
a ripensare le categorie di sesso e genere, cercando di chiarire questioni
filosofiche di fondo su concetti quali “identità”, “soggettività”,
“sessualità” e “corporeità”. I nuovi approcci teorici tendono a
considerare la molteplicità delle “differenze” individuali (omosessuale,
transessuale, lesbica, di colore), che la società e la cultura, invece,
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tendono ad escludere-includere nel concetto binario di uomo e donna. Il
campo d’indagine si apre a nuove discipline per permettere al pensiero
femminista di articolarsi e riformulare nuove riflessioni e ricerche, dal
linguaggio alla scienza, dal corpo all’educazione, dalla maternità alla
sessualità, dalla cultura alla critica letteraria e tanti altri, costituendo un
settore di ricerca teorica avanzato e raffinato sia sul piano della
terminologia sia su quello delle argomentazioni.
Da questo punto in poi, si sviluppa il discorso del secondo capitolo:
un’analisi che tende ad approfondire alcune delle tematiche relative al
“corpo”, in particolare, il corpo nella cultura e il corpo nella danza che,
dagli anni Ottanta, ha ricevuto l’attenzione di studiosi e studiose
(femministe, antropologi, etnologi, sociologi e critici di danza).
In particolare, per quanto riguarda il versante delle studiose femministe,
la nuova generazione di critici comincia a guardare con più serietà al
mondo della danza, alle sue rappresentazioni, alle sue implicazioni
culturali, all’autenticità e alla struttura di una sua critica. Questo è
dovuto, soprattutto, a una maggiore consapevolezza multiculturale e al
sempre più frequente incontro con forme di danza occidentali e orientali
che innalzano problemi epistemologici essenziali: sfidare i presupposti
del disinteresse alla critica, dei modelli oggettivi e universali, della danza
e il vero status di “verità”. Si punta alla complessità del processo critico
con osservazioni, analisi, interpretazioni e giudizi che sono
inestricabilmente mescolati. Dunque, la danza non viene più considerata
esclusivamente da un punto di vista estetico, ma piuttosto come una
forma d’arte in cui i rimandi al sociale e al culturale sono evidenti.
Infatti, fra tutte le arti, della e nella cultura occidentale, la danza è stata
sempre considerata come un campo tradizionalmente popolato da donne,
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ma non necessariamente dominato da donne, che perpetua alcuni dei più
importanti simboli di femminilità della nostra cultura. Inoltre, essendo la
danza una forma d’arte del corpo, e il corpo luogo sociale dove l e
distinzioni del genere sono pre-costituite e originate, gli interessi
femministi nel campo della danza non sorprendono. Gli argomenti
spaziano dalla danza en travestì del diciannovesimo secolo al passo a
due e alla critica di danza di coreografe-danzatrici come Isadora Duncan,
Martha Graham, Pina Bausch e tante altre, e gli interrogativi sembrano
infiniti: perché sono state esclusivamente donne a inventare la danza
moderna? È una danza di possibili emozioni universali oppure è sempre
colorata da prospettive di genere basate sul sesso dell’interprete? E
ancora, quale è l’importanza relativa all’anatomia, al training e a i
condizionamenti culturali nella costruzione dell’immagine del corpo
femminile e maschile nella danza moderna e nel balletto? E che cosa il
corpo racconta riguardo ai cambiamenti culturali? Questi interrogativi si
uniscono a quelli posti all’inizio di questa presentazione e introducono le
analisi del terzo e del quarto capitolo: l’evoluzione storico-artistica del
Wuppertal Tanztheater di Pina Bausch e l’interpretazione, dal punto di
vista specificatamente femminista, del suo repertorio di danza.
Fin dalla sua nascita, la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta, il
Tanztheater ha mantenuto vive le speranze di rivolta che hanno
caratterizzato quegli anni e si è affermato in tutto il mondo attraverso un
modo nuovo di concepire il teatro. Con la stessa traduzione infedele della
parola “Tanztheater” nel termine ambiguo di teatro-danza, la nuova
generazione di coreografi-danzatori ha cercato una propria modalità
espressiva libera di esplicarsi rivolgendosi a ogni mezzo, strumento e
materiale: un sapiente collage di gesti, musica, parola, canzoni, cose,
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elementi naturali e videoproiezioni che determinano una forma originale,
soggettiva di scrittura scenica. Dunque, una netta rottura con la
tradizione del balletto classico e, in qualche modo, anche con la danza
moderna e post-moderna. Infatti, il nuovo Tanztheater, in questo caso
quello di Pina Bausch, porta avanti un’istanza di complessità a cui né il
balletto, né la danza moderna e post-moderna possono corrispondere in
modo soddisfacente; nessuna di queste forme di corpo teatralizzato può
rispondere a questa urgenza di polimorfismo, di radicamento nella
concretezza, nella materialità, nella crudezza della vita vissuta che tutti
noi avvertiamo.
Nel teatro-danza di Pina Bausch assistiamo alla creazione di un universo
completamente rivoluzionario in cui il movimento e il corpo sono al
servizio del sentimento: senza quasi danzare, il corpo del danzatore si
mostra sulla scena, cercando di esorcizzare la paura di un’abile
manipolazione sociale. La Bausch mostra il corpo nella sua totalità,
parola compresa, in contatto con le cose del mondo reale per farne
veicolo di sentimenti universali, secondo le sue stesse affermazioni. Il
dominio dell’intelletto sull’anima, in teatro da sempre ambito tema di
fondo, compare in una nuova variante: la disciplina del corpo come
riflesso di schiavitù dell’anima. Si potrebbe interpretare, dunque, in
questo senso e in chiave femminista, il frutto dell’arte di Pina Bausch
che non mette più in contraddizione, secondo un modello occidentale
consolidato, spirito e carne, e che, invece, scavando in questa
contraddizione amplifica la dimensione tragicomica dell’insaziabile
ricerca di felicità e d’amore degli esseri umani, uomini e donne.
La griglia interpretativa delle letture di stampo anglo-statunitense, per
analizzare il teatro-danza di Pina Bausch, hanno fatto perno sui ruoli di
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genere e sull’identità sessuale che riguarda le relazioni tra i corpi,
maschili e femminili, in tutte le articolazioni di preferenze sessuali e di
identità, sempre in risonanza con la visione “politica” dei ruoli distinti
assegnati a ciascuno in ogni tempo e società. Tutto ciò, riguarda anche
la presenza di danzatori-danzatrici en travestì, presenti nelle creazioni
della Bausch, e che porta a chiedersi quale sia il “valore aggiunto” di
simili procedure interpretative rispetto al suo Tanztheater. I ruoli sessuali
e gli scarti rispetto ai ruoli sessuali socialmente ammessi e richiesti
rendono più evidente il profilo universale della “persona” bauschiana, in
tutte le sfaccettature di ogni singola personalità di interprete, sempre
commista di forza e fragilità, di tratti maschili e di tratti teneramente
seduttivi, in una lotta senza fine e per affermare il proprio potere nelle
relazioni interpersonali, di amore o amicizia. In questo senso, nell’analisi
di gran parte del repertorio bauschiano, con una specifica attenzione al
Blaubart spettacolo del 1977, ho cercato di cogliere gli aspetti più
strettamente legati al punto di vista femminista (anglo-statunitense e
francese) senza, però, emettere alcun giudizio morale, senza scatenare
rivendicazioni politiche e, soprattutto, senza classificare il teatro-danza
di Pina Bausch come “femminista”.
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Capitolo 1
1. La nascita del pensiero femminista.
Il XIX secolo è l’epoca storica in cui matura una consapevolezza della
condizione sociale femminile e della sua specificità, in cui si afferma
l’identità collettiva delle donne come “attori sociali”.
All’origine del pensiero femminista c’è un’opera pubblicata a Londra nel
1792 di Mary Wollstonecraft
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dal titolo Rivendicazione dei diritti della
donna
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. Questi sono anni caratterizzati dall’infuocato dibattito sulla
Rivoluzione francese e l’opera della scrittrice venne considerata
scandalosa e fuori luogo perché andava contro i criteri di valutazione
morale della condotta femminile dominanti nella società benpensante.
Le idee di Wollstonecraft si rivolgono esplicitamente alle donne di classe
media con una cultura e un interesse per le problematiche morali, sociali
e politiche del tempo. Non nutriva alcuna fiducia nelle donne delle classi
alte, interessate esclusivamente a “farsi belle” per l’altro sesso,
perpetuando l’immagine della donna inferiore e subordinata all’uomo.
L’autrice stessa si rende conto che l’”oppressione” cui le donne sono
sottoposte non è un fatto di natura ma di educazione: l’educazione è
intesa con un significato più ampio in cui rientra la necessaria riforma
che le donne devono operare prima su se stesse, per infrangere
l’immagine del proprio ruolo fissata e imposta dagli uomini e troppo
spesso accettata e “praticata” da loro stesse.
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MARY WOLLSTONECRAFT (1759-1797), nata in una famiglia di modesta estrazione sociale,
riesce a farsi una cultura e a condurre una vita indipendente e anticonformista. Si guadagna la vita
lavorando come istitutrice di una scuola femminista fondata da lei ed esercitando le professioni di
giornalista e scrittrice.
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WOLLSTONECRAFT, MARY, A Vindication of the Rights of Woman, London, Penguin, 1992.