quali siano, cioè, i tratti distintivi della stessa. Il lavoro si propone di delineare un
quadro della situazione attuale dell'imprenditoria femminile a livello nazionale,
regionale e cittadino. Verranno analizzati dati inerenti la presenza femminile in
questo settore nel tentativo di delineare un quadro aggiornato e inserito
nell'attuale contesto socio economico.
Il lavoro è suddiviso in tre parti: la prima si propone di tracciare un quadro di
riferimento di quella che è la situazione della donna nel mondo del lavoro,
partendo dagli anni Sessanta ad oggi, soffermandosi sull'emergere di nuove
questioni che questo importante ingresso ha, inevitabilmente, determinato.
La seconda parte affronta il tema specifico dell'imprenditoria femminile, il
contesto in cui questa oggi si sviluppa, i numeri del fenomeno, le caratteristiche
e la situazione a livello nazionale e locale. In particolare il livello locale verrà
approfondito grazie ad una ricerca effettuata tramite intervista semistrutturata a
cinque imprenditrici veronesi.
Infine la terza parte si occupa dei sostegni normativi a favore dell'imprenditoria
femminile, ne analizza gli effetti e ne evidenzia le criticità.
Un ultimo accenno è infine riservato ad alcune “buone pratiche” attuate per
l'imprenditoria “rosa” a livello europeo che paiono particolarmente interessanti
per i risultati raggiunti o per le finalità con cui sono state ideate.
4
PARTE PRIMA
La donna e il lavoro
5
1. La donna nel mondo del lavoro. Breve excursus storico
In questo capitolo si analizzerà brevemente la situazione lavorativa delle donne
italiane a partire dagli anni Sessanta ad oggi, analizzando in particolare i
cambiamenti che hanno riguardato la partecipazione femminile al mercato del
lavoro sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Verranno analizzati i
punti critici di questa inclusione e le difficoltà che le donne hanno incontrato, ed
incontrano nel rapporto con l'ambiente lavorativo, i risultati raggiunti e la strada
che ancora rimane da fare.
1. Gli anni Sessanta
Il periodo che va dal 1861 al 1961 registra, in Italia, un netto ed inesorabile calo
dei tassi di attività sia maschili che femminili. Nel primo caso l’attività scende dal
69,9% al 61,1%, nel secondo il calo registrato va dal 48,6% al 18,8%. Data
questa premessa storica, si analizzerà ora la situazione dell’occupazione
femminile in Italia nei decenni compresi tra il 1960 e il 2000.
Come spiega Renato Fontana (2002), per tutti gli anni Sessanta quella
femminile era considerata una manodopera di riserva, debole, utilizzata per
ricoprire i posti lasciati liberi dagli uomini o perché eccedenti o perché ritenuti
“sotto standard” per la professionalità maschile. Negli anni tra il 1963 e il 1967
si registra una flessione della partecipazione femminile alle attività lavorative
dovuta principalmente alla crisi strutturale di lungo periodo di alcuni settori a
forte intensità di lavoro femminile quali l’agricoltura o l’industria tessile. Vi sono
poi ragioni di carattere socio - culturale quali la scarsa mobilità delle lavoratrici
di una certa età e di espulse dai settori in declino e l’assenza di strutture sociali
a favorire la ricollocazione e la riqualificazione di tali lavoratrici, infine la
mancanza di una rete sufficientemente estesa di servizi di assistenza ai
bambini e agli anziani, in grado di supportare le lavoratrici sposate. Tra le
ragioni della scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro in questi
anni, sta inoltre l’insufficiente istruzione e qualificazione professionale delle
donne con conseguente scarsa gratificazione economica e psicologica che
esse traggono dall’attività lavorativa (Groppi, 1996).
6
La cultura e la società di allora consideravano, in sostanza, il lavoro
extradomestico delle donne come un’attività secondaria e complementare
rispetto a quella degli uomini, un’attività aggiuntiva e accessoria da cui attingere
o di cui liberarsi senza troppe difficoltà a seconda dell’andamento
dell’economia. Non di rado capitava di imbattersi nel giudizio di chi riteneva la
volontà femminile di lavorare solo “un modo per distrarsi”, “per occupare il
tempo” o addirittura “un vezzo”. (Groppi, 1996).
Il modello sociale della divisione del lavoro attribuiva alle donne la
responsabilità nella sfera riproduttiva, agli uomini la responsabilità nella sfera
produttiva, ovvero il capofamiglia provvedeva al sostentamento di tutta la
famiglia, infatti il suo lavoro era la fonte del reddito primario, spesso esclusivo
(Fontana, 2002).
1.2 Gli anni Settanta
Questi anni si caratterizzano per un generale decentramento delle attività
produttive. Sono gli anni che vengono definiti della “fabbrica aperta” o “fabbrica
diffusa” (Pescarolo, 1996).
Vengono messi in discussione i costi economici, sindacali, umani che le grosse
concentrazioni industriali comportano, conferendo un nuovo e importante ruolo
alle piccole imprese. Molti dei settori che subiscono la frammentazione delle
attività produttive sono a larga prevalenza femminile; l’offerta di lavoro
femminile negli anni Settanta inizia ad essere tenuta in considerazione dalla
domanda per le sue caratteristiche di flessibilità e di discontinuità che meglio
rispondono alle esigenze poste dal ciclo economico (Fontana, 2002). Le donne
sono meno disponibili degli uomini agli straordinari e ai turni e si assentano
maggiormente, sono ritenute più adatte al lavoro irregolare che a quello
regolare, riservato ancora in larga parte ai maschi, poiché la loro occupazione è
ancora vista come un reddito secondario e accessorio all’interno del nucleo
familiare (Iori, Maiani, 2006). L’attività lavorativa femminile, svolta nella maggior
parte dei casi parallelamente alle altre attività riservate alle donne quali i carichi
7
familiari e il lavoro di cura, si caratterizza quindi per una certa discontinuità
(Federici, 1984).
In questo decennio inizia ad osservarsi un discreto incremento dell’attività
lavorativa femminile nel settore terziario, settore che ha avuto, in questo
periodo, l’importante funzione di assorbire la manodopera femminile che, dopo
l’esodo dall’agricoltura, non ha trovato posto nell’industria. Nel terziario le donne
vengono impiegate principalmente nel credito e nelle assicurazioni, nella
pubblica amministrazione, nel commercio (dove prevalgono le commesse),
nell’ambito dell’educazione e dell’assistenza, nel settore sanitario (dove
prevalgono le infermiere), mentre sono poche le donne nei trasporti e nelle
telecomunicazioni. In questi anni l’occupazione femminile presenta soprattutto
tre aspetti nuovi: l’aumento, come si diceva, del terziario; la crescita
dell’occupazione femminile nell’industria che, pur non essendo estremamente
rilevante, è ugualmente un elemento contraddittorio rispetto all’andamento
sfavorevole della produzione e dell’occupazione industriale in questi anni; infine
la crescita dell’offerta di lavoro femminile. Si può evidenziare, quindi, come
quella che era considerata, e in effetti era, la componente secondaria della
forza lavoro, non presenti nessuna intenzione di ritirarsi dal mercato, ma
evidenzi la volontà di prender parte in modo sempre più massiccio al mercato
del lavoro, tendenza confermata dall’aumento dell’offerta (Federici, 1984).
1.3 Gli anni Ottanta
In questo decennio l’occupazione femminile in Italia è aumentata del 10%,
mentre quella maschile registra una lievissima flessione. Oltre un milione di
posti di lavoro vengono assegnati a donne, la metà dei quali nell’ambito della
pubblica amministrazione (Fontana, 2002). Si registra, da parte delle donne, un
imponente ingresso nel mercato del lavoro che tende sempre più spesso a
configurarsi come un ingresso duraturo, meno condizionato dal matrimonio e
dalla nascita del primo figlio, e sempre più motivato da livelli di istruzione più
elevati (Iori, Maiani, 2006). Proprio in questi anni, che vedono la donna
protagonista di una nuova affermazione sociale, si sviluppa tuttavia un dibattito
8
ancor oggi non esaurito: c’è chi ritiene che l’espansione dell’offerta femminile
sia dovuta principalmente ai vantaggi che offre l’uso di un soggetto più “duttile”
e “governabile” rispetto alla più rigida offerta di lavoro maschile. In questo
decennio i consumi vedono una crescita costante, diventa quindi sempre più
necessario il contributo femminile alla definizione del reddito familiare (Federici,
1986).
Dall’altra parte c’è invece chi sostiene che i cambiamenti sono dovuti a ragioni
culturali che vedono la donna mutare atteggiamento nei confronti del lavoro
inteso nella doppia accezione di attività per il mercato e attività domestica e
riproduttiva (Fontana, 2002).
Importanti novità sul piano normativo contribuiscono a delineare nuovi assetti
nella società di questi anni. Negli anni Ottanta, anzitutto, si iniziano a percepire
gli effetti di una legge emanata alla fine del decennio precedente. Si tratta della
legge 903/1977, denominata Parità di trattamento tra uomini e donne in materia
di lavoro, tappa fondamentale del percorso verso le pari opportunità. È del
1983, inoltre, l’istituzione del Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di
parità di trattamento e uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici. Nel
1984 viene nominata, sotto la presidenza del Consiglio, la Commissione
nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna mentre nel 1987
viene presentato al Senato il primo disegno di legge volto a disciplinare la
realizzazione di azioni positive per il conseguimento delle pari opportunità,
mediante le iniziative che competono alle aziende, enti pubblici o sindacati
(Fontana, 2002).
Sul piano familiare l’azione del movimento femminista ha contribuito a
rielaborare anche la visione della donna nella sua posizione all’interno
dell’ambito domestico: le ragazze appartenenti alle nuove generazioni
sviluppano progetti di vita molto lontani da quelli delle loro madri dedicando
sempre maggiore spazio e attenzione al lavoro extradomestico e allentando
retaggi culturali da sempre ritenuti “naturali”. Proprio in questi anni si inizia a
registrare un’invasione femminile in ambiti lavorativi tradizionalmente riservati
agli uomini (Groppi, 1996). Le donne dimostrano grande determinazione nel
ritagliarsi spazi nelle attività considerate “da uomini”, basti pensare alla loro
9
presenza nelle forze di polizia, nelle forze armate, (anche se nel nostro Paese
quest’ultimo ambito sarà loro accessibile solamente in tempi molto recenti), e in
professioni di alto profilo come i magistrati, i giornalisti, i medici.
1.4 Gli anni Novanta
Le donne hanno ormai compiuto notevoli progressi conquistando posizioni in
ruoli tradizionalmente ritenuti maschili, anche se il cammino verso la parità
effettiva non si è ancora compiuto totalmente: tra i medici nella maggior parte
dei casi le donne hanno conseguito la specializzazione in pediatria piuttosto che
in chirurgia o tra i magistrati sono impiegate soprattutto nei tribunali per minori.
In questi anni emerge inoltre la convergenza tra la nascita di nuovi lavori
“atipici” a tempo ridotto e/o determinato e l’espansione dell’occupazione
femminile (Iori, Maiani, 2006). È il caso, ad esempio, della grande distribuzione,
dove le cassiere lavorano sempre più su doppi turni, spesso part - time o nel
lavoro stagionale associato a turni. Si osserva quindi la presenza sia di una ri-
segregazione che agisce all’interno delle singole professioni, sia di nuove forme
di segregazione associate ai lavori flessibili (Iori, Maiani, 2006). Ma si tratta di
un tipo di lettura. Leggendo il fenomeno in modo diverso si potrebbe invece
sostenere che le donne scelgono, nell’ambito delle professioni tradizionalmente
riservate agli uomini, le professionalizzazioni che sentono come più vicine alla
propria sensibilità. È sicuramente corretto parlare di segregazione o si potrebbe
pensare a diverse propensioni ad occupare determinate figure professionali tra
uomini e donne? Esaminando poi la questione delle donne impiegate in lavori
flessibili: se per alcuni questo elemento conferma una discriminazione nei
confronti dei colleghi maschi, altri invece vedono nel lavoro flessibile addirittura
un privilegio. È il caso, ad esempio, del sociologo americano Richard Sennet, il
quale sottolinea come “[...] negli Stati Uniti, sia gli uomini sia le donne
appartenenti alla borghesia bianca hanno un maggior accesso agli orari
flessibili rispetto a chi lavora in fabbrica o è di origine ispanoamericana”
(Sennet, 1999, pag. 57). Secondo questa lettura, quindi, l’accesso a lavori
flessibili rappresenterebbe addirittura un privilegio, e la segregazione
10
riguarderebbe non una questione di genere ma piuttosto di appartenenza
etnica. Come si vede, si tratta quindi di diversi modi di leggere i processi che
riguardano le trasformazioni avvenute nel mercato del lavoro. La complessità
della questione richiede sicuramente un approfondimento che verrà effettuato
nei capitoli seguenti del presente lavoro.
La femminilizzazione del mercato del lavoro è accompagnata da una duplice
chiave interpretativa: una più pessimista che, pur riconoscendo i progressi svolti
dalle donne, non ritiene questi incidano sulla posizione di debolezza che le
stesse continuano ad avere rispetto agli uomini. L’altra, decisamente più
positiva, anche se non nega uno svantaggio differenziale subito dalle donne
rispetto agli uomini, ritiene le donne che lavorano in grado di competere alla
pari con gli uomini in tanti settori e in tante professioni (Fontana, 2002). Il
crescente accesso delle donne al mondo del lavoro testimonia la grande
affermazione femminile che non può essere letta in chiave pessimistica
prestando attenzione solamente agli elementi negativi che hanno
accompagnato questo processo, alcuni dei quali, forse molti, sicuramente
ancora persistono. Tuttavia, analizzare il processo di conquista del mercato del
lavoro compiuto dalle donne negli anni presi fino ad ora in considerazione,
solamente alla luce di quanto ancora non è stato raggiunto, sarebbe
estremamente riduttivo e non renderebbe il giusto merito all’importante azione
compiuta e ai risultati ottenuti.
1.5 La situazione oggi
Nel corso dell’ultimo decennio la partecipazione femminile al mercato del lavoro
italiano ha seguito un andamento decisamente positivo, come dimostra
l’aumento del tasso di attività passato dal 43% del 1996 al 51% del 2006
(Altieri, Ferrucci, Dota, 2008). Le donne si affacciano al mondo del lavoro con
una formazione sempre più strutturata, con livelli di istruzione sempre crescenti
e con aspettative professionali del tutto simili a quelle dei colleghi maschi.
11
L'indagine “Donne e Lavoro”, realizzata da GfK Eurisko
1
(2007), indaga il punto
di vista della popolazione femminile dipendente da imprese private. Nei
confronti con il lavoro femminile prevalgono opinioni di segno positivo: è visto
come strumento di indipendenza per la donna e come fattore di parità/
comprensione all’interno della coppia, inoltre riconoscono la possibilità di una
soddisfacente conciliazione tra impegno lavorativo e ruolo di madre. Sono
tuttavia condivise da alte percentuali di donne le opinioni che vi sia il rischio di
una ricaduta negativa del lavoro femminile “a tempo pieno” sulla vita familiare,
che considerano il lavoro femminile solo un mezzo per contribuire al bilancio
familiare e che riconoscono la possibilità di realizzazione anche nel ruolo di
casalinga. Queste opinioni “critiche” trovano accentuazione tra le donne con un
livello di istruzione e un ruolo professionale meno elevati e nella fascia di età
che vive con maggiore tensione il conflitto tra lavoro e vita familiare (Eurisko,
2007).
La componente femminile non rinuncia a lavorare neppure nel momento,
sicuramente non semplice, in cui è impegnata anche nella strutturazione di una
nuova famiglia (Iori, Maiani, 2006).
Negli anni tra il 1995 e il 2006 il tasso di occupazione femminile nella fascia di
età 35 – 54 anni è aumentato di 14 punti, anche se va tenuto in considerazione
il fatto che persistono ancora notevoli differenze tra il centro – nord e il sud del
nostro Paese, e che la distanza dell’Italia dalla media degli altri paesi europei è
ancora notevole e si mantiene sui 12 punti in percentuale (Eurisko, 2007).
Risulta ormai evidente, nell’ambito dell’economia familiare, l’importanza della
partecipazione femminile al mondo del lavoro, mondo al quale le donne
dimostrano di voler rinunciare sempre meno, soprattutto dopo aver investito
molto tempo e risorse nella propria formazione (Altieri, Ferrucci, Dota, 2008).
La crescita dell’occupazione femminile ha portato, e continua a portare con sé,
l’aumento del lavoro a tempo parziale, il cui peso è praticamente raddoppiato
nel decennio considerato, attestandosi al 13% circa dell’occupazione totale
1
promossa da Sodalitas, la Provincia di Milano, IBM Italia e Autogrill con il patrocinio della Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità
12
(26% tra le donne, una quota ancora bassa rispetto agli altri paesi dell’Europa
occidentale) (Altieri, Ferrucci, Dota, 2008).
Tra il 1993 e il 2006 si registra, come detto, un rilevante aumento
dell’occupazione femminile: la quota di occupazione totale imputabile alle
donne è passata dal 35% del 1993 al 39% del 2006.
Soprattutto le donne hanno alimentato la crescita del mercato del lavoro,
assorbendo il 76% dell’aumento complessivo di occupazione.
È in particolare nell’ambito del lavoro stabile che le donne sono state
protagoniste.
L’occupazione dipendente non a carattere temporaneo è aumentata – tra il
1993 e il 2006 – di 1.390mila unità (+10,4%): questo incremento è spiegato per
il 92% dalla componente femminile il cui peso, sul totale dei lavoratori a tempo
indeterminato, è cresciuto dal 36% al 41% (Eurisko, 2007).
Anche nell’occupazione dipendente a tempo determinato la parte femminile è
risultata più dinamica. A fronte di una crescita complessiva di 761mila unità, le
donne hanno contribuito per il 57% e già dal 2003 esse costituiscono la
maggioranza di questo segmento occupazionale
2
.
I cambiamenti avvenuti nella struttura dell’occupazione hanno interessato
diversamente uomini e donne. Tra le donne aumenta il peso del lavoro
dipendente – sia temporaneo che permanente – e diminuisce quello del lavoro
indipendente, ridotto nel 2006 al 20% (mentre era al 25% nel 1993). Nell’ambito
dell’occupazione dipendente guadagna terreno il lavoro a tempo determinato
che passa da poco meno del 13% del 1993 a quasi il 16% del 2006 (Altieri,
Ferrucci, Dota).
La presenza femminile nel mercato del lavoro si è rafforzata in tutte le
componenti e, in particolare, tra i dipendenti a tempo indeterminato.
Il processo è stato guidato dal lavoro part - time che interessa una quota
crescente di donne occupate. Alcuni recenti dati
evidenziano che quasi il 40%
delle mamme occupate tra i 35 e i 44 anni svolge attività lavorativa part – time
(da sottolineare che il dato medio rimane comunque inferiore rispetto a quello di
2
L’aumento dell’occupazione dipendente a carattere temporaneo è comunque un fenomeno
generalizzato: tra il 1997 e il 2000 e, successivamente, dal 2004, il ricorso a questa forma contrattuale è in
forte ascesa, sia per gli uomini che per le donne.
13
molti altri paesi europei a più alto tasso di attività femminile). Superata la soglia
dei 45 anni, quando i figli sono più grandi, chi continua a lavorare sceglie
tendenzialmente il tempo pieno (Iori, Maiani, 2006).
Si può quindi affermare che in Italia una parte considerevole delle famiglie
affronta la questione della cura dei figli contraendo l’impegno lavorativo della
madre. Il part – time maschile, nel nostro Paese, è solo residuale. Gli uomini
che hanno figli tendono inoltre ad avere orari di lavoro più lunghi non solo
rispetto alle donne madri ma anche rispetto agli uomini che non sono padri
(Ferrera, 2008). All’incirca il 50% delle donne occupate che hanno figli in età
prescolare lavora a tempo parziale. Dunque, in presenza di figli da seguire e
accudire, il lavoro femminile è possibile nella metà dei casi solo se a tempo
parziale. Il part - time si dimostra, quindi, una favorevole opportunità per la
conciliazione tra i due ambiti, lavorativo e familiare, anche se, in diversi casi,
questa scelta da parte della donna rischia di ridurre drasticamente le
prospettive professionali o la possibilità di avanzamenti di carriera (Iori, Maiani,
2006).
Nella ripartizione dei propri tempi di vita le donne dichiarano una soddisfazione
elevata per il tempo che dedicano al lavoro e ai figli mentre viene giudicato
meno soddisfacente – insufficiente -, il tempo riservato al proprio marito o
partner e, soprattutto, quello dedicato a se stesse per il quale è solo un terzo
delle donne a dichiararsi soddisfatta.
Il problema dello squilibrio nella ripartizione dei propri tempi di vita risulta
attenuato per le donne che non hanno ancora assunto impegni familiari e per
quelle che hanno scelto come soluzione il part time (Eurisko, 2007).
La conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro risulta – in maggiore o minor
misura – un problema per ben tre donne su quattro. Il problema è
particolarmente serio per il 40 per cento delle donne, una percentuale che sale
al 45% tra le donne che hanno figli e al 51 per cento tra dirigenti e quadri
(Eurisko, 2007).
Solo per una ristretta minoranza (13%) l’impegno lavorativo è all’origine di
problemi con il proprio marito/partner. Mentre decisamente più elevata (40%) è
la percentuale delle donne che vivono il lavoro come fonte di problemi nel
14