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2. CAPITOLO 1
2.1. INTRODUZIONE
L‟obiettivo di questo primo capitolo è quello di fornire un quadro generale delle teorie
sugli investimenti diretti esteri ed esaminare il ruolo di alcune determinanti
economiche e sociali ad essi collegati.
Nella prima parte verrà presentata una selezione delle principali teorie che hanno
avuto come oggetto di studio gli IDE e l‟internazionalizzazione delle imprese.
La letteratura, in questi ultimi anni, ha manifestato un forte interesse nei confronti
delle scelte di investimento delle imprese multinazionali, a causa della loro capacità
di promuovere la crescita sia nel loro Paese, che in quello “ospitante” in un contesto
sempre più globalizzato.
Dopo una definizione introduttiva del concetto di IDE, la presentazione seguirà un
criterio cronologico, sia perché ciascuna delle teorie illustrate si pone ad ampliamento
e complemento delle precedenti, sia perché sono le teorie sviluppate negli ultimi anni
che hanno maggiore pertinenza con il reale processo di internazionalizzazione che
vede protagoniste le imprese multinazionali-
A questo proposito, quando parleremo di localizzazione e dei relativi vantaggi
derivanti da una particolare scelta di business, faremo riferimento al dibattito teorico
sugli Ide che si è sviluppato, in varie forme, in seguito ai diversi contributi (dalla
teoria del ciclo di vita di Vernon alla teoria delle imperfezioni del mercato di Hymer,
giungendo al “paradigma eclettico” di Dunning).
La seconda parte del capitolo si concentrerà, invece, sullo studio delle variabili di
attrattività e competitività del territorio. Verranno presentate una serie di schemi e di
grafici per la trattazione dei temi inerenti l‟importanza delle economie di
agglomerazione e lo studio sulle collaborazione fra imprese multinazionali e sistema
istituzionale territoriale. Verrà proposta una panoramica degli aspetti più significativi
che spingono i Paesi ad attrarre investimenti e al tempo stesso, definire quali sono gli
elementi di scelta dal punto di vista dell‟investitore.
Tali variabili verranno catalogate e clusterizzate per formare una sorta di legenda, la
quale ci permetterà di poter osservare ed analizzare qualsiasi situazione economica di
riferimento.
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Nella terza parte del capitolo, saranno esposti i dati relativi ai flussi sia in entrata che
in uscita, prendendo in esame la situazione attuale e quella storica. Da un quadro
generale, l‟esposizione si inoltrerà verso aspetti sempre più dettagliati e specifici fino
a presentare il contesto e le dinamiche italiane.
In questa parte verrà dedicato un ampio spazio di analisi sugli effetti della crisi nella
sull‟economia reale e sul flusso di scambi.
Tutte le economie mondiali hanno infatti registrato contrazioni pesantissime nei
propri comparti industriali già a partire dalla fine di ottobre 2008; le stesse hanno
provocato un drastico rallentamento del commercio mai più sperimentato dal
dopoguerra e cioè da molto prima che l‟integrazione commerciale a livello mondiale
prendesse piede.
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2.2. GLI INVESTIMENTI DIRETTI ESTERI: DEFINIZIONE
Gli investimenti diretti esteri (IDE) sono investimenti sostenuti da parte di un soggetto
residente in un Paese rivolti a stabilire una relazione di lungo termine per acquisire
interessi durevoli e di controllo in un'impresa residente in un altro stato (il soggetto
residente è detto investitore diretto e l'impresa è detta impresa di investimento
diretto).
Gli investimenti diretti esteri presuppongono l'intenzione dell'investitore diretto di
acquisire un significativo livello di influenza sulla gestione dell'impresa e si
distinguono dagli investimenti di portafoglio perché questi ultimi sono semplici
partecipazioni finanziarie di soggetti non interessati alla gestione aziendale.
Affinché si possa parlare di investimento diretto il soggetto che investe deve
possedere il 10% o più delle azioni ordinarie, per un'impresa costituita in società o
l'equivalente per un'impresa non costituita in società.
Una prima grande divisione prevede che gli IDE si possano classificare secondo due
categorie:
investimenti greenfield: consistono nella creazione ex novo di attività
produttive. Nel complesso essi rappresentano una quota marginale, circa il
10%-15% del flusso mondiale degli IDE.
investimenti brownfield: consistono in processi di fusione aziendale o
nell'acquisizione di strutture già esistenti e rappresentano la parte più
consistente degli IDE
Dal punto di vista del controllo societario è possibile evidenziare un‟ulteriore
differenziazione; il fondo monetario internazionale definisce diretti tutti quei rapporti
di partecipazione in cui la quota detenuta dall‟investitore, nel capitale sociale
dell‟impresa partecipata è maggiore o uguale al 10% (InvestingGroup, 2002)..
Secondo quest‟ultima considerazione le imprese oggetto di investimento estero si
dividono in:
le società controllate (subsidiary companies), cioè quelle imprese nelle quali
l‟investitore estero direttamente o indirettamente, possiede più del 50% del
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capitale sociale o ha il diritto di nominare oppure di rimuovere la maggioranza
dei membri del consiglio di amministrazione;
le società consociate (associate companies), cioè quelle imprese dove
l‟investitore estero, e le società da lui controllate, possiedono una quota
compresa tra il 10 % ed il 50% del capitale sociale;
le filiali (branches), cioè quelle imprese o strutture, anche senza personalità
giuridica, che sono possedute interamente o congiuntamente quali: uffici o
stabilimenti permanenti dell‟investitore estero, partecipazioni non registrate o
joint ventures tra un investitore estero e soggetti terzi come ad esempio terreni,
attrezzature fisse o mobili che sono all‟interno del Paese ricevente da almeno
un anno e che siano direttamente possedute da un residente straniero e
registrate separatamente dall‟operatore ( aeromobili, impianti di trivellazione
per gas e petrolio, ecc..) e passibili di fiscalità.
Nel 2004 la Banca d‟Italia ha suggerito la seguente definizione di investimenti diretti
esteri secondo la quale: “gli IDE sono considerati veicoli per il trasferimento
internazionale di conoscenze tecnologiche, organizzative e gestionali. Secondo le
teorie della crescita endogena, gli incrementi di produttività determinati dagli IDE
agevolano l‟accumulazione di capitale e la crescita di lungo periodo del Paese
ricettore. Un maggiore afflusso di investimenti diretti dall‟estero, sebbene
desiderabile, non rappresenta comunque un sostituto né di politiche industriali né di
investimenti in R&S” (Banca d‟Italia, 2004).
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2.3. TEORIE CLASSICHE SUGLI IDE
L‟esposizione che segue è una sostanziale panoramica delle principali teorie sugli
IDE, che costituiscono la base di questo elaborato; le stesse sono state elaborate negli
anni sessanta e settanta.
Proprio questi studi fungono da base per le considerazioni che faremo in seguito;
nonostante che alcune di queste teorie abbiano perso, in questi ultimi decenni, la loro
piena valenza, esse risultano comunque essere fondamentali per gli studi condotti
successivamente in questo campo.
2.3.1. TEORIA DEL CICLO DI VITA DEL PRODOTTO
La teoria del ciclo di vita del prodotto spiega l‟evoluzione dei prodotti dalla loro
nascita fino alla fase di maturità: di solito, all‟inizio numerose varianti del prodotto o
del design sono disponibili nel mercato, e un‟elevata incertezza nonché un ridotto
consenso sulle performance e sugli aspetti rilevanti dei prodotti caratterizzano
l‟ambiente di mercato. Con il susseguirsi degli sviluppi associati al prodotto,
attraversando la fase di crescita fino alla fase di maturità del settore, specifici design
dei prodotti diventano dominanti (in alcuni casi emerge un singolo design dominante):
il prodotto diventa standardizzato e le necessità del consumatore sono chiare
(Garavaglia, 2004).
In conformità a questo processo, le caratteristiche dell‟industria seguono varie fasi
evolutive:
• La fase iniziale è caratterizzata da un‟innovazione radicale che dà inizio
all‟evoluzione dell‟industria: il volume totale prodotto è molto basso, le innovazioni
di prodotto sono frequenti, le quote di mercato cambiano continuamente e le barriere
all‟entrata sono irrilevanti. In questo stadio, molti nuovi entranti entrano nel mercato
ed il numero di imprese cresce rapidamente.
• Nella fase di crescita dell‟industria, il prodotto cresce notevolmente, il
numero di versioni esistenti del prodotto diminuisce, e gli investimenti in innovazioni
di processo crescono considerevolmente. Le barriere all‟entrata diventano
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significative, i tassi di entrata rallentano e di solito gli elevati tassi di uscita
conducono ad un fenomeno di “shake out”, ossia ad un rapido declino nel numero di
produttori.
• Nello stadio di maturità, la crescita del prodotto rallenta, le quote di mercato
si stabilizzano, il grado di concentrazione dell‟industria e le barriere all‟entrata sono
elevati. Le innovazioni tendono ad essere sempre meno e riguardano principalmente il
processo di produzione. In tale contesto, i tassi di entrata sono bassi ed i nuovi entranti
trovano molto difficile competere con le imprese esistenti.
Questi concetti prendono spunto da una delle prime teorie elaborata dall‟economista
americano Raymond Vernon nel 1966 che studiò un modello che riusciva a mettere in
luce le interazioni tra l‟analisi delle decisioni, che portavano le imprese ad investire
all‟estero, ed il processo di innovazione tecnologica e successiva introduzione sul
mercato di nuovi beni finali (di consumo e di investimento). Vernon teorizzò che
ciascun prodotto dovesse passare attraverso fasi produttive e commerciali successive e
conseguenti (quindi collegate). Da ciò è stato dimostrato che esiste una stretta
relazione tra ciclo di vita del prodotto, caratteristiche dei Paesi e l‟espansione
internazionale delle imprese. Il contesto di studio sono gli Stati Uniti e l‟ipotesi
prevalente è che la conoscenza sia un bene disponibile a tutti senza limitazioni.
La comunicazione col mercato potenziale spinge ad innovare e sviluppare nuovi
prodotti.
In sintesi, il modello propone una dinamica localizzativa articolata in quattro fasi:
1) Il punto di partenza è l‟introduzione di un nuovo bene non standardizzato.
Vernon teorizza che la domanda di nuovi beni di consumo si sviluppa dove vi è un
reddito pro capite dei consumatori alto e crescente e che l‟esigenza di nuovi beni di
investimento labour saving è maggiormente avvertita in Paesi aventi un costo del
lavoro alto rispetto a quello del capitale. Le imprese innovatrici, in questa prima fase,
introducono il nuovo bene per far fronte alla domanda interna e non hanno necessità
di effettuare decentramenti produttivi, in quanto gli elementi di novità ed unicità del
prodotto garantiscono loro dei vantaggi monopolistici sul mercato. La bassa elasticità
della domanda rispetto al prezzo, inoltre, fa passare le considerazioni sul costo (che ha
ancora natura prevalente di costo-fisso, essendo per lo più costituito da spese per
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ricerca e sviluppo ed analisi di mercato) in secondo piano rispetto alla necessità di
soddisfare la domanda crescente, proveniente, dopo un certo periodo, anche
dall‟estero. La domanda estera viene in questa prima fase soddisfatta attraverso le
esportazioni. È più importante per l'impresa la capacità di essere flessibile, di
sperimentare vari modelli e materie prime e di apprendere, che non di ottimizzare.
L'elasticità al prezzo del prodotto è bassa e le differenze di costo contano ancora poco.
È invece importante una localizzazione che favorisce un'immediata comunicazione
col mercato e quindi l'impresa first comer sarà in esso localizzata, presto seguita da
imitatori locali.
2) La seconda fase è denominata di “Sviluppo del prodotto”. La domanda è sempre
sostenuta e nuove imprese estere cominciano a presentarsi sul mercato attratte dalla
possibilità di effettuare profitti. Nel contempo la produzione diviene più
standardizzata (con impianti ad alta intensità di capitale e poco flessibili
tecnologicamente e con una crescente elasticità della domanda rispetto al prezzo) ed
esaurite le possibilità di godere di economie di scala ed altri vantaggi connessi alla
precedente posizione di monopolio, l‟impresa innovatrice (statunitense) effettua
investimenti diretti all‟estero, per spostare la produzione direttamente nei nuovi
mercati di sbocco (che sono quelli con un livello di sviluppo simile a quello degli Usa,
cioè i mercati europei). Si afferma uno standard di base, anche se ciò non implica
uniformità in quanto si possono moltiplicare le tipologie e le varianti di prodotto. La
domanda cresce rapidamente. Diminuisce il bisogno di flessibilità. Si ricercano e si
affermano economie di scala. Il problema dei costi diventa significativo. Si riducono
le incertezze anche se non c'è ancora una vera concorrenza di prezzo. Comincia a
manifestarsi una domanda del prodotto anche in altri Paesi, quelli a più alto reddito e
più simili agli Stati Uniti anche in termini di alto costo del lavoro.
Si comincia quindi ad esportare, in teoria fino a che, supponendo che le capacità
produttive non siano pienamente utilizzate per l‟offerta domestica, la somma dei costi
di trasporto più i costi marginali di produzione sono inferiori al costo medio di
produzione nei mercati ove si esporta. Quando diventano superiori, diventa
conveniente investire all'estero. Se le capacità produttive domestiche sono pienamente
occupate, il confronto è tra costi medi più costi di trasporto per la produzione interna e
costi medi per la produzione estera, in quanto anche nel Paese d‟origine per esportare
sarebbe necessario costruire un nuovo impianto. La convenienza o meno a
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moltiplicare i siti produttivi dipende in buona misura dall'importanza delle economia
di scala (in rapporto all'ampiezza del mercato).
3) Nella terza fase (maturità) le vendite sul mercato interno si stabilizzano, mentre le
dimensioni dei mercati esteri continuano a crescere fino a permettere produzioni
importanti e cresce l'intensità capitalistica dei processi.
Inoltre i processi imitativi si rafforzano anche nei Paesi esteri, rendendo possibile
l‟ingresso nel settore di produttori locali, anche perché i governi nazionali
introducono strumenti tariffari miranti a scoraggiare le importazioni e a incentivare la
produzione domestica.
In complesso, crescono quindi in modo significativo gli incentivi e le ragioni per
investire all'estero. L‟impresa innovatrice, per mantenere la propria quota di mercato e
difendersi dai potenziali entranti, investirà nelle fasi a valle della filiera
(commercializzazione, assistenza e manutenzione) e sostituirà le esportazioni con la
produzione nei mercati esteri, trasferendovi le proprie tecnologie di processo. Poiché
tuttavia le nuove entrate di produttori locali avvengono comunque, si creano flussi di
esportazioni anche dai Paesi second comer (europei) verso altri Paesi terzi (altri
europei) o gli Stati Uniti stessi.
4) L‟ultima fase analizzata è quella del “Declino”. Con un prodotto ormai maturo e
completamente standardizzato l‟impresa innovatrice non ha più alcun vantaggio
monopolistico e l‟unica variabile chiave per poter sopravvivere nel mercato diviene la
possibilità di produrre a costi minori, ovvero delocalizzare la produzione attraverso
IDE in Paesi in via di sviluppo con costo del lavoro molto basso. La domanda del
prodotto ha esaurito la crescita ed è ovunque stabile o in calo; i processi imitativi sono
ormai completi, sia nel Paese d‟origine che nei Paesi esteri, e la tecnologia è del tutto
matura e standardizzata e perfettamente accessibile agli imitatori locali.
In questa fase le imprese decentreranno la produzione (almeno per quanto riguarda le
fasi maggiormente labour-intensive) nei Paesi ove i fattori produttivi hanno costo
inferiore. Pertanto, se nelle prime tre fasi il target è rappresentato da Paesi
caratterizzati da modelli di consumo analoghi a quelli del Paese di origine
dell‟impresa multinazionale, ora l‟IDE si rivolge prevalentemente verso Paesi poco
sviluppati e/o in via di sviluppo. In questa fase il Paese first comer diventa
importatore netto.
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L‟azienda potrebbe abbandonare il mercato o innovare per ripercorrere l‟iter
procedimentale. Gli IDE assumevano prevalentemente la forma dell‟investimento
greenfield (ovvero della costruzione di nuove strutture produttive).
Questo modello riproduce graficamente quanto appena descritto e sottolinea la
necessità di sviluppare nuove strategie e nuovi modelli di business ogni qual volta ci
si renda conto di essere al culmine della fase di maturità (vendite massime) per
mantenere alta la profittabilità del prodotto.
2.3.2. IL MODELLO DI HYMER
Stephen Hymer è uno dei primi autori ad analizzare le motivazioni della crescita delle
imprese sul piano internazionale (Hymer, 1960). Egli fu uno dei primi a teorizzare
come le imprese che investono all‟estero siano costrette a sostenere costi di gestione
superiori rispetto alle imprese locali. Hymer fa derivare tali costi aggiuntivi
dall‟oggettiva difficoltà di un‟impresa nell‟operare in un contesto socio-economico
diverso (costi legati ad una conoscenza più limitata del mercato, della lingua, degli
organi istituzionali e del sistema economico di riferimento). Un altro tipo di ostacolo è
rappresentato dalle barriere all‟ingresso poste o dai governi esteri, sotto forma di
misure protezioniste, o dai consumatori stessi.
Il modello di Hymer pone al centro dell‟attenzione l‟impresa e non il singolo
prodotto, quindi il suo punto di partenza vuole essere un‟implementazione alle teorie
neoclassiche che non hanno mai spiegato l‟esistenza di investimenti reciproci tra i
Paesi avanzati.
Il punto nodale della teoria di Hymer prende in esame le imprese e la loro
internazionalizzazione: sottolinea il fatto che, le imprese sono disposte a investire
all‟estero, nonostante che le stesse debbano sostenere dei costi e dei rischi aggiuntivi.
Hymer giustifica questo comportamento con l‟esistenza di imperfezioni del mercato e
di vantaggi oligopolistici di cui le imprese godrebbero, che debbono venire sfruttati
per bilanciare i maggiori costi ed i rischi presenti nell‟investire all‟estero.
In una prima fase, l‟impresa cresce a livello nazionale (aumento delle quote di
mercato, acquisizioni e fusioni)e questo le consente di ottenere profitti sempre
maggiori.
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L‟elevato profitto derivante dal grado di monopolio raggiunto è utilizzabile per
investimenti all‟estero, aventi come obiettivo quello di estendere il processo di
crescita anche oltre frontiera. Hymer elenca una serie di potenziali vantaggi
dell‟Impresa multinazionale (tra i quali include anche l‟innovatività del prodotto,
ricollegandosi alla teoria del ciclo di vita del prodotto di Vernon) per spiegare i fattori
che consentono all‟impresa di accrescere il proprio potere di mercato e di competere
alla pari con le imprese locali che godono di un vantaggio competitivo legato ad una
minore asimmetria informativa.
Altri vantaggi possono essere il possesso di un marchio, di skills specialistici, la
capacità di raccogliere capitali, le economie di scala, le economie di integrazione
verticale, ecc.
Secondo Hymer, i vantaggi oligopolistici conseguiti nel proprio Paese permettono di
bilanciare i maggiori costi che l‟impresa deve affrontare dovendo insediarsi in un
mercato estero e tutto ciò giustificherebbe la presenza di IDE.
L‟autore individua nell‟esistenza di generiche barriere all‟entrata, le imperfezioni del
mercato e nell‟esistenza di conoscenze di tipo esclusivo, o di un esclusivo canale di
approvvigionamento, le condizioni di vantaggio oligopolistico di cui le imprese
godrebbero.
Posta l‟esistenza di tali vantaggi, l‟impresa sceglierà la via delle esportazioni o quella
della produzione in loco a seconda delle condizioni del mercato in cui essa si trova ad
operare. Imperfezioni di mercato connesse all‟esistenza di barriere tariffarie e non
tariffarie, elevati costi di trasporto e trattamenti fiscali discriminanti sono tutti fattori
che tendono a spostare l‟ago della bilancia verso la produzione locale. Una volta
scelta la produzione in loco nei confronti delle esportazioni, l‟Impresa Multinazionale
(IMN) dovrà decidere se intervenire direttamente (tramite IDE) oppure cedendo
licenze a produttori locali. Tale scelta sarà condizionata soprattutto dalla natura degli
specifici vantaggi competitivi posseduti dall‟impresa. In particolare, l‟IDE risulterà
favorito quanto più i vantaggi competitivi dell‟IMN consistono nel possesso di know-
how specialistico e di altri intangible assets, che difficilmente possono essere
giustamente valorizzati tramite la cessione di licenze.
La teoria di Hymer è solamente parziale, perché non analizza quali comportamenti
dell‟impresa sono alla base dei suoi vantaggi oligopolistici, né quali sono le
motivazioni dell‟esistenza delle imperfezioni del mercato. Essa tuttavia ha il merito di
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aver affrontato, per la prima volta, molte tematiche che sarebbero state approfondite
nei decenni successivi.
2.3.3. L‟ANALISI DI KINDLEBERGER
Kindleberger si concentra sullo studio delle imperfezioni di mercato che sarebbero
alla base dei vantaggi monopolistici delle imprese che effettuano gli IDE
(Kindleberger 1969).
Anche queste teorie, in accordo con quelli di Hymer, sostengo l‟esistenza di vantaggi
monopolistici grazie ai quali le imprese multinazionali sono incoraggiate a investire
all‟estero.
Kindleberger cercò di trovare le motivazioni per cui la produzione di alcuni beni
veniva effettuata da imprese multinazionali tramite investimenti diretti piuttosto che
asservirsi delle imprese locali vicine al mercato di sbocco dei prodotti.
Principalmente le imperfezioni possono essere suddivise in quattro categorie:
non perfetta concorrenza delle struttura di mercato: l‟esistenza di prodotti
differenziati e di concentrazioni industriali oligopoliste in cui le imprese sono
price setters e non price takers (anche grazie a diverse capacità di marketing)
determina vantaggi monopolistici soprattutto per le imprese fornitrici di beni
di consumo.
Disequilibrio diffuso della struttura del mercato mondiale: l‟esistenza di una
forte segmentazione dei mercati rende i tassi di rendimento dei diversi fattori
produttivi diversi da mercato a mercato: ciò spinge le imprese a sfruttare
questa situazione a loro favore facendo IDE all‟estero a seconda delle
caratteristiche del mercato del Paese ricevente e inoltre il differenziale
tecnologico tra i diversi Paesi.
Imperfezioni dovute all‟inadeguatezza del mercato alla corretta allocazione
delle risorse: l‟esistenza di beni pubblici prodotti dall‟impresa, dei quali il
giusto prezzo di produzione ed il controllo non possono essere adeguatamente
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garantiti (ad esempio l‟informazione); economie di scala che portano l‟impresa
ad ingrandirsi sul mercato internazionale, fino a raggiungere dimensioni tali da
poter avvicinarsi al costo medio totale del prodotto più basso possibile ed a
posizioni di dominio tali da godere di vantaggi di monopolio od oligopolio.
Interventi governativi imposti distorsivi della libera concorrenza: le imprese
che già godono di una posizione di dominio sul mercato interno, per aggirare
dazi e contingentamenti imposti da governi esteri, effettuano IDE al fine di
non veder limitato il loro mercato di sbocco”.
Queste quattro categorie principali servono a descrivere, anche se in modo parziale e
se vogliamo incompleto, i principi che stanno alla base dei vantaggi monopolistici di
cui le imprese godrebbero nell‟effettuare IDE.
Infatti vengono tralasciati altri fenomeni che hanno acquisito sempre maggiore
importanza negli ultimi decenni: la competizione strategica a livello globale, la
presenza sempre maggiore di colossi economico finanziari che rispondono a logiche
di profitto globale a livello di gruppo e non solamente di impresa singola, l‟emergere
di nuovi sistemi produttivi che spingono al massimo la delocalizzazione di singole
fasi produttive per poi vendere contemporaneamente all‟intero mercato mondiale.
Nonostante questi fenomeni non siano stati approfonditi, le teorie di Kindleberger
hanno offerto un contributo concreto per tutti coloro che hanno successivamente
approfondito tale argomento (le teorie delle imperfezioni di mercato saranno il punto
di partenza per la spiegazione che darà Dunning degli ownership advantages).
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2.3.4. LA TEORIA DELL‟INTERNALIZZAZIONE
Nel paragrafo che segue verrà presentata, brevemente e nelle linee generali, la teoria
dell‟internalizzazione secondo le prime formulazioni realizzate nella sua prima
versione (P.J. Buckley e M. Casson, 1976).
Questi economisti utilizzano come punto di partenza le teorie di Coase inerenti al
ruolo e alle relazioni tra mercato e impresa; quest‟ultima viene considerata come
un‟organizzazione efficiente, che sotto certe condizioni riesce a sostituisce
vantaggiosamente il mercato nella gestione degli scambi economici.
Questa teoria, come presentata per la prima volta da Buckley e Casson, mette in
relazione la decisione dell‟impresa di effettuare IDE con la sua struttura organizzativa
interna, nonché con altri fattori esterni all‟impresa.
Il punto nodale di tale teoria spiega come le imprese siano incentivate ad effettuare
IDE poiché le imperfezioni presenti nel mercato creano le condizioni che rendono
conveniente l‟internalizzazione delle transazioni.
Le imprese multinazionali vengono viste come una sorta di mercato interno dove le
risorse vengono allocate tra le diverse unità decentrate internazionalmente.
Ciò consente a questi tipi di imprese di eliminare imperfezioni ed ostacoli di natura
economica e di contesto sociale ed internazionale.
Le imprese multinazionali rivestono un ruolo positivo nella misura in cui esse sono in
grado di incrementare l‟efficienza globale del sistema produttivo quando i loro costi
interni di coordinamento risultano inferiori ai costi di utilizzo del mercato.
Questa visione si contrappone a quella più problematica sulle teorie oligopolistiche,
principalmente da parte di quegli autori (come Hymer) che studiano il comportamento
delle imprese multinazionali concentrandosi in particolar modo sui temi sull‟utilizzo
del potere di mercato.
Sempre in questo filone di pensiero, un altro contributo preso in considerazione è
stato fornito da Teece nel 1986, il quale affronta il tema dell‟internazionalizzazione
nell‟ambito della più generale teoria dei costi transazionali.
Questa teoria ha come obiettivo principale la misurazione delle efficienze relative alle
diverse strutture di governo delle transazioni, basate sui costi di produzione e sui costi
di transazione, come i costi legati alla ricerca del cliente, alla gestione delle
negoziazioni, alla stipula e all‟esecuzione dei contratti, ecc...). Le imprese vivono in
un contesto in cui i fattori ambientali ed umani ostacolano le relazioni di scambio.
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L‟incertezza, la complessità, le asimmetrie tra le parti nella distribuzione delle
conoscenze e delle informazioni, le condizioni di razionalità limitata e di moral
hazard in cui si compiono le scelte dei decisori, i comportamenti opportunistici sono i
fattori che contribuiscono alla sostanza dei costi transazionali e che pesano
maggiormente nella strutturazione dei costi aziendali se l‟azione si svolge in un
contesto internazionale (Teece 1986).
Nell‟ottica dell‟approccio dei costi transazionali l‟organizzazione degli scambi
internazionali sono il risultato del confronto tra vantaggi e svantaggi associati alle
diverse strutture di governo, valutati assumendo la transazione quale unità base
dell‟analisi.
Applicando le categorie analitiche dell‟analisi transazionale allo studio degli scambi
internazionali, la scelta tra le diverse modalità di internazionalizzazione dell‟impresa
sarà il risultato del confronto tra vantaggi e svantaggi associati alle diverse strutture di
governo delle transazioni e ai trade–offs rispetto ai costi di produzione.
Teece propone tale ottica nell‟esaminare l‟Impresa multinazionale nei suoi sentieri di
espansione internazionale, in relazione sia al processo di integrazione orizzontale
dell‟impresa oltre i propri confini nazionali, sia al processo di integrazione verticale a
valle o a monte delle attività dell‟impresa.
La teoria dell‟internazionalizzazione offre un quadro più completo rispetto alle teorie
precedentemente esposte, utile a spiegare in modo piu‟ esauriente ed integrato
l‟andamento internazionale dei flussi di IDE basandosi su semplici considerazioni di
costi benefici.
La teoria infatti ignora le considerazioni strategiche e di management e la divisione
del lavoro a livello globale che le imprese multinazionali hanno sempre più tenuto in
considerazione nelle loro strategie di espansione all‟estero.