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L’interesse per la disoccupazione degli ultra cinquantenni è connesso con le nuove
politiche adottate in merito dall’Unione Europea.
L’UE ha ritenuto necessario preoccuparsi degli ultra cinquantenni disoccupati in quanto
l’interesse è sempre stato orientato alle fasce più giovani della popolazione in
considerazione di quanto sia difficile per un ragazzo trovare lavoro. Quasi mai si è posta
attenzione al problema della disoccupazione delle persone senior considerate generalmente
ben radicate nel mondo del lavoro.
Oggi la capacità del sistema economico europeo di assorbire forza lavoro si è indebolita e
le restrizioni poste dal mercato tendono a favorire alcune categorie più di altre : i più
penalizzati in caso di perdita del posto di lavoro sono proprio i senior. Infatti i giovani, che
nella maggior parte dei casi non si sono ancora formati una famiglia, possono
generalmente contare sul sostegno da parte dei genitori e il vero danno non è tanto
individuale quanto sostanzialmente generazionale perché insito in una contrazione delle
nascite e quindi un invecchiamento della popolazione. Per quanto riguarda le persone
adulte, esse reagiscono meglio degli anziani alla perdita del posto di lavoro in quanto
dotate di maggior vitalità e voglia di combattere ma soprattutto più aggiornate dal punto di
vista professionale e quindi in grado di cercare e cogliere più prontamente eventuali nuove
occasioni. Ai senior invece mancano mediamente proprio le caratteristiche che li
potrebbero agevolare nella ricerca di un nuovo posto di lavoro e quindi per essi è più facile
che la perdita stessa si trasformi in una condanna a vita senza che, nella maggior parte dei
casi, possano trovare un aiuto che non sia l’eventuale assistenzialismo statale. Per facilitare
tale inserimento sono necessari corsi di specializzazione, formazione continua e
orientamento al lavoro, argomenti che verranno affrontati nel presente documento.
Il problema delle persone di 50 e più anni disoccupate è molto delicato e va a toccare molti
aspetti della persona oltre al lato economico, il che a volte mette in pericolo l’equilibrio
psichico del soggetto. Questo perché nel tempo il concetto del lavoro è diventato molto più
sofisticato in quanto esso è una parte integrante nella vita di ognuno, una realtà che
coinvolge il mondo razionale ed emotivo delle persone : attraverso esso si può dichiarare il
proprio comportamento, i valori, le regole che sono tipiche di un ambiente culturale e
produttivo (Avallone F. 1997).
Si esaminerà la disoccupazione dei senior di tre grandi realtà quali quella del Giappone,
degli Stati Uniti e dell’Europa, entrando per quest’ultima nel dettaglio di alcuni paesi più
rappresentativi, come ad esempio l’Italia che sarà analizzata anche nelle realtà del Nord,
Sud e Centro.
La condizione di disoccupazione dei senior è stata rapportata alle condizioni di
occupazione e inattività della suddetta fascia e delle altre forze di lavoro.
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Si vedrà che i senior in Europa e negli Stati Uniti sono una categoria che lavora ed occupa
posti in maniera privilegiata rispetto alle altre forze di lavoro, perchè oltre ad essere
fortemente tutelati dai sindacati sono considerati validi per esperienza e competenza
acquisite . In Giappone, invece, un ultra cinquantenne è inattivo (in pensione) e per nulla
disoccupato.
Nel tempo i senior hanno visto diminuire la propria presenza nel mondo del lavoro, pur
rimanendo molto occupati : saranno esaminati in dettaglio i provvedimenti attuati dai
singoli Stati ed i loro effetti.
Ci si è chiesto infine chi beneficiasse della fuoriuscita dei senior dal mercato del lavoro : in
letteratura vedremo che “l’eliminazione” dei senior dal mercato del lavoro favorisce le
giovani generazioni, ritenute più competenti e preparate all’uso delle nuove tecnologie.
Per verificare quest’ipotesi si è definita un’occupazione ideale per ciascuna di tre fasce di
età (15-24, 25-49, 50-64).
L’occupazione ideale di una fascia è uguale al totale dei posti di lavoro disponibili
moltiplicato per il rapporto tra la forza lavoro della fascia stessa e la forza lavoro totale.
Essa rappresenta in condizioni di disoccupazione grave un modo equo per ripartire tra le
fasce i posti di lavoro disponibili.
Si è quindi osservata la differenza tra occupazione reale della fascia e occupazione ideale
rapportandola ai posti di lavoro complessivi disponibili.
Se la differenza suddetta è :
ξ positiva, la fascia considerata è privilegiata ;
ξ nulla, la fascia è trattata equamente ;
ξ negativa, la fascia è penalizzata.
Il valore assoluto di questo parametro ben rappresenta le dimensioni del fenomeno in
termini di percentuale di posti di lavoro occupati indiscriminatamente.
Quest’ultimo esame ha riguardato i dati disponibili per tutti i Paesi già menzionati ed ha
confermato la tendenza della fuoriuscita dei senior a favore dei giovani sia per l’Europa
che per gli Stati Uniti, escludendo il Giappone dove l’occupazione dei senior è minima.
Nel tempo i giovani sono risultati sempre discriminati nella ripartizione dei posti di lavoro,
ma nel momento in cui l’occupazione dei senior diminuisce, i giovani dimostrano di avere
i requisiti che soddisfano il nuovo mercato (ad es. diploma superiore, conoscenza delle
nuove tecnologie, predisposizione al cambiamento, un minor costo per l’azienda) e quindi
vengono assunti preferibilmente.
Lo studio ha richiesto l’esame di un gran volume di dati e ciò ha comportato un lavoro di
ricerca delle fonti alquanto impegnativo, che tuttavia è stato ripagato da risultati
interessanti utilizzabili soprattutto da entità governative e da parti sociali per definire e
pianificare interventi sul mercato del lavoro.
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La disoccupazione teorica
Generalità
Introduzione
Il seguente capitolo fornirà un’attenta sintesi della bibliografia in merito alla
disoccupazione generale nella prima parte e della disoccupazione delle persone senior
(sopra i 50 anni) nella seconda.
Si definiranno, in questa parte generica, i concetti di disoccupazione, inattività e
occupazione ; si descriveranno le caratteristiche della disoccupazione in Italia e in Europa
di ieri e di oggi ; si parlerà dei problemi psicofisici correlati alla disoccupazione del
passato e la complessità del fenomeno odierno.
Concetti di occupazione, disoccupazione e inattività
Ciò che risulta molto complesso è definire cos’è la disoccupazione e chi sono i
disoccupati : P. Sinclair ( 1989) paragona la disoccupazione ad un elefante, cioè più facile
da riconoscere che da definire.
L’immagine sociale del disoccupato è di un soggetto senza lavoro, ma dagli studi compiuti
risulta scorretto ridurla a questo. Il mercato del lavoro è popolato da occupati e
disoccupati, mentre si definisce inattivo chi ne è escluso e perciò né occupato né
disoccupato. Ma cosa significa essere occupato, disoccupato o inattivo ? Sen (Reyneri
1996) dice che il lavoro non può essere definito in termini di attività fisica, ma propone tre
criteri per chiarire il concetto di occupazione : la capacità di dare un reddito alla persona
occupata, la produzione di beni o servizi utili, il riconoscimento sociale e personale. Tutto
questo ha valore se applicato ad una società moderna dove predomina il lavoro salariato e
la produzione per una richiesta di mercato; ma in una società arretrata , dove è diffusa la
manodopera familiare non retribuita e l’autoconsumo, i tre criteri non hanno valore .
Complesso è il concetto di disoccupato ; per definirlo si possono identificare quattro
dimensioni, comuni ai disoccupati di tutti i Paesi, più una quinta poco rilevante in Italia
ma non per il resto dell’Europa (Ciravegna 1990, in Reyneri 1996) :
1. una condizione economica : non avere un’occupazione ,
2. un’attività : essere alla ricerca di un’occupazione salariata,
3. un’attitudine : essere disponibile ad accettare un lavoro alle condizioni preposte ;
4. uno stato di necessità : avere un più o meno elevato bisogno di procurarsi un reddito ;
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5. una condizione giuridico-amministrativa : essere registrato negli uffici pubblici di
collocamento e ricevere un’indennità di disoccupazione e altre forme di assistenza
(questo in Italia non esiste ma in tutta l’Europa si).
Quando tutte le dimensioni sono presenti contemporaneamente, non c’è dubbio sul
riconoscimento dello stato di disoccupazione. Tra le condizioni di disoccupato e di
occupato, le differenze non sono nella realtà così nette : esistono situazioni ambigue, di
soggetti che si arrangiano in lavori precari e irregolari (il lavoro nero), che non aprono
alcuna via alla stabilità e alla sicurezza di un lavoro a tutti gli effetti riconosciuto.
Altra condizione di ambiguità è la collocazione dei cassa integrati : sul piano giuridico
rimangono dipendenti dell’azienda ma di fatto non producono. Pertanto in Italia i
cassaintegrati sono legittimamente classificati tra gli occupati, ma negli altri Paesi i
lavoratori nelle stesse condizioni vengono licenziati e inseriti nelle liste dei disoccupati. In
realtà un cassaintegrato può comportarsi da disoccupato (se è alla ricerca di un’altra
occupazione), da occupato (se svolge un lavoro in nero) oppure da inattivo (attendendo il
reinserimento o nel caso delle donne se retrocedono a casalinghe).
Soffermiamoci sulla definizione di inattivo: è così identificato il soggetto che in un periodo
della propria vita si trova fuori dal mercato del lavoro. Tra questi ci sono gli studenti, le
casalinghe, gli anziani, i cassaintegrati, i pensionati e così tutti quelli che potrebbero
cominciare a lavorare in un qualsiasi momento (Reyneri 1996). Non è facile, però, segnare
la linea di distinzione tra inattività e ricerca di lavoro ; a fare la differenza sono due
questioni : l’intensità della ricerca del nuovo impiego e la disponibilità a svolgere lavori
inferiori alle proprie aspettative (Reyneri 1996). I diversi livelli di coinvolgimento delle
suddette questioni determinano lo stato di inattivo o disoccupato.
A rendere più difficile la trattazione della disoccupazione c’è la questione della
misurazione ; non è possibile riuscire a quantificare la vera disoccupazione di un Paese,
visti i fenomeni di lavoro nero, doppio lavoro e lavori domestici che rendono molto
approssimate le stime degli uffici di collocamento. Attenendoci, però, ai dati riportati dagli
uffici di collocamento, possiamo ripercorrere l’excursus di chi è oggi disoccupato,
cercando per lo meno di intervenire, lì dove i tempi di lontananza dal lavoro cominciano ad
essere preoccupanti. Infatti quando si parla di disoccupazione è bene definire se si tratta
di lunga o breve durata : la differenza è che la prima racchiude i disoccupati da più di un
anno e la seconda tutti gli altri (l’argomento verrà ripreso più avanti).
L’attuale disoccupazione è molto diversa da quella passata, ad essere cambiato è
l’atteggiamento comune in merito, come gli studi che vengono compiuti .
C’è una maggiore attenzione alla questione, dettata sicuramente dall’emergenza che si è
creata in molti Paesi europei. Prima il disoccupato era un potenziale criminale, un
fannullone (Pugliese 1993); oggi ad essere senza lavoro sono giovani laureati, personale
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specializzato, soggetti socialmente integrati . A questo punto, mi sembra doveroso
descrivere gli aspetti salienti dell’attuale disoccupazione italiana e le fasi evolutive, dal
secondo dopo guerra ad oggi, per capire in che situazione siamo. Dopo verrà trattata la
disoccupazione europea.
Il modello italiano
La situazione italiana è stata ampiamente trattata da due studiosi del campo, Pugliese e
Rebeggiani (1997), che ne hanno percorso le principali tappe di evoluzione.
Dopo il secondo dopoguerra la disoccupazione era complessa e diversa da regione a
regione : nelle zone del Mezzogiorno la questione è grave, poiché mancano le opere di
bonifica per migliorare il settore dell’agricoltura, unica fonte produttiva di generi
alimentari.
In tutto il restante Paese domina l’arretratezza di alcuni settori ; le industrie belliche ,
ormai inutili, avevano il problema di convertirsi in fabbriche in grado di ricostruire il Paese
completamente distrutto dalla guerra. Al Nord la ripresa è repentina ; infatti, lì nasceranno
nei seguenti anni, le maggiori industrie.
A partire dagli anni ’60, l’occupazione in agricoltura vede grandi mutazioni : iniziano le
prime lotte contadine, che comporteranno maggiori incentivi finanziari, atti all’acquisto di
mezzi tecnici. In questi stessi anni l’eccedente popolazione agricola nel Sud, trova come
vie di uscita alla disoccupazione, l’emigrazione e l’occupazione industriale ; due sono le
destinazioni favorite dagli immigrati : quella transoceanica e quella europea. Scendono
così le forze agricole e salgono quelle industriali : nasce anche da noi e si espande il
modello fordista (catene di montaggio, produzione di massa).
Negli anni ’70 nasce l’interesse per l’occupazione , che sfocia in studi specifici. Questi
anni vedono l’inizio della disoccupazione giovanile causata da un aumento demografico
inaspettato, ma anche dall’ascesa delle donne nel mondo del lavoro. Negli anni ’80 gli
occupati nel settore industriale diminuiscono ; a vacillare è la più grande industria del
Nord : la Fiat (verrà ripreso l’argomento nella trattazione della disoccupazione over 50,
descrivendo lo studio condotto da A. Bagnasco in merito al caso), che mette in crisi
migliaia di operai. Sono questi gli anni in cui si adotta, come politica del lavoro, la cassa
integrazione guadagni (CIG), che permette alle aziende di evitare il licenziamento nei casi
di esubero della manodopera, facendo gravare il costo del lavoro sull’istituto di
previdenza, l’INPS.
Il compito istituzionale della CIG è realizzare sospensioni temporanee di lavoro, senza
licenziamenti : i lavoratori percepiscono l’80% del salario restando formalmente alle
dipendenze delle imprese. I dimessi, che non troviamo tra i disoccupati, finiscono in parte
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tra la popolazione inattiva (soprattutto i lavoratori più anziani), oppure tra gli occupati del
terziario, settore in forte crescita (Altieri e Pugliese 1990).
Questi anni vedono la fine del modello fordista, che si ritiene ormai inadeguato a
soddisfare le esigenze del nuovo mercato. Quest’ultimo pretende un prodotto che si possa
adattare alle esigenze individuali, non come il sistema fordista che creava un prodotto
standardizzato, di massa, non modificabile.
Si consolidano, sempre negli anni ‘80, le caratteristiche della nostra disoccupazione, che
riguarda i giovani, le donne e il Mezzogiorno, ma che riprenderemo in maniera più
specifica avanti.
Arriviamo agli anni 90 : apparentemente (poiché con Reyneri, 1996, vedremo che la
categoria rimane ancora oggi) questo periodo vede l’esclusione dal modello italiano della
disoccupazione, della categoria dei giovani. Questo perché a partire dal 1992 (Rebeggiani
e Pugliese 1997) ha luogo un’eccezionale ondata di licenziamenti (a tale proposito verrà
più avanti presentata un’accurata ricerca condotta da Contini e Rapiti, 1994), a discapito
della vecchia manodopera per favorire i giovani. Questa rivoluzione-innovazione delle
aziende vede coinvolta tutta l’Europa.
Per concludere questo excursus, vediamo a che punto siamo in Italia oggi.
Nel panorama europeo la disoccupazione italiana si differenzia non tanto per il livello del
tasso, quanto per le caratteristiche (Reyneri 1996). Abbiamo una forte discriminazione di
genere e un’elevata quota di donne in cerca di lavoro; una forte discriminazione per età,
poiché i giovani presentano un tasso disoccupazione altissimo, rispetto i più anziani. La
nostra è una disoccupazione da inserimento, in quanto colpisce chi cerca di entrare per la
prima volta nel mercato del lavoro ; unico vantaggio risulta il basso rischio di perdere
l’impiego per chi si è inserito, grazie alle politiche che cautelano i licenziamenti (Reyneri
1996).
Da non dimenticare sono le differenze territoriali, che purtroppo sono una peculiarità
italiana : nel Mezzogiorno, le regioni si presentano con il minor tasso di occupazione e con
il più elevato tasso di disoccupazione , al contrario del Nord (Reyneri 1996). Il divario
occupazionale tra Nord e Sud è impressionante : al Centro/Nord il tasso occupazionale
supera il 50%, mentre al Sud non arriva al 42% ; di conseguenza i tassi di disoccupazione
tendono ad aumentare al Sud, quasi il 20,6%, assorbendo il 57% della disoccupazione
complessiva italiana (Altieri e Pugliese 1990).
Per bloccare il crescente tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno (che irrimediabilmente
coinvolge tutta l’Italia) si sono progettati tanti strumenti, ma su uno in particolare si è
ritenuto importante impostare una seria ed accurata valutazione . Lo strumento in causa è
l’incentivazione (adottata a partire dal 1986) per l’avvio di iniziative imprenditoriali
giovanili (che abbiamo visto essere la categoria più coinvolta) nel Mezzogiorno (L. Frey
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1995). Si è proposta ed effettuata una ricerca , per conto del Comitato per lo Sviluppo della
Nuova Imprenditorialità Giovanile, sul tema “la valutazione dell’impatto della legge
44/1986 sulle problematiche del lavoro giovanile nel Mezzogiorno” : la ricerca ha messo
in evidenza che lo strumento in esame è in primo luogo una via per creare nuove imprese e
quindi posti di lavoro.
Il problema è che anche se si creano nuove imprese molte non sopravvivono, dopo quattro
anni dalla nascita 1/3 delle imprese non presenta più dipendenti (le informazioni prese
fanno riferimento a 123 imprese beneficiarie della 44/86) ; ma perché ? La spiegazione ,
anche se i dati INPS (usati per l’indagine) sono incompleti, sembra dovuta al fatto che i
posti di lavoro sono creati con superficialità, in maniera aleatoria (L. Frey 1995). Così
alcune aziende perdono il personale entro quattro anni dalla loro istituzione ; altre, quelle
che sopravvivono, continuano a crescere anche a distanza di tre anni dall’avvio (L. Frey
1995).
Ricapitolando, i disoccupati in Italia sono in primo luogo:
1. giovani in cerca di prima occupazione ;
2. donne, che tentano di abbattere le discriminazioni che le colpiscono ;
3. gli abitanti del Mezzogiorno.
La disoccupazione in Europa
Di disoccupazione si parla ben poco negli anni del boom del secondo dopoguerra : questi
fanno da cornice ad una perfetta ripresa economica dei paesi sviluppati dell’occidente, che
hanno visto un processo di crescita e di profonda modificazione dell’occupazione (E.
Pugliese).
In questi anni di fioritura trovano spazio le teorie create negli anni trenta per risolvere i
gravi danni delle recessioni economiche del periodo. Sostengono l’occupazione, il reddito
e la condizione sociale dei disoccupati : in tutto il mondo è principalmente riconosciuta la
teoria degli economisti W. Beveridge e Keynes, che diffondono il concetto di welfare state
(stato assistenziale). Per definire bene cosa è quest’ultimo mi rifaccio alla definizione di
Jan Cough (Pugliese 1993): “i welfare state consistono nel controllo delle condizioni della
riproduzione dell’esercito operaio attivo e nel mantenimento della popolazione eccedente”;
l’affermarsi del welfare state comporta un’espansione dei benefici a vantaggio dei
disoccupati. Ogni welfare state è diverso : le differenze dipendono dall’intreccio delle
politiche per l’occupazione, politiche dei servizi e dei sistemi di integrazione sociale
familiare adottate da ogni Stato (Pugliese 1993).
A condizionare il diverso assorbimento della disoccupazione nei vari Paesi, è anche
l’espansione dei servizi pubblici, che vanno incontro alle famiglie nell’assistere i soggetti
deboli e nel fornire occupazione, soprattutto alle donne. Ma oggi a causa delle profonde
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trasformazioni della struttura produttiva (basti pensare a che rivoluzione ha causato
l’abolizione del modello fordista : tutto il sistema nelle fabbriche ha avuto un’evoluzione)
e dell’aumento crescente della spesa per le politiche sociali, in tutti i Paesi i modelli di
welfare state vanno in crisi.
Le politiche keynesiane di sostegno della domanda di lavoro avevano senso finché la
carenza di questa richiesta era condizionata da un sottoconsumo (visto che i paesi erano
più poveri) : quando i salari e il consumo crescono le politiche keynesiane perdono
automaticamente rilevanza (Pugliese 1993). Comunque i passati sistemi di welfare state
determinano le attuali differenze, che corrono tra i vari Paesi europei.
L’attuale disoccupazione ha caratteristiche diverse da quella degli anni trenta : se nel
passato lo status di disoccupazione creava forti disagi, a colpire dell’odierna
disoccupazione è la normalità di cui si riveste ; le cifre pur essendo elevate, non
determinano situazioni di tensioni sociali, come in passato (più avanti verrà descritta la
condizione di disoccupazione di un paese austriaco negli anni trenta).
Oggi la capacità del sistema economico europeo di assorbire forza lavoro si è indebolita,
colpendo, nonostante le differenze territoriali (anche per le ragioni suddette) delle
categorie più di altre : le donne e i giovani (L. Frey 1996). Ma a creare discriminazione è
anche la qualifica occupazionale.
In merito a quest’ultima categoria dalle indagini si nota che il tasso di disoccupazione di
operai semi-specializzati e lavoratori non qualificati è quattro o cinque volte maggiore di
quello relativo ai professionisti e dirigenti : bisognerebbe concentrarsi su una teoria della
disoccupazione dei lavoratori operai (Nickell, Layard 1994).
Altra caratteristica della disoccupazione europea è la durata : circa la metà degli attuali
disoccupati sono senza impiego da oltre un anno (da qui la denominazione di
disoccupazione di lunga durata, a cui verrà dedicato uno specifico paragrafo) ; purtroppo la
disoccupazione di lunga durata, una volta radicatasi, tende ad assorbirsi debolmente
(Layard, Nickell, Jackman 1994).
Una parentesi vorrei aprirla sui sussidi di disoccupazione in atto in tutta l’Europa, esclusa
l’Italia : la maggior parte dei Paesi dell’UE hanno un sistema di benefici più o meno senza
limiti di durata. I disoccupati possono ricevere sussidi per almeno tre anni e spesso
indefinitamente ; al contrario negli Stati Uniti e in Giappone (rivali economiche dell’UE) il
massimo è di sei mesi e in Norvegia, Svezia e Svizzera è all’incirca di un anno (Layard
1994). Per ottenere tale retribuzione bisogna avere dei requisiti stabiliti da ogni Stato :
questo scatena un problema molto delicato, come quello della falsa disoccupazione.
Per falsi disoccupati si intendono quelli che non cercano realmente lavoro, che fanno di
tutto per “evitarlo”; questo perché nel momento in cui si viene segnati al collocamento
come disoccupati, automaticamente si ha diritto al sussidio . In un’inchiesta svolta (Benoit-
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Guilbot, Gallia 1992) più della metà dei disoccupati interpellati, confidava di non cercare
lavoro sul serio, per ovvie ragioni. Ad esempio in Gran Bretagna fino agli anni 80 non
veniva attuata alcuna verifica sulla reale disponibilità al lavoro ; dal 1986 sulla base di un
programma politico, coloro che ricevono un sussidio vengono convocati ogni sei mesi e
sollecitati a trovare un lavoro : da allora sempre meno motivazioni vengono date per non
accettare un lavoro disponibile. Questo provvedimento ha permesso alla Gran Bretagna di
ridurre il tasso di disoccupazione .(Layard 1994)
La spiegazione tecnologica
E’ doveroso dedicare attenzione al ruolo svolto dai nuovi sviluppi tecnologici in rapporto
alla disoccupazione.
Quando ci si chiede perché c’è così tanta disoccupazione, diventa quasi inevitabile dare la
risposta più semplice ed intuitiva, incolpando le innovazioni tecnologiche, che si
sostituirebbero alla manodopera. Oggi non c’è più alcun lavoro che sia eseguito senza
l’ausilio di macchinari ; è pertanto facile convincersi che la causa prima della
disoccupazione di massa è la tecnologia. Tutte le fabbriche usano i robot per svolgere
operazioni con precisioni oggi infinitesimali , ma che prima erano più approssimate
(pensiamo alle novità introdotte dalla Fiat quando affidò a piccoli e silenziosi robot la
gestione della logistica e la realizzazioni di noiose operazioni). Visitando una di queste
fabbriche la prima cosa che viene detta è :”per fare questo ieri ci volevano 60 persone
mentre oggi ne bastano 3” (A.Accornero 1997).
Ma è proprio vero che la tecnologia crea disoccupati ? L’eventualità di effetti
occupazionali negativi causati dalla tecnologia fu considerata negli anni 50, quando si ebbe
un’intensificazione del progresso tecnico. Frederick Pollock gettò per primo l’allarme (in
A.Accornero 1997, F. Pollock 1956) : condusse uno studio intitolato “dati per la
valutazione delle conseguenze economiche e sociali”. Il tema fu studiato con ricerche
empiriche e dibattuto in convegni internazionali ; a quei tempi si vedeva la tecnologia
come portatrice di progresso, da sfruttare positivamente per la società intera, eliminandone
gli effetti negativi. Si iniziò a parlare di riduzione dell’orario di lavoro, per ridurre la
stanchezza fisica e aumentare il tempo libero ; ma l’obiettivo era sempre sintonizzare il
sistema professionale e il sistema produttivo. Questo approccio era condiviso dalla
maggioranza fino agli anni 70, quando, la produttività, per un crollo del petrolio sul
mercato mondiale aumentò più della produzione e della popolazione (e quindi del
consumo) : allora si profilò la disoccupazione tecnologica. Mi spiego.