configura come una difficoltà sempre attuale. Purtroppo però, nel nostro
ordinamento la dottrina in materia non si è molto sviluppata né ampliata,
perlomeno non fino ai livelli di quella statunitense, che rappresenta invece un
valido parametro di confronto nell’ambito in questione. A causa di questa scarsa
trattazione dottrinale, quindi, manca una fonte che analizzi in maniera esaustiva
il tema in questione.
Ho voluto pertanto approfondire l’argomento, e lo farò rivolgendo la mia
attenzione sia alla dottrina italiana che a quella statunitense, alle relative
tematiche ancora aperte, e ai rispettivi punti critici.
Oltre a delineare la natura e le modalità di individuazione di una corporate
opportunity, nel mio studio esaminerò brevemente la condotta imposta
all’amministratore nei confronti della società, dopo aver apprese determinate
informazioni, e l’atteggiamento societario nei confronti delle stesse.
Mi soffermerò poi sulla responsabilità dell’amministratore e sulle relative
conseguenze sul piano sanzionatorio.
Inotre, proporrò un confronto della disciplina in esame con altre discipline
ad essa, per certi versi, affini: tratterò infatti il reato di insider trading, ed altre
due discipline inerenti al diritto del lavoro, ovvero quelle relative a invenzioni dei
dipendenti, e ai cosiddetti trade secrets, cui correlerò una breve esposizione
sulla disciplina della concorrenza sleale.
7
Capitolo 1
Dottrina Italiana
1.1. Modifiche apportate dalla riforma societaria del 2003 all’art.
2391 c.c.
La riforma del 2003 ha modificato l’art. 2391 del nostro codice civile.,
introducendo alcune novità nella disciplina relativa agli amministratori di una
società. L’intervento legislativo in questione, trasformando la rubrica
dell’articolo, ha dato rilievo, da quel momento in poi, a qualsiasi interesse che
un amministratore abbia in un’operazione societaria, senza soffermarsi più
sull’interesse in conflitto, che la giurisprudenza intendeva come interesse
incompatibile con quello sociale, riferendosi ai casi in cui l’amministratore,
perseguendo interessi personali, danneggiava la società.
4
Inoltre, la riforma ha introdotto un’ulteriore novità, consistente in precisi
obblighi di informazione a carico dell’amministratore portatore di un qualsiasi
interesse.
A seguito dell’ampliamento dell’ambito di applicazione dell’articolo in
esame e dei nuovi obblighi di informazione, il codice civile non prevede più un
obbligo di astensione dal voto dell’amministratore interessato, come invece era
previsto prima della riforma qualora l’amministratore avesse, in una determinata
operazione, un interesse in conflitto con quello della società. Oggi,
l’amministratore interessato non è soggetto ad un divieto assoluto di voto, bensì
4
Cfr. Loredana NAZZICONE e Salvatore PROVVIDENTI, Società per azioni – Amministrazione e controlli, in La
riforma del diritto societario a cura di Giovanni LO CASCIO (147), 2003, p. 153.
8
è legittimato a votare, con il rischio però che la delibera possa essere
impugnata.
5
Per una corretta interpretazione della norma del codice, bisogna capire cosa
intende il legislatore per “interesse” e analizzare gli obblighi di informazione a
carico dell’amministratore.
1.1.1. Nozione di interesse
L’interesse dell’amministratore che rileva per l’applicazione della disciplina
in esame non è solo quello in conflitto con l’interesse della società, ma anche
quello neutro o addirittura conforme all’interesse societario. “Interesse si ha
quando vi sia ragionevole motivo di ritenere che l’amministratore, nelle concrete
circostanze del caso, si rappresenti di ricavare dal compimento o dall’omissione
dell’operazione un’utilità quantitativamente e qualitativamente rilevante. In altri
termini deve trattarsi di un interesse material: se l’interesse è del tutto
marginale, remoto, insignificante, non vi è, evidentemente, alcun conflitto di
interessi da prevenire e dunque non vi è ragione di applicare la disposizione di
cui si tratta”.
6
La disposizione comprende interessi sia di natura patrimoniale,
sia di natura non patrimoniale.
7
L’art. 2391 nella sua vecchia formulazione, essendo circoscritto solo ai
casi di conflitto d’interessi dell’amministratore, permetteva di limitare la portata
dell’articolo stesso alle sole ipotesi in cui ad un vantaggio dell’amministratore
corrispondesse uno svantaggio per la società. In questo modo, oltre a sorgere
qualche dubbio interpretativo, non era nemmeno facile individuare i casi a cui
applicare questo articolo. Oggi, invece, il riferimento a qualsiasi interesse
5
Cfr. Marco VENTORUZZO, Commento all’art. 2391 c.c., in Commentario alla riforma del diritto delle società,
a cura di Pier Gaetano MARCHETTI (423), 2005, pp. 424 ss., il quale specifica: sono impugnabili le
deliberazioni del consiglio di amministrazione adottate con il voto determinante dell’amministratore
interessato, e le deliberazioni assunte senza che ci sia stato il rispetto degli obblighi di comunicazione da
parte dell’amministratore. In entrambi i casi è condizione dell’impugnazione della delibera che quest’ultima
possa arrecare danno alla società.
6
Cfr. Luca ENRIQUES e Alessandro POMELLI, Commento all’art. 2391 c.c., in Il nuovo diritto delle società a
cura di Alberto MAFFEI ALBERTI, Volume I, 2005, pp.759 ss.
7
È l’esempio dell’amministratore che preme per attribuire un ruolo dirigenziale a un proprio famigliare.
9
dell’amministratore in un’operazione societaria permette un’applicazione
estensiva delle disposizioni dell’art. 2391. Ne consegue che un’operazione
vantaggiosa sia per l’amministratore che per la società, prima della riforma non
era soggetta a nessun obbligo di comunicazione e astensione, mentre oggi
deve essere resa nota agli altri amministratori e al collegio sindacale.
In teoria, si potrebbe essere tentati di sostenere che l’amministratore,
proprio per il ruolo che riveste, potrebbe avere un costante interesse nelle
operazioni della società, visto che da queste dipendono il funzionamento
dell’impresa e quindi le sorti dello stesso amministratore. Prevedere degli
obblighi di informazione anche per questo tipo di interessi significherebbe
tuttavia ostacolare il lavoro del consiglio e dunque l’attività della società. Di
conseguenza, è necessario distinguere, ed escludere dalla disciplina dell’art.
2391 gli interessi dell’amministratore in quanto tale, cioè quelli che derivano
dall’incarico ricoperto.
Un caso analogo è quello in cui l’amministratore sia anche azionista della
società. Il valore delle azioni dipende anche dalle decisioni prese dal consiglio
di amministrazione, quindi è naturale che l’amministratore-socio abbia un
interesse nelle operazioni della società. Anche in questo caso, tuttavia, è
dubbio che tale interesse determini l’obbligo di comunicazione, ai sensi dell’art.
2391. A ben vedere, però, è preferibile ritenere che l’ipotesi rientri nell’art. 2391
e sia quindi soggetta ad obblighi di comunicazione. Può infatti succedere che gli
interessi dell’amministratore-azionista siano divergenti rispetto a quelli della
società, come nel caso in cui l’amministratore voglia liquidare in breve tempo la
propria partecipazione azionaria. In tale ipotesi, egli potrebbe essere tentato di
elaborare strategie indirizzate alla massimizzazione del prezzo di mercato nel
breve periodo, rischiando di mettere in secondo piano e quindi compromettere
l’obiettivo di crescita di medio - lungo periodo della società.
8
8
Cfr. Marco VENTORUZZO, Commento all’art. 2391 c.c., in Commentario alla riforma del diritto delle società
a cura di Pier Gaetano MARCHETTI (423), 2005, pp. 440 ss.
10
1.1.2. Obblighi di informazione
Analizzando nel dettaglio gli obblighi di informazione, è il testo dello stesso
art. 2391 a precisare che è necessario specificare “la natura, i termini, l’origine
e la portata” dell’interesse che l’amministratore ha in una determinata
operazione societaria. Il legislatore richiede dunque l’illustrazione di quattro
aspetti dell’interesse, che costituiscono il contenuto ideale che dovrebbe avere
l’informazione data alla società, per semplificare il lavoro del consiglio che
dovrà valutare la situazione dell’amministratore “interessato”.
Per “natura” dell’interesse si intende il fatto che esso potrebbe essere
patrimoniale o meno, oppure conflittuale o meno con quello della società,
oppure, ancora, potrebbe essere attuale o potenziale.
Indicare i “termini” dell’interesse significa che l’amministratore deve
precisare se ne è portatore per conto proprio o di terzi. In questo ultimo caso,
egli deve chiarire chi è il soggetto terzo “interessato” e specificare che tipo di
legame li unisca.
Per quanto riguarda l’“origine” dell’interesse, è necessario indicare, per
esempio, se l’interesse è nato da una situazione preesistente rispetto alla
nomina di amministratore o se è sorto dopo che tale soggetto ha ricevuto
l’incarico in questione.
Per “portata” dell’interesse si intendono i vantaggi e gli svantaggi che
possono derivare all’amministratore dalle decisioni della società, in modo da
fornire agli altri amministratori e al collegio sindacale gli elementi pro e contro
necessari per valutare la situazione.
9
Il legislatore ha previsto i contenuti minimi della comunicazione, ma non
ha provveduto a specificare se sono richiesti particolari requisiti di forma. Si può
quindi ritenere che la forma sia libera e che l’obbligo di comunicazione previsto
dall’art. 2391 sia adempiuto nel momento in cui le informazioni, in qualsiasi
forma, siano rivolte con lo stesso contenuto a tutto il consiglio di
amministrazione e al collegio sindacale. Da un punto di vista pratico, tuttavia,
9
Cfr. Natascia SGARAVATO, Corporate Opportunities, Invenzioni del Dipendente e Trade Secrets, Università
degli Studi di Padova, Tesi di Laurea in Scienze Politiche, 2005, pp. 17 ss.
11
per esigenze di prova, è da ritenersi pressoché obbligata la forma scritta, a
tutela innanzitutto dello stesso amministratore portatore di interessi. A tal fine,
sarebbe utile che lo statuto o il regolamento del consiglio indicassero con
esattezza la forma prevista dalla società per la comunicazione, eventualmente
elaborando anche un modello da mettere a disposizione degli amministratori, in
cui siano già indicati gli elementi richiesti dalla legge, per semplificare
notevolmente il compito dell’amministratore “interessato”.
Un ulteriore problema può sorgere in relazione al termine per la
presentazione della comunicazione. Il legislatore non ha fissato nessun termine
specifico, tanto da far ritenere che l’attività informativa in questione possa
essere effettuata nel corso della riunione del consiglio di amministrazione.
Tuttavia, in questo modo viene meno in parte la finalità della rivelazione
dell’interesse richiesta agli amministratori, che consiste proprio nel permettere
agli altri amministratori e ai sindaci di intervenire alla riunione già informati. Per
questo si potrebbe sostenere che la comunicazione deve arrivare prima della
riunione e in tempo utile per permettere ad amministratori e sindaci di
progettare eventuali iniziative a tutela della società e per decidere, ad esempio,
se presentarsi o meno alla riunione, sulla base della presenza di amministratori
portatori di interessi. Ma visto che il legislatore non ha fissato dei termini precisi,
anche l’idea di questo congruo preavviso rispetto alla riunione consiliare risulta
poco chiara e piuttosto incerta. Dunque, la soluzione meno complessa è quella
che accetta la comunicazione anche nel corso della riunione, purché sia inviata
anche al collegio sindacale e indichi tutti gli elementi contenutistici richiesti
dall’art. 2391. Questa soluzione potrebbe tuttavia causare un ulteriore
problema. Si pensi all’ipotesi dell’amministratore che, nel corso della riunione
consiliare, si accorge di un proprio interesse. La comunicazione può essere
data seduta stante ai sensi dell’art. 2391, ma egli potrebbe non disporre di tutte
le informazioni che il legislatore chiede di fornire (per esempio, riguardo
all’origine di un interesse di cui l’amministratore è portatore per conto di terzi,
che potrebbe richiedere la consultazione di documenti che non sono
nell’immediata disponibilità dell’amministratore stesso). In tal caso potrebbe
12
risultare necessario il rinvio della riunione consiliare, per permettere
l’adempimento degli obblighi informativi di cui all’art. 2391.
Infine, un’altra questione sorge in relazione all’ipotesi di derogabilità
10
statutaria dell’art. 2391, in particolare con riferimento all’ammissibilità di una
clausola statutaria che limiti gli obblighi di informazione previsti dal primo
comma alle sole ipotesi di interessi conflittuali con quello societario,
circoscrivendo l’ambito di applicazione della norma, o addirittura che elimini del
tutto tali doveri.
11
Nel primo caso, in particolare, si tratterebbe di derogare alla
disciplina codicistica applicando una regola statutaria che, per così dire,
riporterebbe l’ambito di applicazione della disposizione in commento a quanto
previsto dal sistema anteriore alla riforma del diritto societario. La questione non
è teorica quanto a prima vista si potrebbe essere indotti a ritenere: nel vigore
della precedente disciplina, alcuni autori hanno sostenuto, con fondati
argomenti, la derogabilità statutaria degli obblighi di disclosure del conflitto di
interessi dell’amministratore.
12
Il tema è, peraltro, di notevole rilevanza
10
Le norme di diritto privato si distinguono a secondo della loro derogabilità (norme dispositive) o
inderogabilità (norme cogenti). La norma dispositiva è una norma giuridica che trova applicazione solo
quando le parti di un rapporto giuridico non abbiano disposto diversamente (nel qual caso si dice che la
norma è stata derogata). La norma imperativa invece trova sempre applicazione e non può essere
derogata dalla diversa volontà della parti. In presenza di una norma dispositiva, le parti mantengono il
potere di disciplinare diversamente, con un atto giuridico, il loro rapporto, sicché non si ha una limitazione
dell'autonomia privata, cosa che invece avviene con la norma imperativa. Di conseguenza l'atto giuridico
difforme da una norma dispositiva è pienamente valido ed, anzi, sostituisce la propria disciplina a quella
della norma, derogandola, mentre l'atto difforme da una norma imperativa è sempre invalido. Dal punto di
vista della tecnica legislativa, le norme dispositive sono normalmente formulate utilizzando espressioni
quali "salvo patto contrario", "salvo che le parti abbiano disposto diversamente" e simili. Si ha una norma
imperativa, quando la legge stabilisce che le parti non possono derogare a quanto stabilito dalla legge. Le
definizioni sono tratte dall’enciclopedia on-line disponibile su www.wikipedia.it.
11
È chiaro che le soluzioni intermedie potrebbero essere molteplici e che la deroga potrebbe riguardare
solo specifici aspetti degli obblighi previsti dalla legge, o unicamente alcune particolari situazioni di fatto.
Non si prendono analiticamente in esame, tuttavia, tali “gradazioni” della deroga.
12
La questione della derogabilità degli obblighi di comunicazione sanciti dal previgente art. 2391 c.c. è
stata affrontata da L. ENRIQUES, Il conflitto di interessi degli amministratori di società per azioni, Giuffrè,
Milano, 2000, pp. 256 ss., che dedica diverse pagine a tale problema. L’autore citato si chiede, in
particolare, se il vecchio testo della disposizione in esame fosse derogabile nel senso di esonerare gli
amministratori dall’obbligo di informare il consiglio della sussistenza di un conflitto di interessi (ferma
restando l’impugnabilità della deliberazione potenzialmente dannosa assunta con il voto determinante di
tali amministratori e la loro responsabilità nei confronti della società), giungendo ad ammettere la
derogabilità statutaria dell’obbligo di informazione. Una fondamentale differenza, tuttavia, separa la
previgente formulazione della norma da quella attuale. Prima della riforma, infatti, la sanzione
dell’invalidità della deliberazione aveva come suo unico presupposto (ferma restando la potenziale
dannosità della delibera) l’assunzione con il voto determinante dell’amministratore in conflitto di interessi. Il
nuovo testo dell’art. 2391 c.c., al contrario, prevede esplicitamente anche il mancato rispetto degli obblighi
di informazione quale autonomo presupposto per l’impugnazione della delibera. Tale circostanza non
consente, quindi, di interrogarsi sulla derogabilità statutaria degli obblighi di disclosure senza tenere
13
applicativa in quanto, se si dovesse ritenere ammissibile che lo statuto limiti –
ad esempio – l’ambito di applicazione della disposizione ai soli casi di interesse
conflittuale, è verosimile attendersi che non poche società opterebbero per tale
soluzione, in grado di ridurre i costi ed i rischi (in particolare, per i membri
dell’organo di controllo) derivanti dalla necessità di adempiere i prescritti
obblighi di informazione in ogni caso di interesse in un’operazione sociale di un
membro del consiglio. La soluzione del problema non può che discendere da
una valutazione degli interessi protetti dalla disposizione: se si ritiene che si
tratti unicamente di interessi disponibili della società, allora la risposta più
“liberale” deve essere preferita, se invece si sostiene che la disposizione sia
diretta a tutelare anche i terzi, come ad esempio gli stakeholder
13
, si dovrebbe
probabilmente preferire l’interpretazione contraria alla derogabilità della
norma
14
.
A questo proposito, si potrebbe prendere spunto dalla considerazione che
la legittimazione ad impugnare la delibera in caso di violazione degli obblighi
informativi è attribuita unicamente ad amministratori e collegio sindacale, per
affermare che i terzi non sono protetti da tale disposizione. La circostanza che il
legislatore non abbia attribuito a soci o soggetti terzi il potere di “reagire”
all’assunzione di una delibera consiliare assunta in violazione delle regole di
disclosure, potrebbe cioè indurre a ritenere che la norma non sia dettata a
protezione di tali soggetti, bensì sia semplicemente una regola di corporate
governance derogabile in via statutaria. Conforterebbero tale lettura anche
argomenti di carattere sistematico basati sull’impostazione generale della
riforma che, come ben noto, persegue, per espressa opzione del legislatore
delegato, un significativo aumento degli spazi di autonomia statutaria e di
flessibilità normativa. Tali considerazioni potrebbero condurre a preferire, in
simultaneamente conto dell’effetto che una tale limitazione avrebbe sul regime della validità della delibera.
L’esplicita previsione di un autonomo diritto di impugnare le deliberazioni in caso di mancato rispetto degli
obblighi di informazione, peraltro, induce a ritenere che tali obblighi siano di per sé sanciti nell’interesse
del buon funzionamento della società, interesse che – come discusso nel testo – riguarda anche i terzi,
con l’ulteriore conseguenza che la norma non sarebbe derogabile.
13
Soggetti portatori di un qualsiasi interesse nei confronti della società e della sua sana e corretta
gestione; ad esempio banche, fornitori, clienti, etc.
14
Cfr. Marco VENTORUZZO, Commento all’art. 2391 c.c., in Commentario alla riforma del diritto delle società
a cura di Pier Gaetano MARCHETTI (423), 2005, pp. 447 ss.
14
sede interpretativa, soluzioni rispettose di tali principi, e quindi ad affermare la
derogabilità del primo comma dell’art. 2391 c.c.
In realtà, secondo altri autori
15
, le considerazioni richiamate non appaiono
pienamente convincenti e sembra preferibile risolvere la questione della
derogabilità dell’art. 2391 c.c. in senso negativo. Infatti, per quanto riguarda il
primo argomento favorevole a questa eventualità, ossia che il potere di
impugnare la delibera è attribuito solo ad alcuni componenti degli organi di
amministrazione e controllo della società, esso non appare sufficiente ad
escludere un più generale interesse di soggetti anche terzi al rispetto della
disposizione. Si può, infatti, sostenere che tanto i soci, quanto i creditori della
società, sono indirettamente protetti da una disposizione che consente
all’organo di gestione di procedere con maggiori informazioni nell’assunzione di
decisioni che, a causa della presenza di un interesse di uno o più
amministratori, potrebbero danneggiare la società e quindi le rispettive posizioni
di tali soggetti
16
. Inoltre, come si vedrà tra breve, se la delibera consiliare può
recare danno alla società, gli amministratori si potrebbero ritenere obbligati alla
sua impugnazione in forza del secondo comma dell’art. 2392 c.c., che
comprende tra i loro doveri quello di fare quanto possibile per impedire il
compimento, o attenuare le conseguenze, di fatti pregiudizievoli per la società
dei quali siano a conoscenza. Nemmeno gli argomenti di ordine sistematico,
basati sulla maggiore autonomia statutaria che caratterizza la riforma, appaiono
risolutivi. Infatti, sebbene l’accresciuta libertà contrattuale dei soci sia uno dei
15
Cfr. Marco VENTORUZZO, Commento all’art. 2391 c.c., in Commentario alla riforma del diritto delle società
a cura di Pier Gaetano MARCHETTI (423), 2005, pp. 447 ss.
16
Ci si potrebbe chiedere, a questo proposito, se l’amministratore che omette di effettuare la
comunicazione può essere ritenuto responsabile, oltre che nei confronti della società, anche nei confronti
dei creditori (art. 2394 e 2394-bis c.c.) e dei singoli soci o terzi (art. 2395 c.c.). La questione appare
rilevante sotto il profilo considerato nel testo, ovvero la derogabilità statutaria degli obblighi di
informazione, in quanto se si potesse sostenere che anche soggetti terzi, esterni alla società, possono
invocare la fattispecie di responsabilità prevista per l’omissione degli obblighi di disclosure previsti dal
primo comma della norma in commento, si disporrebbe di un ulteriore argomento per sostenere che la
disposizione, tutelando (indirettamente) anche interessi di non soci, non sia derogabile statutariamente. È
appena il caso, peraltro, di osservare che non è vero il contrario, ossia che anche concludendo che la
violazione dell’art. 2391 c.c. non possa essere posta alla base dell’azione di responsabilità di creditori,
singoli soci o terzi, da tale conclusione non discende la derogabilità della disciplina degli interessi degli
amministratori. Sulla questione, risolta negativamente in entrambi i casi nel vigore della previgente
disciplina del conflitto di interessi da L. ENRIQUES, Il conflitto di interessi degli amministratori di società per
azioni, Giuffrè, Milano, 2000, pp. 314 ss.
15
tratti distintivi del nuovo diritto societario, tale maggiore libertà si giustifica e si
inquadra all’interno di una cornice di principi, tra i quali è certamente presente
quello, esplicitamente sancito dalla legge delega
17
per la riforma del diritto
societario (art. 4, comma 8, lett. g)
18
, che il consiglio di amministrazione agisca
in modo informato evitando situazioni di conflitto di interesse. In questa
prospettiva il nuovo art. 2391 c.c., non facendo più esclusivo riferimento ai
conflitti di interesse, bensì a tutte le situazioni nelle quali un amministratore sia
portatore di un interesse in un’operazione sociale, assolve appunto alla
funzione di rafforzare la circolazione di informazioni all’interno dell’organo di
amministrazione. D’altronde, anche l’analisi economica del diritto insegna che
regole che impongono doveri di disclosure in relazione a specifici interessi,
sono volte ad eliminare (o, quantomeno, limitare) i “fallimenti del mercato” che
discenderebbero dalla presenza di asimmetrie informative circa l’estensione e
la rilevanza di tali interessi: regole, quindi, che non possono essere derogabili
19
.
Anche i più “strenui” assertori dell’opportunità di ridurre, se non abolire, numero
e rilevanza delle norme imperative nella disciplina delle società, si premurano
solitamente di escludere da tali proposte le disposizioni in materia di
informazione, ritenendo la trasparenza informativa una precondizione per lo
sviluppo di un efficiente mercato delle regole
20
.
17
L. 3 ottobre 2001, n.366, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 234 dell'8 ottobre 2001.
18
Estratto dal suddetto art.: “Riguardo alla disciplina dell’amministrazione e dei controlli
sull’amministrazione, la riforma è diretta disciplinare i doveri di fedeltà dei componenti dell’organo
amministrativo, in particolare con riferimento alle situazioni di conflitto di interesse e precisare che essi
sono tenuti ad agire in modo informato.”
19
Sia sufficiente rinviare ai lavori di M.B. Fox, Retaining Mandatory Securities Disclosure: Why Issuer
Choice is Not Investor Empowerment, in Virginia Law Rev., 1999, p. 1335 ss., in risposta alle tesi di R.
ROMANo, Empowering Investors: A Market Approach to Securities Regulation, in Yale Law J., 1998, pp.
2359 ss. e S.J. CHOI – A.T. GUZMAN, Portable Reciprocity: Rethinking the International Reach of Securities
Regulation, in S. Cal. Law Rev., 1998, pp. 903 ss.
20
Si v. O. HART, Recent Developments in Corporate Governance, dattiloscritto della relazione presentata
alle “Lezioni Raffaele Mattioli”, Milano, 18 novembre 2003. La nota 1 a p. 3, riferendosi all’affermazione
secondo la quale non sarebbe opportuno un intervento del legislatore (con norme imperative) nel caso di
società che decidono di farsi quotare in borsa, precisa che «There are some aspects of the corporate
charter that may not be chosen efficiently. For example, the founder may not have the socially correct
incentives to disclose information about the company. A mandatory disclosure law may help here. See S.
Grossman and O. Hart, “Disclosure Laws and Take-Over Bids”, Journal of Finance 35 (May 1980) 323-
334, and R. La Porta, F. Lopez-de-Silanes and A. Shleifer, “What Works in Securities Laws?”, NBER
Working Paper Series No. 9882 (July 2003)». Si sono recentemente discostati da questo approccio alcuni
autori, che hanno suggerito l’adozione di un regime non imperative anche in material di informazione
societaria, R. ROMANO, Empowering Investors: A Market Approach to Securities Regulation, in Yale L. J.,
1998, pp. 2359 ss.; S.J. CHOI – A.T. GUZMAN, Portable Reciprocity: Rethinking the International Reach of
16
Alla luce di quanto discusso appare quindi preferibile ritenere che gli
statuti non possano derogare agli obblighi informativi stabiliti dall’art. 2391 c.c.,
né limitandone l’applicazione ai soli casi in cui un amministratore sia in conflitto
di interessi con la società, né in altro modo; è pertanto sostenibile, a mio parere,
questa ipotesi, e quindi la conseguente “tutela paternalistica” societaria, ovvero
un atteggiamento di tutela forte sia nei confronti degli interessi societari sia
verso quelli di soggetti terzi.
1.2. La fattispecie dell’art. 2391, ultimo comma, del codice civile
L’ultimo comma dell’art. 2391 c.c. ha introdotto nell’ordinamento italiano,
una norma che espressamente disciplina la situazione in cui l’amministratore
sfrutta a proprio vantaggio dati, notizie o opportunità d’affari di cui la società
avrebbe potuto beneficiare. La norma prevede che se l’amministratore
commette questa violazione deve risarcire “i danni che siano derivati alla
società”, con ciò intendendo l’eventuale danno emergente (sempre riconosciuto
in maniera oggettiva) e il lucro cessante (riconosciuto dalla giurisprudenza
soltanto quando è dovuto).
21
L’amministratore quindi non solo dovrà rimborsare
la perdita effettivamente subita dalla società, ma dovrà anche provvedere a
coprire il mancato guadagno.
È bene delimitare fin d’ora le condotte rientranti nel divieto dell’art. 2391
ultimo comma c.c., dando una definizione di «opportunità» e stabilendo quali
sono i valori e/o le utilità che la norma considera rilevanti, in quanto potenziale
oggetto di appropriazione da parte della società. La norma fa riferimento
all’utilizzazione di «dati, notizie o opportunità d’affari». Una simile definizione
consente di attrarre nell’area del divieto tutte le occasioni e/o chance che siano
(astrattamente) suscettibili di incrementare il valore del patrimonio sociale, o
Securities Regulation, in S. Cal. L. Rev., 1998, pp. 903 ss.; per un esame – critico – di tali tesi sia
consentito rinviare a M. VENTORUZZO, La responsabilità da prospetto negli Stati Uniti d’America tra regole
del mercato e mercato delle regole, Egea, Milano, 2003, pp. 183 ss.
21
Questa interpretazione in dottrina è stata accettata, per esempio, da Marco VENTORUZZO, Commento
all’art. 2391 c.c., in Commentario alla riforma del diritto delle società a cura di Pier Gaetano MARCHETTI
(423), 2005, pp. 498 ss.
17
dalle quali la società possa ricavare un guadagno, come ad esempio la
conclusione di contratti e negozi in genere, ma anche opportunità di affari non
avente carattere negoziale che implichino lo sviluppo di nuove linee di business
(ingresso sul mercato o lancio di un prodotto), o che comportino l’avvio di
iniziative potenzialmente vantaggiose (partecipazione a ricerche o a gare
d’appalto). Deve invece escludersi che in questa definizione possano rientrare
le ipotesi in cui i «dati» o le «notizie» non riguardino la conclusione di un affare
o, comunque non si riferiscano ad un affare in senso stretto.
22
E’ necessario infine precisare che, ai sensi dell’art. 2396 c.c., i divieti ex
art. 2391 (e quindi anche la disciplina delle corporate opportunities) si
estendono anche ai direttori generali della società.
1.3. Individuazione del valore “sociale” dell’opportunità ed
orientamento della dottrina italiana al riguardo
La norma in questione sembra porre l’accento sulla fonte
dell’informazione appresa dall’amministratore nell’esercizio del suo incarico, nel
senso cioè che sembra considerare riservate alla società solo quelle
opportunità d’affari di cui l’amministratore abbia avuto conoscenza nel possesso
e/o in ragione della sua carica ricoperta. Si tratta di un criterio vago per
l’individuazione del valore “sociale” dell’opportunità, e di difficile applicazione
pratica; inoltre, esso si basa su un dato formale, la titolarità della qualifica di
amministratore al momento della conoscenza dell’opportunità.
23
L’adozione di
questo parametro, comunemente detto “criterio formale”, non solo riduce le
possibilità per la società di essere informata circa l’esistenza di occasioni
vantaggiose, ma, soprattutto, a causa di questo deficit informativo, non
consente che il conflitto sulla spettanza dell’opportunità venga risolto a favore
22
Cfr. Francesco BARACCHINI, L’appropriazione delle corporate opportunities come fattispecie di infedeltà
degli amministratori di s.p.a., in Il nuovo diritto delle società, Liber Amicorum G.F. CAMPOBASSO, diretto da
P. ABBADESSA e G.B. PORTALE, vol. 2, Torino, UTET, 2007, pp. 627 ss.
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Sul punto, v. CLARK (nota 5), p. 230, il quale cita l’esempio dell’amministratore venuto a conoscenza di
un’opportunità d’affari durante la partecipazione ad un ricevimento presso un’abitazione privata. In questo
caso risulta difficile stabilire se la notizia rappresenti o meno un’opportunità sociale.
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del soggetto (società, amministratore o terzo) che meglio possa sfruttare
l’opportunità ovvero non privilegia la soluzione che, nel caso concreto, si mostri
come la più efficiente.
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Il citato criterio generalmente viene respinto dalla
dottrina italiana, nonostante mantenga una limitata validità e si presti ad essere
utilizzato per risolvere eventuali situazioni di incertezza; ad esempio la
circostanza che l’opportunità sia stata resa nota all’amministratore
“nell’esercizio del suo incarico” può servire per attribuire alla stessa rilevanza
sociale, e lo stesso potrebbe dirsi per la situazione opposta, in cui cioè risulti
evidente che l’opportunità sia stata messa a disposizione dell’amministratore
indipendentemente dalla carica ricoperta. Ma il citato criterio può essere
utilizzato anche in altre ipotesi. Si pensi al caso dell’amministratore, il quale
ricopre tale carica in più società, tutte potenzialmente interessate
all’utilizzazione della medesima opportunità. Non c’è dubbio che, pure in questo
caso, il dato formale possa mostrarsi decisivo: e ciò segnatamente allorché
risulti sufficientemente chiaro che l’opportunità sia stata portata a conoscenza di
quel “determinato” amministratore proprio in quanto amministratore di quella
“determinata” società.
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E’ opportuno qui puntualizzare che la precisazione secondo cui
all’amministratore è fatto divieto di appropriarsi di “dati notizie o opportunità di
affari” appresi “nell’esercizio del suo incarico” permette di meglio individuare il
momento di decorrenza del divieto. La circostanza che la legge consideri
rilevante anche la semplice assunzione di “dati” o “notizie” induce a ritenere che
il predetto dovere di astensione sorga a carico dell’amministratore non appena
egli abbia ricevuto una prima e sommaria informazione dell’esistenza di
un’opportunità vantaggiosa; quindi ciò che rileva ai fini dell’applicazione del
divieto è la circostanza che l’amministratore sia consapevole della possibilità di
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Cfr. Francesco BARACCHINI, L’appropriazione delle corporate opportunities come fattispecie di infedeltà
degli amministratori di s.p.a., in Il nuovo diritto delle società, Liber Amicorum G.F. CAMPOBASSO, diretto da
P. ABBADESSA e G.B. PORTALE, vol. 2, Torino, UTET, 2007, pp. 629 ss.
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Cfr. Francesco BARACCHINI, L’appropriazione delle corporate opportunities come fattispecie di infedeltà
degli amministratori di s.p.a., in Il nuovo diritto delle società, Liber Amicorum G.F. CAMPOBASSO, diretto da
P. ABBADESSA e G.B. PORTALE, vol. 2, Torino, UTET, 2007, pp. 632 ss.
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realizzare un affare, e comunque, a prescindere dal fatto che l’affare possa o
meno considerarsi attuale.
Detto ciò, possiamo dire che la selezione delle opportunità cui deve
essere attribuito valore non sociale non può essere effettuata sulla base del
solo criterio formale, ed è allora necessario individuare altri parametri che
possano essere impiegati a tal fine.
Sia nei sistemi di common law
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, quanto nei paesi di civil law
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, la
discussione ruota attorno a tre impostazioni. Questi tre “test” traggano le
proprie origini nella dottrina americana, e per tale motivo saranno più
approfonditamente spiegati nel secondo capitolo di questo studio. Pertanto, ora
si vedrà solamente l’approccio della dottrina italiana a questi parametri, al fine
di ricavare una nozione di valore sociale dell’opportunità.
Il primo di essi (interest or expectancy test) circoscrive l’area precettiva del
divieto alle sole ipotesi in cui la società vanti un interesse giuridicamente
rilevante all’utilizzazione dell’opportunità: ovvero, ipotesi nelle quali sia possibile
ravvisare l’esistenza di un diritto o di un quasi diritto in capo alla medesima.
Utilizzando questo criterio, il divieto dovrebbe allora ritenersi senz’altro
applicabile nei casi in cui la società abbia concluso un contratto, anche se
preliminare o sottoposto a condizione, o comunque stia concludendo una
trattativa negoziale
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. Inoltre il divieto dovrebbe considerarsi operante anche
nelle ipotesi in cui la società mostri comunque un interesse concreto o
un’aspettativa rilevante alla realizzazione dell’affare.
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Diritto Comune: nasce come diritto giurisprudenziale e comune a tutta l’Inghilterra, in antitesi alle
consuetudini locali, a partire dal XII sec., e viene prodotto direttamente dai giudici; per estensione il
termine common law designa l’insieme del sistema giuridico inglese ed i sistemi che da esso derivano in
tutto il Mondo, come quello americano.
27
Diritto Scritto: i Paesi di civil law trovano una base culturale comune nel Diritto Romano che vanta i
caratteri di completezza e di origine consuetudinaria non imposto dal legislatore. I Paesi di civil law ( in
particolare nell’area europea, Francia, Austria, Germania, Italia, etc.) hanno inoltre un Diritto Codificato,
rappresentato da un Codice, il cui primo esempio moderno è stato il Code Napoleon del 1804.
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Cfr. Francesco BARACCHINI, L’appropriazione delle corporate opportunities come fattispecie di infedeltà
degli amministratori di s.p.a., in Il nuovo diritto delle società, Liber Amicorum G.F. CAMPOBASSO, diretto da
P. ABBADESSA e G.B. PORTALE, vol. 2, Torino, UTET, 2007, pp. 634 ss.
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Si pensi, ad esempio, al rinnovo di un contratto precedentemente sottoscritto, ovvero l’acquisizione di
beni e/o risorse indispensabili o quanto meno utili per lo svolgimento dell’attività d’impresa.
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