9
Fino a poco tempo fa le situazioni summenzionate non erano perseguibili (ad eccezione
della pubblicità ingannevole). Solo recentemente, infatti, esse sono state oggetto di una
revisione normativa che ha condotto ad una consistente riforma del Codice del
Consumo ad opera del d. lgs. 146/2007, il quale accoglie ora la disciplina delle pratiche
commerciali scorrette. Così facendo, il legislatore ha voluto tutelare il consumatore in
ogni momento del rapporto con il professionista, dalla fase precontrattuale fino a quella
post-vendita, contro qualsiasi atteggiamento scorretto posto in essere dal professionista,
nell’intento di manipolare le decisioni del consumatore in merito all’acquisto del bene o
del servizio.
Ciò premesso, il presente lavoro intende proporre un’analisi generale della disciplina
delle pratiche commerciali scorrette, a distanza di poco più di due anni dalla sua entrata
in vigore. Lo sforzo, in particolare, è quello di mettere in evidenza gli aspetti
riconducibili al profilo del diritto dell’informazione e della comunicazione,
sottolineando al contempo l’evoluzione normativa rispetto alla previgente disciplina
della pubblicità ingannevole e comparativa che ha contribuito ad un significativo
innalzamento del grado di tutela conferito ai consumatori.
Nel Capitolo 1 si è voluto brevemente accennare ai profili costituzionali a cui è
possibile ricondurre la disciplina delle pratiche commerciali scorrette.
Indubbiamente, la nozione di pratica commerciale rientra nell’alveo dell’art. 41 Cost.
(il quale garantisce la libertà di iniziativa economica privata), in quanto espressione
dell’iniziativa privata e forma di attività economica derivante dall’impresa. Tuttavia,
qualora una pratica venga dichiarata scorretta, essa viola quanto disposto dall’art. 21
Cost. (nel suo profilo passivo), dal momento che disattende il diritto ad essere
informato riconosciuto in capo al consumatore. Tale diritto garantisce l’esigenza di
pervenire ad una informazione corretta e completa, che costituisce il presupposto
indefettibile perché il soggetto possa porre in essere una ponderata decisione
economica.
Nel Capitolo 2 viene descritto il percorso legislativo che ha portato all’introduzione
della disciplina in commento nell’ordinamento italiano.
L’origine deve rinvenirsi nelle disposizioni della direttiva comunitaria 2005/29/CE,
“relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori”
nel mercato
10
interno, entrata in vigore il 12 giugno 2005. Tale direttiva è stata recepita dal legislatore
italiano attraverso il d. lgs. 2 agosto 2007, n. 146, il quale è intervenuto a sostituire
integralmente gli artt. 18 – 27 del Codice del consumo, riportanti le norme relative alla
pubblicità ingannevole e comparativa (oggi contenute nel d. lgs. 2 agosto 2007, n. 145,
il quale si rivolge ai soli professionisti).
Per effetto di tali modifiche il Codice perde ogni riferimento specifico alla normativa
della pubblicità ingannevole e comparativa, per arricchirsi della più ampia disciplina
relativa alle pratiche commerciali scorrette.
Gli strumenti di tutela a disposizione del consumatore che si trovi ad essere inciso dalle
pratiche in commento vengono delineati nel Capitolo 3.
In sede di recepimento, il legislatore italiano ha adottato – tra le alternative possibili
offerte dalla direttiva 2005/29/CE – la via amministrativa come strada privilegiata per la
repressione delle pratiche commerciali scorrette, affidando i relativi poteri all’Autorità
Garante della Concorrenza e del Mercato.
Tuttavia, la tutela innanzi all’AGCM non costituisce l’unico strumento di difesa a
disposizione dei consumatori, dal momento che – parallelamente – viene riconosciuto
un ruolo anche al procedimento innanzi l’autorità giudiziaria ordinaria. Nello
specifico, si parlerà di tutela giudiziaria collettiva e di tutela giudiziaria individuale.
Per quanto attiene il primo ambito, due sono gli strumenti di tutela collettiva indicati
esplicitamente dal Codice del Consumo: le azioni inibitorie collettive e le azioni di
classe (cd. class action). Sul versante della tutela individuale, invece, gran parte della
dottrina ha invocato lo strumento dell’invalidità ai fini dello scioglimento del vincolo
contrattuale, nella forma della nullità di protezione e della annullabilità derivante da
vizi del consenso.
In chiusura di capitolo viene, infine, dedicato ampio spazio all’autoregolamentazione
privata, a cui la direttiva 2005/29/CE ha inteso attribuire un ruolo rilevante.
Nel Capitolo 4 l’attenzione viene posta sui risultati concreti ottenuti a seguito
dell’entrata in vigore della nuova normativa in commento, attraverso l’analisi
dell’attività, dei provvedimenti e delle valutazioni dell’AGCM, Autorità preposta
all’applicazione della disciplina de qua.
11
Tale analisi è affrontata attraverso un’indagine statistica e grafica dei dati di sintesi
dell’attività di AGCM nel periodo 2005 – 2008, dando evidenza alle differenze tra il
periodo ante e post d. lgs. 146/2007. Si sono poi voluti approfondire i primi interventi di
merito dell’AGCM avverso pratiche commerciali scorrette, sia attraverso l’esposizione
delle norme generali, sia attraverso le tipizzazioni che i provvedimenti dell’Autorità
hanno assunto nei diversi settori merceologici.
Il capitolo si conclude, infine, con la disamina, più dettagliata, della fattispecie delle
pratiche commerciali aggressive, vero e proprio quid novi rispetto alla già esistente
nozione di pubblicità ingannevole. Nello specifico, saranno esaminate le pronunce nelle
quali l’Autorità ha riscontrato in capo al professionista una condotta scorretta di tipo
aggressivo, riconducibili al periodo 2008 – 2009 (I° semestre).
12
1. LE PRATICHE COMMERCIALI, PROFILI
COSTITUZIONALI
1.1 INTRODUZIONE
Il tema della comunicazione commerciale nel corso degli anni ha offerto spunti assai
interessanti alla dottrina, dal momento che qui si intersecano i piani di due libertà
fondamentali garantite dalla Costituzione. Nel dibattito dottrinale più recente – di cui si
farà breve cenno nei paragrafi successivi – prevale l’idea che la protezione
costituzionale della pubblicità commerciale derivi dall’art. 41 Cost.
2
, il quale costituisce
il fondamento della libertà di iniziativa economica privata. In parallelo e parziale
antitesi, il giudizio secondo cui tale protezione sia da ricondursi nell’alveo dell’art. 21
Cost.
3
, norma posta a tutela della libertà di manifestazione del pensiero e valorizzata al
punto tale da essere indicata come “pietra angolare dell’ordinamento democratico”
4
Al diritto di comunicare informazioni ed idee di contenuto economico in capo al
professionista, corrisponde quello di riceverle del soggetto destinatario, ovvero il
consumatore. Quest’ultimo diritto è disciplinato da una vasta serie di normative inerenti
.
2
Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 41:
“L'iniziativa economica privata è libera (§ 1).
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà,
alla dignità umana (§ 2).
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata
possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali (§ 3).
3
Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 21:
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro
mezzo di diffusione (§ 1).
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure (§ 2).
Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i
quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge
stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili (§ 3).
In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell'autorità
giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che
devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all'autorità giudiziaria. Se
questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s'intende revocato e privo di ogni
effetto (§ 4).
La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della
stampa periodica (§ 5).
Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon
costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni (§ 6).”
4
Corte Cost., sentenza n. 84/1969.
13
le modalità di comunicazione e di informazione del consumatore, finalizzate a
contrastare la rilevante asimmetria informativa di cui egli è spesso vittima e sulla quale
il professionista fa leva per estorcergli un consenso che non avrebbe altrimenti prestato,
limitandone di fatto la libertà di scelta.
Con la novella
5
del 2007 che ha interessato il Codice del Consumo (d. lgs. 206/2005, di
seguito cod. cons.) – fondamentale testo di riferimento in materia di tutela dei diritti dei
consumatori, di cui si disquisirà diffusamente in questo elaborato – ad opera del d. lgs.
146/2007, si assiste ad una considerevole estensione della tutela del consumatore,
soggetto ora destinatario di una “pratica commerciale”
6
Di più, il novellato Codice del Consumo, con l’introduzione nella definizione di pratica
commerciale della previsione che essa debba essere posta in essere da un professionista
, nozione di cui la pubblicità
rappresenta un aspetto importante ma non totalitario.
L’entrata in vigore della nuova normativa ha, infatti, permesso all’Autorità Garante
della Concorrenza e del Mercato – in quanto Autorità preposta alla disciplina delle
pratiche commerciali scorrette – di ampliare notevolmente il proprio ambito di
intervento, confinato in precedenza alla sola contestazione dell’ingannevolezza o
illiceità comparativa dei messaggi pubblicitari, consentendo ora all’AGCM di operare
una valutazione complessiva degli stili comunicativi dei professionisti, in qualsiasi fase
del rapporto commerciale che essi instaurano con i consumatori.
L’art. 41, enunciando la libertà di iniziativa economica, ne definisce i limiti
fondamentali affermando che essa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale
o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (cfr. §§ 1 e
2). Non vi è dubbio che la nozione di pratica commerciale possa rientrare nella tutela
definita dai parametri costituzionali dell’articolo in commento, proprio in quanto
espressione della iniziativa privata e forma di attività economica derivante
dall’impresa.
5
Secondo Dona si può parlare di una vera e propria novella del Codice del Consumo, “sia per dimensioni
(gli articoli del Codice passano dagli originari 146 agli attuali 171) che per contenuti.” (Dona M.,
Pubblicità, pratiche commerciali e contratti nel Codice del Consumo, Utet, Torino, 2008, p. 1 – 2). In
merito alle modifiche apportate nel corso del 2007 al d. lgs. 206/2005 si veda il paragrafo 2.2.
6
Con tale dovendosi intendere “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione
commerciale ivi compresi la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un
professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori” (art. 18,
lett. d), cod. cons.). Per un maggiore approfondimento v. paragrafo 2.3.4.
14
“in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto” (art. 18, lett. d), cod.
cons.), “prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa ad un prodotto (art.
19, cod. cons.), ne rafforza il fine economico, idealmente ricongiungendosi all’art. 41
Cost.
Con la nuova nozione di pratiche commerciali scorrette ci si trova ora di fronte a
situazioni in grado di ledere i diritti del soggetto destinatario – il consumatore –, sotto
una molteplicità di aspetti: sia a livello di idee (lealtà, verità, completezza delle
informazioni), sia a livello di azioni (ingannevoli, omesse, aggressive), sia a livello di
tempi (prima, durante e dopo l’operazione commerciale).
Se l’attore dell’iniziativa economica nella vecchia edizione del Codice si trovava a
confrontarsi unicamente con la liceità della propria comunicazione commerciale
(pubblicità ingannevole o comparativa), nella edizione novellata è l’intera azione
economica rivolta verso il consumatore ad essere soggetta ad un esplicito giudizio, ed i
termini di illecito arrivano a coinvolgere anche la sfera della libertà della persona, che
può essere minacciata da pratiche commerciali aggressive qualora le informazioni che
gli vengono fornite siano indirizzate a ledere fortemente la sua capacità di
autodeterminazione.
Essendo assai recente l’introduzione della fattispecie della pratica commerciale
scorretta nell’ordinamento italiano, esiste al momento poca dottrina in merito al suo
inquadramento nei profili costituzionali, mentre copiosi sono i riferimenti alla
pubblicità commerciale. Di quest’ultima si parlerà brevemente nei prossimi paragrafi,
dal momento che essa – viste le recenti evoluzioni normative – viene ora a configurarsi
come una species del più ampio genus delle pratiche commerciali.
1.2 INQUADRAMENTO DEL CODICE DEL CONSUMO
NELL’ART. 41 DELLA COSTITUZIONE
L’interesse dei consumatori, come anche quello della concorrenza corretta, si fanno
rientrare agevolmente nei limiti dell’utilità sociale prevista dal § 2 dell’art. 41 Cost.
Proprio in tale comma trovano giustificazione le limitazioni all’attività imprenditoriale
privata introdotte attraverso il Codice del Consumo.
15
L’art. 41 Cost. costituisce una delle norme fondamentali della cd. Costituzione
economica, ovvero di quell’insieme di norme dedicate alla disciplina dei rapporti
economici, comprese nel Titolo III della Parte II della carta costituzionale (v. artt. 35 –
44 Cost.).
Il § 1 dell’articolo in commento afferma, anzitutto, la piena validità del principio della
libera iniziativa economica (“L'iniziativa economica privata è libera”)
7
, per poi
introdurre “una serie di limiti, ai quali spetta più propriamente definire i contenuti del
diritto stesso”
8
Quelli summenzionati possono essere definiti limiti cd. “esterni” al diritto di libertà
economica, finalizzati ad impedire che “l’attività stessa, pur di per sé lecita, si svolga
con modalità che pregiudichino gli interessi di terzi soggetti o dell’intera collettività, o,
infine, di settori di essa”
. Il § 2 statuisce, infatti, che la libertà economica non può svolgersi in
contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e
alla dignità umana.
9
È necessario, quindi, che si tenga conto non soltanto degli interessi dell’imprenditore
che pone in essere un’attività diretta alla produzione e allo scambio di beni e servizi
.
10
,
ma che questa non danneggi gli interessi dei consumatori, destinatari della
corrispondente attività economica. Si può pertanto asserire che l’autonomia
dell’imprenditore è un attributo della sua libertà personale, la quale però recede se
agisce in contrasto con l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la dignità umana
11
Quanto statuito nel § 2 dell’art. 41, Cost., deve essere completato con la normativa
definita dal successivo § 3. Tale comma prevede l’imposizione del limite cd. “interno”
dei “fini sociali” all’attività economica – sia pubblica che privata, entrambe “in
.
7
Da tale affermazione “si trae la garanzia in base alla quale neppure la legge può obbligare il privato ad
intraprendere una qualsiasi attività di natura economica”. (Barbera A., Fusaro C., Corso di diritto
pubblico, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 159)
8
Catelani A., “Articolo 1. Finalità ed oggetto”, in AA. VV., Codice del consumo. Commento al d. lgs. 6
settembre 2005, n. 206, Milano, Giuffrè, 2006, p. 14.
9
Catelani A., cit., p. 14.
10
Si noti che fondamentale rimane, comunque, la libertà dell’attività imprenditoriale al fine di garantire
produttività e redditività. Essa è da considerarsi come attività privata, non diviene oggetto di pubblico
interesse e non viene indirizzata e coordinata a fini sociali. Semplicemente, si provvede ad adottare le
misure necessarie per evitare che il profitto imprenditoriale si traduca in un danno ai consumatori, pur
cercando di pregiudicare il meno possibile la libertà del professionista medesimo.
11
Così Chiappetta G., Le pratiche commerciali sleali nei rapporti fra imprese e consumatori, in AA. VV.,
Il diritto dei consumi, a cura di Perlingeri P, Caterini E., Edizioni scientifiche calabresi, Rende, 2004, p.
94.
16
posizione di pari subordinazione all’attività regolativa pubblica”
12
Quanto affermato dall’art. 1, cod. cons. – in cui vengono definite le finalità del Codice
del consumo, il quale racchiude in sé le norme disposte secondo un ordine logico e
temporale lineare, ripercorrendo le diverse fasi del rapporto di consumo –, pare sposarsi
perfettamente con la tesi
– attraverso
“programmi e controlli opportuni”, determinati dalla legge.
Merita sottolineare che, mentre la fattispecie disciplinata dal § 2 consente di tutelare i
consumatori in via diretta ed immediata, il § 3 dell’art. 41 Cost. consente una
programmazione dell’economia che è estranea alle finalità del Codice del Consumo
(trattasi, infatti, di una disciplina di settore che – ai sensi dell’art. 1, cod. cons., –
“armonizza e riordina le normative concernenti i processi di acquisto e di consumo, al
fine di assicurare un elevato livello di tutela dei consumatori e degli utenti”).
13
secondo la quale i parametri costituzionali fissati dall’art. 41
non sarebbero dettati per operare una distinzione tra atti d’impulso
14
Secondo tale orientamento, l’unitaria e complessa disciplina costituzionale di cui all’art.
41 è finalizzata, perciò, alla “determinazione dell’autonomia privata e alla sua
ampiezza in ragione di una serie di variabili quali il prodotto o la prestazione del
servizio da commercializzare, il mercato di destinazione del bene prodotto con le
particolari cautele per il mercato finale, la correttezza dell’impresa nel mercato
concorrenziale, la tutela del destinatario finale del messaggio e, quindi, del bene o
servizio commercializzato”
e atti di
svolgimento dell’attività economica. Essi, infatti, permettono di indagare tanto sulla
singola azione relativa all’iniziativa commerciale (si pensi, ad esempio, alla decisione di
porre in essere una pratica commerciale o, ancor più nello specifico, una comunicazione
pubblicitaria), quanto sulla complessiva operazione economica, da intendersi quale
concatenazione di atti e attività finalizzati all’iniziativa economica.
15
In ragione di questa interpretazione ben si spiegano, dunque, gli interventi normativi – e
tra questi si veda, nello specifico, il Codice in commento – volti a vietare pratiche
. Da qui la considerazione dell’attività nel suo complesso e
non più del singolo atto “libero” di iniziativa economica.
12
Barbera A., Fusaro C., cit., p. 159.
13
Chiappetta G, cit., p. 94 e ss.
14
Si noti che in giurisprudenza si definisce generalmente “atto d’impulso” l’azione che dà avvio ad un
successivo processo.
15
Chiappetta G., cit., p. 95.
17
commerciali scorrette commesse nell’interesse o a vantaggio dell’impresa, e legittimi
sono da ritenersi gli interventi sulle modalità di svolgimento della pratica commerciale,
sino all’estremo della proibizione della medesima, se giustificati dai §§ 2 e 3 dell’art. 41
Cost.
In conclusione, nel regolamentare l’attività economica la normativa contenuta nel
Codice del consumo tiene conto della posizione di particolare debolezza e di
subordinazione di fatto del consumatore rispetto a colui che pone in essere la
corrispondente funzione produttiva. Si tratta di una normativa specifica, che ha una sua
motivazione ben precisa e caratteri particolari, e natura per di più composita, in quanto
concerne sia il diritto civile, che quello processuale e amministrativo, e che pare
giustificabile sulla base del dettato costituzionale di cui all’art. 41 Cost.
1.3 PROFILI COSTITUZIONALI DELLA PUBBLICITÀ
COMMERCIALE
Se, dunque, la struttura delle norme definite nel Codice del Consumo sembra trovare
ben salde fondamenta nel costrutto costituzionale dell’art. 41, dibattito ben più
complesso è stato dedicato dalla dottrina alla comunicazione pubblicitaria.
Come già anticipato nel paragrafo 1.1, l’individuazione delle forme di tutela
costituzionale da apprestarsi alla pubblicità commerciale ha dato luogo ad un ampio ed
annoso dibattito dottrinale, articolato secondo due direttrici interpretative: se, cioè,
l’attività pubblicitaria possa essere ricondotta nell’ambito di protezione di cui all’art. 21
Cost., in considerazione della sua natura di manifestazione del pensiero, o se, piuttosto,
tale attività rimanga al di fuori di un simile ambito, dovendo, al contrario, invocarsi
quale fondamento costituzionale della pubblicità il dettato dell’art. 41 Cost., attesa la
sua natura di attività di impresa
16
La scelta di qualificare la fattispecie in commento in termini di libertà di espressione o
quale forma di iniziativa economica privata è tutt’altro che irrilevante, andando essa ad
.
16
Italia afferma che “la pubblicità è un’attività collegata con l’iniziativa economica privata, come
un’ancella dell’economia.” (Italia V., Pubblicità e libertà di iniziativa economica, in Codice del
consumo. Commento al d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206, Giuffrè, Milano, 2006, p. 225)
18
incidere sul tipo di tutela fornito dalle predette norme costituzionali. Infatti, mentre la
protezione apprestata alla libertà di manifestazione del pensiero è tale da escludere la
sottoposizione della stessa ad “autorizzazioni o censure” (§ 2, art. 21 Cost.), ben
maggiori risulterebbero i limiti cui assoggettare la pubblicità commerciale ove
ricondotta nell’ambito di tutela di cui all’art. 41 Cost.
17
Ciò può desumersi dallo stesso tenore delle norme costituzionali, laddove viene
previsto, in merito alla libertà di espressione, quale unico limite esplicito quello del
buon costume
18
Tra le due posizioni summenzionate, giurisprudenza e dottrina concordano
prevalentemente nel ricondurre la comunicazione pubblicitaria alla sfera di operatività
dell’art. 41 più che dell’art. 21 Cost., essendo giudicato preminente lo scopo di
commercializzare i prodotti rispetto a quello di informare il pubblico
(§ 6, art. 21 Cost.), essendo invece stabilito, con riferimento
all’iniziativa economica privata, che essa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità
sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (§ 2,
art. 41 Cost.). Tale ultima norma limita l’esercizio dell’attività economica al paradigma
della utilità sociale, ovvero un indice che tenga conto degli interessi dei consumatori,
oltre che dei medesimi imprenditori, con la conseguenza che l’attività economica e,
nella specie, la pubblicità, non potrà prescindere da un simile limite e dal rispetto dei
predetti interessi.
19
17
Secondo Rigano “l’iniziativa economica privata è stretta da limiti espressi quali nessun’altra libertà,
quasi a svelare l’ideologica diffidenza dei costituenti verso il mercato”(Rigano F., Prefazione in Bonini
M., Controllare le idee. Profili costituzionali della pubblicità commerciale, Giuffrè, Milano, 2007, p.
XII).
18
Oltre al limite esplicito del buon costume (concetto soggetto ad una interpretazione restrittiva, riferita
alla sfera del pudore sessuale ed alla tutela dello sviluppo della personalità dei minori), la libertà di
manifestazione del pensiero incontra una serie di limiti impliciti, desumibili dalla lettura dell’intero testo
costituzionale e derivanti dall’esigenza di tutelare altre libertà costituzionali o altri beni di rilevanza
costituzionale. Secondo Caretti tali limiti impliciti sarebbero: limite dell’onore e della reputazione, limite
del regolare funzionamento della giustizia, limite della sicurezza dello stato, limite del diritto alla
riservatezza (cfr. Caretti P., Diritto dell’informazione e della comunicazione, Il Mulino, Bologna, 2005,
p. 25 – 29).
19
Si vedano per questa prospettiva: Ghidini G., Introduzione allo studio della pubblicità commerciale,
Milano, Giuffrè, 1968, p. 288 e ss.; Gatti S., Pubblicità commerciale, in Enc. Dir., XXXVII, Milano,
1988, p. 1058 e ss.; Chiola C., Manifestazione del pensiero (libertà di), in Enc. Giur. Treccani, XIX,
Roma, 1990, p. 6 e ss.; Cafaggi F., Pubblicità commerciale, in Dig. comm., vol. XI, Torino, 1995, p. 433
e ss.; Ruffolo U., “'Pubblicità redazionale, manifestazione del pensiero e limiti (anche costituzionali) al
rimedio inibitorio / censorio”, in Resp. comun. imp., 1996, p. 167 e ss.; Italia V., Pubblicità e libertà di
iniziativa economica, in Codice del consumo. Commento al d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206, Giuffrè,
Milano, 2006, p. 225 e ss
. A sostegno di
Sul versante opposto, gli Autori che hanno affrontato la questione riconducendola all’art. 21 Cost. sono:
Fois S., “Censura e pubblicità economica, nota a Corte cost., sent. 12 luglio 1965, n. 68”, in Giur. cost.,
19
tale orientamento opera la recente novella che ha interessato il Codice del Consumo, la
quale, facendo rientrare la pubblicità nel novero delle pratiche commerciali,
sembrerebbe avere indicato in modo certo la direzione di questa verso la sua natura
commerciale, e quindi economica.
Di seguito si procederà ad un breve esame delle differenti posizioni della dottrina in
merito, sebbene esse siano antecedenti al nuovo inquadramento giuridico della
pubblicità commerciale.
L’analisi del fenomeno pubblicitario presuppone la definizione di una simile fattispecie,
ovvero che cosa debba intendersi per pubblicità. In particolare, volendo fare riferimento
alla disciplina statuale, è considerata tale “qualsiasi forma di messaggio che è diffuso, in
qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o
professionale allo scopo di promuovere il trasferimento di beni mobili o immobili, la
prestazione di opere o di servizi oppure la costituzione o il trasferimento di diritti ed
obblighi su di essi”
20
La dottrina che ha messo in luce “l’aspetto informativo e la natura ontologicamente
espressiva del pensiero del messaggio”
.
Da una simile definizione emerge la natura latu sensu informativa della pubblicità,
attesa la sua funzione di strumento che mette in relazione i soggetti che realizzano il
messaggio pubblicitario (o meglio, che ne affidano la realizzazione a terzi) ed i soggetti
destinatari dello stesso. Ciò ha spinto la dottrina ad interrogarsi sui rapporti tra libertà di
comunicazione pubblicitaria e libertà di espressione, e se la prima possa essere ritenuta
meritevole della tutela di cui gode la seconda in quanto forma di comunicazione.
21
1965, n. 2, p. 839 e ss.; Fusi M., La comunicazione pubblicitaria nei suoi aspetti giuridici, Giuffrè,
Milano, 1974, p. 9 e ss.; Vignudelli A., Aspetti giuspubblicistici della comunicazione pubblicitaria,
Maggioli, Rimini, 1983, p. 100 e ss.; Corasaniti G., Vassalli L., Diritto della comunicazione
pubblicitaria, Giappichelli, Torino, 1999, p. 1 e ss.; Barile P., Caretti P., La pubblicità e il sistema
dell’informazione, ERI, Torino, 1984, p. 22 e ss.; Pace A., “La ridotta tutela della propaganda in materia
economica. La pubblicità commerciale radiotelevisiva”, in Pace A., Manetti M., Art. 21 – Rapporti civili
– La libertà di manifestazione del proprio pensiero, in Branca G., Pizzorusso A., a cura di, Commentario
della Costituzione, Zanichelli ed.-Soc. ed. del Foro italiano, Bologna – Roma, 2006, p. 57 e ss.; Zaccaria
R., Diritto dell’informazione e della comunicazione, Cedam, Padova, 2007, p. 8.
20
Art. 2, § 1, lett. a), d. lgs. 145/2007 (attuativo dell’art. 14 della direttiva 2005/29/CE, a sua volta
intervenuta a modificare la direttiva 84/450/CEE sulla pubblicità ingannevole), nel quale è confluita la
disciplina statuale in materia di pubblicità (cfr. 2.2.1)
21
Vigevani G. E., “Tutela costituzionale della pubblicità commerciale”, in AA. VV., Percorsi di diritto
all’informazione, Torino, Giappichelli, 2003, p. 339.
ritiene che la pubblicità commerciale possa
essere ricondotta nell’ambito della tutela costituzionale prevista dall’art. 21. Siffatto
20
orientamento trova il proprio fondamento, da un lato nella amplissima accezione in cui
si è soliti intendere la libertà di espressione, la quale ricomprende qualsiasi forma di
manifestazione del pensiero, dall’altro, nella duplice natura di tale libertà, ovvero quale
libertà tanto di tipo individuale, quanto, al contempo, esercitabile anche in forma di
impresa.
L’osservazione di cui sopra muove dalla considerazione che talvolta il pensiero
pubblicitario ha molti punti di contatto con l’espressione artistica propriamente detta
(tutelata dall’art. 33 Cost.
22
), e, ancora, che la comunicazione pubblicitaria si pone sul
piano della manifestazione del “pensiero proprio” qualora esso contenga informazioni
idonee a far sorgere una conoscenza ed offrire una più cosciente “autodeterminazione”
all’acquisto del potenziale acquirente
23
Sul versante opposto, autorevole dottrina
, sebbene dette informazioni sulle qualità e
caratteristiche del prodotto siano finalizzate a scopi economici. Ciò permetterebbe
l’inserimento di tali forme espressive nell’art. 21 della Costituzione e, in tal modo, i
messaggi implicanti la manifestazione di un pensiero “proprio” o esternati in forma
artistica non potrebbero essere sottoposti ai limiti contenutistici definiti dall’art. 41.
24
È, pertanto, evidente come, in una simile prospettiva, la pubblicità commerciale altro
non sarebbe se non una forma di espressione della più generale libertà di iniziativa
economica tutelata dall’art. 41 Cost., intesa sotto il doppio profilo da un lato della
libertà individuale del singolo imprenditore, dall’altro della tutela dell’intero sistema
economico
ha sottolineato l’evoluzione del ruolo della
pubblicità commerciale, la quale “da strumento di informazione del pubblico” si è
trasformata oggi in “strumento di persuasione”. La funzione attuale della pubblicità non
sarebbe più quella di “informare il pubblico, bensì quella di orientare i consumi,
stimolare i bisogni, promuovere l’assorbimento della domanda” verso uno specifico
comportamento d’acquisto. In altri termini, uno strumento cui è connaturato un fine
strettamente promozionale, prevalente rispetto a quello informativo.
25
Questo orientamento nega la configurabilità della pubblicità commerciale quale
“pensiero proprio” dell’autore del messaggio. L’attività svolta sarebbe, infatti, da
.
22
Art. 33, § 1, Cost.: “L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento”.
23
Così Vignudelli A., cit., p. 82.
24
Alpa G., Il diritto dei consumatori, Bari, Laterza, 2002, p. 114
25
In questi termini, Cafaggi F., Pubblicità commerciale, in Dig. comm., vol. XI, Torino, 1995, p. 439.
21
qualificarsi “economica” e – come tale – sottoposta ai limiti dell’art. 41 della
Costituzione in quanto, sebbene l’ideatore possa adottare i più recenti ritrovati
tecnologici e costruire un prodotto in forma artistica, il messaggio rimane arte applicata
e finalizzata alla realizzazione dell’interesse del committente, escludendo pertanto la
configurabilità della pubblicità quale “pensiero proprio”.
Alla querelle ha posto fine la Corte Costituzionale, la quale in due (seppur risalenti)
pronunce è intervenuta a superare i dubbi emersi sul punto, stabilendo in maniera
perentoria la linea di discrimine tra libertà di manifestazione del pensiero e
comunicazione pubblicitaria. Di seguito alcuni stralci delle sentenze interessate:
Corte Cost. n. 68/1965. La Corte Cost. così si è espressa: “La pubblicità
commerciale non rientra tra le manifestazioni del pensiero protette dall’art. 21
Cost., ma è una componente dell’attività delle imprese, come tale assistita dalle
garanzie di cui all’art. 41 Cost. e assoggettabile alle limitazioni ivi previste al §
2 e 3”.
Nel caso in oggetto il giudizio verte sulla costituzionalità dell’art. 15 del D.P.R.
n. 630/1955, il quale prevedeva che le pubblicazioni contenenti i prezzi degli
alberghi non potessero aver luogo senza la preventiva approvazione dell’ente
provinciale per il turismo. In tale sentenza la Corte ha sostenuto che l’ambito di
applicazione dell’art. 21 Cost. è da circoscriversi alla stampa di cultura,
d’opinione e di informazione politica, con esclusione, ancorché esercitata a
mezzo stampa, della pubblicità commerciale, la quale è rivolta al perseguimento
dell’interesse d’impresa, e quindi disciplinata nell’ambito dell’attività
economica, nonché assoggettabile ai limiti per legge stabiliti a tutela dell’utilità
sociale.
Corte Cost. n. 231/1985. Secondo la Corte “deve anzitutto escludersi che la
pubblicità commerciale costituisca manifestazione del pensiero tutelata dall’art.
21 Cost. […]. Al contrario, la netta distinzione tra le manifestazioni del pensiero
delle quali, nei limiti ivi previsti, viene affermata la libertà da un lato, e la
pubblicità commerciale della quale viene sottolineata la natura di ‘fonte di
finanziamento’ degli organi di informazione, dall’altro, sta ad indicare in modo
in equivoco che quest’ultima è considerata una componente dell’attività delle
22
imprese, e come tale assistita dalle garanzie di cui all’art. 41 Cost., e
assoggettabile, in ipotesi, alle limitazioni ivi previste al secondo e terzo
comma.”
26
Alla luce di quanto riferito dalla Corte, a prescindere dalla collocazione che si
intende dare al fenomeno della pubblicità, non si può non constatare la sua
“funzione insopprimibile” quale fonte di finanziamento dei mezzi di
comunicazione di massa, ai quali viene attribuito un significativo ruolo nella
diffusione del pensiero
27
. Pertanto, disciplinare la pubblicità commerciale – nei
suoi contenuti, nei mezzi che può utilizzare, nella sua quantità – “implica
disciplinare, di riflesso, le fonti di finanziamento delle imprese che diffondono
pensieri altrui”, osservazione questa che evidenzia “il contesto economico in cui
la libertà di espressione deve operare”
28
In entrambe le pronunce la Corte Costituzionale ha avuto modo di ribadire come la
libertà di espressione ex art. 21 Cost. debba intendersi riferita esclusivamente alle forme
di comunicazione che siano riconducibili all’ambito dell’informazione, dell’opinione e
della cultura (c.d. “materie privilegiate”)
.
29
L’orientamento della Corte Costituzionale è stato condiviso anche dalla Corte di
Cassazione, la quale in una recente sentenza è intervenuta nel dibattito affermando che
“il divieto di pubblicità non può porsi in contrasto con l’art. 21 della Costituzione, che
tutela la manifestazione del pensiero, in cui, secondo l’Orientamento della Corte
costituzionale, non è compresa la comunicazione pubblicitaria di attività economiche.
, non già anche alle forme di comunicazione
che abbiano un fine economico, come, appunto, la pubblicità, in quanto proprio quel
fine altro non sarebbe se non espressione di un interesse di parte.
26
Alla sentenza n. 231/1985 fa riferimento la sentenza n. 1/1995, la quale ribadisce che la giurisprudenza
della Corte costituzionale ha riconnesso la pubblicità commerciale all’'iniziativa economica privata ex art.
41 Cost.
27
Lo stesso non si può dire delle pratiche commerciali scorrette riconducibili a condotte illecite poste in
essere dal professionista senza l’ausilio dei tradizionali mezzi di comunicazione di massa, i cui proventi
non sono assolutamente finalizzati al finanziamento dell’informazione.
28
Zeno – Zencovich V., La libertà di espressione. Media, mercato, potere nella società
dell’informazione, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 90 – 91.
29
In tal modo la Corte ha ritenuto opportuno distinguere contenuti pienamente tutelati (c.d. materie
privilegiate) da altri, potenzialmente soggetti a limiti fissati dal legislatore ordinario a sua discrezione,
sulla base di un giudizio concreto in relazione a ogni singola fattispecie. Per un approfondimento relativo
alla distinzione fra materie privilegiate e non, si veda Bonini M., Controllare le idee. Profili
costituzionali della pubblicità commerciale, Giuffrè, Milano, 2007, p. 39 – 51.