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- la concessione della facoltà di sottoscrivere azioni di nuova emissione (OPS, Offerta
Pubblica di Sottoscrizione),
- lo sfruttamento congiunto delle due modalità precedenti (si parla in questo caso di OPVS,
Offerta Pubblica di Vendita e Sottoscrizione).
Va notato come attraverso un’OPS venga offerta la possibilità di sottoscrivere titoli di nuova
emissione: in questo caso l’offerta comporta un aumento di capitale e una raccolta di capitale
positiva per l’impresa. Di contro, nell’OPV alcuni soggetti (tipicamente gli azionisti controllanti
dell’impresa e/o gli investitori istituzionali) cedono in parte o integralmente i titoli dell’impresa
che essi detengono: in questo caso le azioni sono già esistenti e non vi è raccolta di capitale per
l’impresa, ma vi è una raccolta di liquidità da parte degli azionisti. Uno studio empirico di
Huyghebaert e Van Hulle (2006) analizza i fattori che determinano, in una IPO, la proporzione di
azioni di nuova emissione (primary shares) rispetto alle azioni, in vendita, ma già esistenti
(secondary shares). I principali risultati ottenuti sono riportati nella Tabella 1.1.
Tabella 1.1: La scelta tra azioni primary e secondary: evidenza empirica (Huyghebaert e Van Hulle (2006)).
Le imprese che al momento dell’IPO sono più giovani, più piccole e con un alto rapporto market
to book hanno di solito una proporzione alta di azioni di nuova emissione.
La proporzione di azioni di nuova emissione non è legata al leverage dell’impresa, ma dipende
dal livello del debito bancario: imprese con più debito hanno una proporzione più grande di
azioni primary.
Fattori che non sono sotto il controllo dell’impresa, come i trends degli indici di mercato o il
numero di imprese quotande nell’anno che precede la quotazione, non sembrano influenzare la
struttura dell’IPO in termini di primary/secondary shares.
Il rapporto market to book sembra avere un ruolo chiave: buone condizioni di mercato
favoriscono l’emissione di un numero maggiore di azioni primary.
Le IPOs con una proporzione grande di azioni di nuove emissione hanno una tendenza più
grande a incrementare il capitale negli anni immediatamente successivi alla quotazione.
L’evidenza è coerente con l’ipotesi che le quotazioni che comprendono l’offerta di nuove azioni
sono spesso una premessa alla crescita dell’impresa.
La probabilità di essere oggetto di takeover è più grande per le IPOs con una proporzione
maggiore di azioni secondary. Conseguentemente, la cessione di azioni da parte degli azionisti
esistenti può essere interpretata come il primo segnale di una strategia di disinvestimento che
può poi portare al cambio del controllo dell’impresa.
3
Esistono inoltre altre tecniche attraverso le quali un’impresa può approdare alla Borsa. Per
esempio attraverso la fusione con una società già quotata, attraverso la scissione di una società
già quotata (spin-off): essa si scinde e ai suoi azionisti vengono assegnate azioni della nuova
società scissa, oppure viene offerto al pubblico la possibilità di sottoscriverne i titoli (equity
carve-out), e infine, se l’azionariato è sufficientemente diffuso (come nel caso di cooperative),
attraverso l’accesso diretto al listino senza alcun collocamento.
Riferendosi invece alla natura della società quotanda, le offerte possono essere classificate nelle
seguenti tipologie:
- IPO di una società privata,
- IPO di una società a controllo pubblico: questa operazione viene detta di privatizzazione
e si riferisce al caso in cui la società quotanda è controllata, direttamente o
indirettamente, dallo Stato o da un altro Ente Pubblico.
1.3 PERCHÉ UN’IMPRESA DECIDE DI QUOTARSI
Si è detto nel precedente paragrafo che tramite una IPO una società si affaccia per la prima volta
a un mercato di Borsa, è quindi necessario approfondire i motivi che possono spingere
un’impresa a prendere la decisione di quotarsi (the going public decision).
La quotazione, ovvero quel processo mediante il quale i titoli di un’impresa vengono ammessi
alla negoziazione su di un mercato regolamentato e quindi su questo giornalmente “prezzati”, è
un’operazione di finanza straordinaria che segna una scelta chiave nel ciclo di vita di un’impresa
e, come tale, attrae da tempo l’attenzione di studiosi e operatori, nonché degli investitori
istituzionali e individuali.
Il passaggio dallo status di private a quello di public, che assume caratteristiche specifiche a
seconda del Paese, del settore e del periodo in cui avviene, va infatti a impattare su alcune delle
principali caratteristiche della società (dalla struttura finanziaria a quella proprietaria, dalla
visibilità alla necessità di maggior trasparenza e chiarezza informativa) e anche sugli interessi dei
suoi proprietari (in termini di ricchezza, proprietà e controllo) dato che la quotazione comporta
quasi sempre l’ingresso di nuovi azionisti nella compagine societaria e la conseguente riduzione
delle quote di partecipazione per i vecchi proprietari.
Questa scelta dovrà allora essere frutto di un’attenta valutazione di tutti gli aspetti sopra citati,
includendo considerazioni sulla gestione aziendale, sul management, sullo studio di sviluppo
4
della società, sulle sue prospettive di crescita future e sull’andamento del mercato, oltre che
sull’orizzonte temporale al quale la società si riferisce: la quotazione potrebbe avere, infatti,
effetti molto positivi nel breve, ma che si esauriscono completamente nel lungo periodo. Appare
evidente come la decisione sia complessa e delicata, viste le ripercussioni che può generare e
come debba essere intrapresa solo dopo aver considerato le soluzioni alternative attraverso le
quali la società può perseguire gli stessi obiettivi ricercati con la quotazione.
Con l’accesso alla quotazione in Borsa, una società decide infatti di creare un mercato ufficiale
per i propri titoli, esponendosi consapevolmente al confronto con altre società presenti sul listino
e, più in generale, sottoponendo le proprie capacità reddituali e finanziarie al giudizio della
comunità finanziaria. Come si intuisce, il commitment dato al mercato è molto forte ed è dunque
necessario che i massimi organi aziendali analizzino con attenzione costi, rischi e benefici
connessi alla quotazione e alle varie modalità attraverso le quali realizzarla. In letteratura sono
presenti numerosi studi volti ad analizzare la convenienza del processo di quotazione per
un’impresa; tra questi vi è un importante filone che ritiene che l’ingresso in un mercato
regolamentato sia una vera scelta strategica effettuata dal management aziendale e derivante dal
confronto tra costi e benefici della quotazione.
1.3.1 I BENEFICI DELLA QUOTAZIONE
Una delle spiegazioni più ricorrenti utilizzata in letteratura per giustificare il ricorso alla
quotazione da parte di un’impresa è che essa permette di finanziare la crescita futura attivando
nuovi canali di finanziamento e riducendo il costo del capitale.
Nella realtà tale decisione è dettata da una pluralità di benefici, riassumibili in quattro categorie
principali (Giorgino, Giudici e Paleari (2001)):
- benefici di natura operativa: l’ingresso di nuovi soci privati nell’impresa, in particolare di
investitori istituzionali, può generare guadagni di efficienza nella gestione operativa
(come mostrato da Pagano et al. (1998)); inoltre, la quotazione può consentire
all’impresa di ampliare il proprio mercato (attraverso una maggiore visibilità anche
all’estero o grazie a un effetto di certificazione che segnala ai clienti la superiore qualità
rispetto ai concorrenti, come mostrato da Stoughton et al. (2000)) e può portare a una
riduzione delle spese di marketing, a un maggiore potere contrattuale nei confronti di
clienti e fornitori nonché alla possibilità di instaurare partnership con concorrenti o
controparti appartenenti alla medesima filiera produttiva;
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- benefici di natura finanziaria: la quotazione può portare a ridefinire la struttura
finanziaria dell’impresa, con l’obiettivo di ridurre l’indebitamento e il costo del capitale,
per esempio mediante la rinegoziazione delle condizioni di credito (Pagano, Panetta e
Zingales (1998) testimoniano in Italia una riduzione del costo del debito che permane
anche nei tre anni successivi alla quotazione) e la diversificazione delle risorse
finanziarie; queste considerazioni sembrano supportare la pecking order theory (i cui
primi contributi si devono a Donaldson (1961) e Myers (1994)), secondo la quale
esisterebbe una gerarchia tra le diverse forme di finanziamento scelte dai managers: in
primo luogo essi sceglierebbero l’autofinanziamento, poi il debito, ricorrendo solo in
ultima istanza al capitale di rischio. In quest’ottica la quotazione è “necessaria” nel
momento in cui gli azionisti esistenti non sono più in grado, o non hanno intenzione, di
sostenere in prima persona la crescita e non sono percorribili le altre forme di
finanziamento.
Una società quotata può inoltre avere accesso al capitale esterno a costi più contenuti e
con maggior facilità rispetto a una società non quotata (Rajan (1992)), magari sfruttando
momenti particolarmente favorevoli nel ciclo del mercato finanziario, per beneficiare di
un pricing più elevato e raccogliere maggiori risorse (teoria della “window of
opportunity” di Ritter (1991));
- benefici di natura organizzativa: un’impresa quotata è obbligata a rispettare un insieme di
regole volte a garantire trasparenza informativa nei confronti del mercato e degli
investitori e a fornire periodicamente agli organi di vigilanza (Borsa Italiana e CONSOB,
nel caso italiano) notizie sul suo operato e sulla sua attuale situazione. L’obbligo di dover
produrre questi flussi informativi verso l’esterno comporta spesso anche positive
ripercussioni su quelli interni, con miglioramento delle comunicazioni e conseguenti
benefici su tutto il sistema di controllo di gestione.
Dal punto di vista della gestione delle risorse umane, una società quotata può inoltre
disporre di più efficaci piani di incentivazione con assegnazione di titoli azionari a favore
di managers e dipendenti, con l’obiettivo di aumentarne la produttività (Holstrom e Tirole
(1993)).
In modo particolare, i dirigenti possono essere più concretamente incentivati mediante
piani di stock options, mentre è sempre più diffusa la pratica di riservare una parte delle
azioni in collocamento ai dipendenti dell’impresa (si parla in questo caso di ESOPs,
Employee Stock Ownership Plans) a condizioni privilegiate rispetto a quelle di mercato,
6
offrendo cioè tali azioni a un prezzo più basso rispetto a quello praticato agli altri
investitori (spesso lo scarto praticato si aggira intorno al 10% del prezzo di
collocamento). Questi meccanismi di incentivazione sarebbero meno efficaci se effettuati
mediante semplice collocamento privato, perché i dipendenti troverebbero maggiori
difficoltà future nel liquidare i propri titoli; in questo senso la presenza della società su un
mercato regolamentato costituisce per loro la garanzia di poter vendere le azioni in
qualunque momento e a un prezzo giusto, mentre, il beneficio per la società consiste nel
poter selezionare personale qualificato che viene attratto dalla possibilità di ottenere
elevate soddisfazioni personali. Non si deve inoltre trascurare il fatto che la quotazione
può aumentare la probabilità che si verifichi un takeover ostile dall’esterno, spingendo il
management dell’impresa ad aumentare i propri sforzi per massimizzare l’efficacia
dell’impresa, aumentando il valore dei titoli;
- benefici fiscali: da uno studio della CONSOB (1997) condotto su un campione di 19
società, emerge come le agevolazioni fiscali rappresentino, per importanza, la terza spinta
al collocamento, preceduta solo dall’esigenza di finanziare la crescita e di ridurre il
debito. Questo fattore, che varia fortemente da nazione a nazione, è ritenuto da Roell
(1996) un elemento in grado di indurre una società a quotarsi e ciò è tanto più vero
quanto più è elevata la pressione fiscale nel Paese di appartenenza dell’impresa. In questo
senso Giudici e Paleari (2000a) hanno studiato l’effetto delle agevolazioni fiscali (il D.L.
n° 357, convertito nella Legge n° 489 del 1994, nota come “Legge Tremonti” e il
successivo D.L. 466 del 1997) per le imprese italiane di nuova quotazione. I risultati
hanno evidenziato come le imprese abbiano beneficiato di queste agevolazioni e come, al
tempo stesso, non si sia verificata per l’Erario, a livello aggregato, una perdita di gettito
rispetto ai livelli pre-quotazione. Alla riduzione dell’aliquota ha infatti risposto più che
sufficientemente l’aumento dell’imponibile fiscale e questo grazie al miglioramento della
gestione operativa, a una riduzione dei livelli di indebitamento e all’aumentata
trasparenza informativa di queste società, sottolineata anche dalla relazione ministeriale
di accompagnamento alla Legge Tremonti, la quale riportava che “nei mercati azionari
sviluppati, a parità di dimensioni, le società quotate producono e soprattutto dichiarano
redditi maggiori, perché sono più trasparenti e controllate e perché hanno una minor
propensione all’occultamento degli utili, dovendo all’opposto attrarre gli investimenti
con dividendi su utili adeguati”.
7
Più in generale Hand e Skantz (1999) sostengono che la scelta della quotazione e
soprattutto della metodologia di emissione scelta possono essere influenzate da
considerazioni di natura fiscale in capo agli azionisti controllanti, per esempio, quando
questi devono decidere se vendere titoli al mercato o emettere titoli in sottoscrizione.
Dal punto di vista degli azionisti, come riportato sul sito della Borsa Italiana, i principali
vantaggi offerti dalla quotazione sono:
- il fornire liquidità alle azioni: una delle funzioni che competono ai mercati finanziari è
quella di far venire in contatto, grazie all’utilizzo di strumenti standardizzati e regole ben
definite, una moltitudine di investitori con esigenze diverse, le quali vengono riflesse
nella formazione di prezzi corretti per gli strumenti scambiati. La presenza di una tale
quantità di operatori si traduce anche nella possibilità di trovare agevolmente una
controparte ai propri ordini e quindi in un vantaggio per gli attuali azionisti della società
quotata, i quali sanno di poter vendere le proprie azioni in qualunque momento e a un
prezzo “oggettivo”, univocamente riconosciuto e accettato. La letteratura finanziaria
dimostra che queste considerazioni sono ancora più rilevanti se tra gli azionisti
dell’impresa figurano investitori istituzionali, in particolare venture capitalists, per i quali
la quotazione si configura spesso come la principale tecnica utilizzata per capitalizzare il
rischioso investimento iniziale effettuato, mediante la cessione delle azioni in proprio
possesso sul mercato.
Jensen e Meckling (1976) dimostrano, inoltre, che se la società non fosse quotata, i
potenziali acquirenti di pacchetti azionari di minoranza pretenderebbero un certo potere
di monitoring sull’impresa e sul comportamento dei vecchi azionisti e ciò porterebbe a
uno sconto sul prezzo di vendita. In proposito uno studio di Pagano e Roell (1995) mostra
che per livelli di espansione troppo elevati, tale costo di monitoring diviene non
sostenibile per l’imprenditore, che quindi troverà conveniente quotarsi;
- diversificare il portafoglio: tale esigenza può sorgere quando l’impresa fa affidamento
solo ed esclusivamente sulla propria capacità di autofinanziamento, poiché al crescere
dell’impresa, il livello di ricchezza personale investito nella società diverrebbe
considerevole rispetto anche ai rischi assunti. In questa circostanza, la possibilità che il
proprietario ha di vendere parte delle proprie azioni e diversificare il suo portafoglio in
altre attività è decisamente importante, anche se la notizia della vendita di titoli da parte
del gruppo di controllo è spesso interpretata dal mercato come un segnale negativo sulle
prospettive della società, con conseguente riduzione del valore dei titoli sul mercato;
8
- agevolare il passaggio generazionale e la cessione della proprietà: questo vantaggio può
presentarsi nelle aziende a carattere familiare nel momento in cui uno o più componenti
della famiglia non siano interessati a mantenere in portafoglio i titoli della società.
Ancora una volta, la presenza dell’impresa su un listino regolamentato agevola la
liquidazione della quota, con effetti positivi anche sull’impresa che non rimane senza
guida e può passare da un capitalismo di tipo familiare a uno imprenditoriale. A sostegno
di questa tesi vi è un filone della letteratura che sostiene che la quotazione possa essere il
primo passo verso la cessione dell’impresa da parte degli azionisti fondatori; in
particolare uno studio di Zingales (1995) sul mercato svedese segnala che, nel 93% delle
nuove quotazioni, questo evento viene seguito da una OPV nei cinque anni successivi.
Numerosi altri studi (condotti soprattutto nell’Europa Continentale) non trovano però
conferma della volontà dei vecchi azionisti di cedere il controllo e riscontrano solo una
separazione tra proprietà e controllo all’atto della quotazione, con quest’ultimo che resta
nelle mani dei precedenti proprietari.
1.3.2 I COSTI DELLA QUOTAZIONE
L’impresa deve confrontare i benefici potenziali ottenibili dalla quotazione con i costi diretti e
indiretti che tale processo viene a generare, non solo nel momento dell’accesso al listino, ma
anche in via continuativa negli anni successivi e che possono essere così riassunti (Giorgino,
Giudici e Paleari (2001)):
- costi diretti: l’iter di ammissione alle negoziazioni comporta ingenti costi, in parte fissi, in
parte variabili. Si tratta, per esempio, di spese per le consulenze legali e strategiche
fornite dagli advisors, per le pratiche amministrative (quali eventuali modifiche
statutarie), per la certificazione dei bilanci e la redazione della documentazione richiesta
dalle autorità di vigilanza. Numerosi studi hanno evidenziato che il mercato delle IPOs è
contraddistinto da evidenti economie di scala, tanto che l’esistenza di elevati costi fissi
impedisce spesso alle piccole imprese di quotarsi (Ritter (1987)); se inoltre la quotazione
comporta un collocamento di titoli sul mercato, alle voci già viste vanno aggiunti il
compenso per l’intermediario che garantisce l’offerta, quantificabile in una percentuale
9
che varia dal 3% al 7% del capitale offerto e le spese di marketing relative alla
pubblicizzazione dell’offerta, ai road show
1
e alla redazione del prospetto informativo.
Nel caso di una IPO, inoltre, la società che gestisce il mercato richiede una fee sia al
momento dell’ingresso nel listino che negli anni successivi.
- costi indiretti: all’interno di questa categoria rientrano, tra gli altri, i costi generati dal
dover ridurre l’adverse selection e alla necessità di trasparenza; per quanto concerne i
primi, l’esistenza all’atto della quotazione di asimmetrie informative e di incertezza sul
valore delle azioni offerte, può tradursi nel cosiddetto “underpricing
2
”, ossia in una
valutazione del valore dei titoli della società nel primo giorno di contrattazione superiore
a quella insita nel prezzo di collocamento, con conseguente costo opportunità per
l’impresa, che ha collocato le azioni a un prezzo inferiore a quello attribuito dal mercato.
Naturalmente, l’underpricing non è sempre positivo, anche se mediamente lo è, e genera
dei costi per l’impresa dovuti alla vendita dei titoli a un prezzo minore di quello percepito
dal mercato, costi noti in letteratura con il termine di “money left on the table
3
”. Per fare
un esempio, si può considerare il caso di Finmatica che nel 1999 offrì attraverso una IPO
13.500.000 azioni a un prezzo di 5 euro. Alla fine della prima giornata di contrattazione,
questi titoli registrarono una quotazione di 31,63 euro generando un underpricing del
532,6% e un money left on the table per la società di 359.505.000 euro.
La seconda voce include, invece, i costi che sono indotti dal nuovo status di impresa
quotata e che comporta, tra l’altro, l’esistenza all’interno della società di un servizio di
“investor relation” prima spesso inesistente, deputato a produrre informativa minuziosa e
costante a favore del mercato e della comunità finanziaria, a gestire il flusso informativo
aziendale (Perrini (1998)), e a potenziare il sistema di controllo di gestione aziendale.
Peraltro, il regime di trasparenza e di disclosure cui l’azienda si sottopone dopo la
quotazione può indurre a rinunciare a operazioni di pianificazione fiscale volte a ridurre il
pagamento delle imposte (Giudici e Paleari (2000c)); allo stesso modo, però, questo
1
I road show sono gli incontri che l’emittente e l’underwriter organizzano per presentare e far conoscere la
società alla comunità finanziaria.
2
L’underpricing di un titolo neo-quotato è il rendimento che il titolo sperimenta il primo giorno di
negoziazione, calcolato come differenza tra il prezzo ufficiale del primo giorno di quotazione rispetto al prezzo di
collocamento, in percentuale rispetto al prezzo di collocamento stesso; in alternativa al termine underpricing si fa
riferimento all’allocuzione rendimento iniziale o rendimento del primo giorno.
3
Il money left on the table è definito da Ritter (1984) come il prodotto tra underpricing e il numero di
azioni oggetto di IPO.
10
flusso informativo esterno potrebbe arrecare danni all’impresa che, come sostengono
Maksimovic e Pichler (2001), rende pubbliche anche ai suoi concorrenti informazioni
altrimenti riservate, rinunciando a un vantaggio competitivo.
1.3.3 QUOTAZIONE E STRUTTURA PROPRIETARIA
Sebbene il confronto tra costi e benefici rivesta sicuramente un ruolo importante nel processo
decisionale che porta alla quotazione di un’impresa, limitarsi a questo aspetto appare riduttivo,
considerando che lo status di public ha come diretta conseguenza l’ingresso di nuovi investitori
nell’azionariato dell’impresa e la riduzione del peso di quelli vecchi; da ciò si evince la necessità
di andare a valutare gli effetti della quotazione sulla struttura proprietaria.
Questa tematica è stata oggetto di numerosi studi in letteratura; tra questi, Jensen e Meckling
(1976) affermano che quando i soggetti controllanti di un’impresa cedono al pubblico una
frazione del capitale sociale, si generano costi di agenzia derivanti da un maggior incentivo degli
stessi a estrarre benefici privati che riducono il valore dell’impresa. Il maggior incentivo è
dovuto al fatto che i costi generati da tale estrazione possono ora essere ripartiti anche sui nuovi
azionisti; tali costi, allora possono essere interpretati proprio come la differenza tra il valore
“ideale” che l’impresa avrebbe se tutti agissero nell’interesse della società e il valore reale della
stessa, frutto delle divergenze di interessi tra nuovi e vecchi azionisti.
Numerosi studi ritengono che i vecchi azionisti non vedono positivamente l’entrata di nuovi
proprietari che possono monitorare il proprio comportamento e interferire nelle decisioni
rilevanti per l’impresa; in particolare Grossman e Hart (1988), Brennan e Franks (1997), e Harris
e Raviv (1988a e 1988b) sottolineano che le considerazioni legate al controllo sono fondamentali
nella scelta di quotarsi e che gli azionisti controllanti si cautelino dall’indebolire la loro influenza
sull’impresa dopo l’ingresso in Borsa, per esempio con l’emissione di azioni con diritto di voto
limitato (dual class shares) o introducendo norme e vincoli contrattuali volti a scoraggiare
scalate ostili. Per Harris e Raviv (1989), inoltre, la separazione tra proprietà e controllo serve
anche a segnalare al mercato la propria volontà di non estrarre benefici privati dall’impresa,
inviando quindi un segnale positivo al mercato.
Un altro filone, al quale si è accennato nel paragrafo 1.3.1, sostiene invece che la quotazione
rappresenti la prima tappa verso la cessione dell’attività da parte degli azionisti controllanti che
possono così diversificare il proprio portafoglio, finanziando nuovi investimenti in altre
iniziative imprenditoriali. Così come Zingales (1995), anche Mello e Parsons (1996) interpretano
11
la quotazione come una fase del processo che porta alla vendita dell’impresa, ma a causa
dell’esistenza di asimmetrie informative, essi escludono che attraverso una IPO sia efficiente
cedere immediatamente il controllo, e come sia invece più diffusa la strategia della “cessione
graduale”, che prevede la vendita dilazionata delle azioni in più riprese a partire dalla
quotazione.
Queste considerazioni trovano maggiori riscontri nei mercati anglosassoni, mentre sono assai
difficilmente estendibili ai mercati dell’Europa Continentale: Fischer (2000) nota che sul
mercato tedesco, dopo la quotazione, gli azionisti di riferimento tendono a consolidare il loro
controllo, al contrario di quanto avviene sul mercato britannico, dove, dopo sette anni
dall’ingresso nel listino, in media due terzi delle società neo-quotate hanno cambiato azionista di
riferimento.
Analoghi risultati sono stati ottenuti da Giorgino, Giudici e Paleari (2001), i quali, analizzando
un campione di 169 IPOs avvenute sul mercato italiano tra il 1985 e il 2000, evidenziano come
in soli 25 casi il soggetto controllante abbia mantenuto, dopo la quotazione, una quota minore del
50% del capitale votante. Anche in queste situazioni l’azionista di controllo mantiene una forte
influenza nell’azionariato dopo la quotazione, mentre sono rari i casi nei quali l’impresa cambia
azionista di riferimento in seguito all’ingresso nel listino: è il caso di Zucchini, che è stata
oggetto di un’offerta ostile dopo la quotazione e di Finarte, Costa Crociere, Finanza e Futuro,
Castelgarden e Stayer, oggetto di acquisizioni avvenute però con l’accordo del soggetto
controllante. In altri casi, le società più debolmente controllate dopo l’IPO, hanno cambiato
soggetto controllante perché vicine al fallimento (come Dataconsyst, cancellata dal listino dopo
l’acquisizione e la successiva OPA obbligatoria nel 1994) o perché effettivamente fallite, come
Raggio di Sole.
Questo lavoro ha quindi confermato che il mercato italiano, così come i principali listini
dell’Europa Continentale, è popolato da imprese scarsamente contendibili, il passaggio del
controllo avviene molto raramente attraverso il mercato ed è più spesso concordato fra le parti e
dove quindi la quotazione non è considerata come un primo passo verso la dismissione
dell’impresa, ma anzi un’opportunità per separare ulteriormente la proprietà dal controllo.