dottrina ottocentesca era ferma a concetti elaborati tre secoli prima da Claro e
Farinaccio
4
, anche se era mutata la lingua ed i metodi di esposizione.
Il diritto penale post-rivoluzionario ha un carattere fortemente antistorico, alla
cui ideologia si sposano in modo mirabile, gli orientamenti della legislazione
penale dell’800
5
. Sarebbe, del resto, impossibile non riconoscere come segno di
regresso il puntuale riapparire nei codici (all’indomani della Rivoluzione) del
delitto di lesa maestà, che resisterà a lungo nei codici europei
6
, in Italia, fino ad
oltre metà secolo.
Un segno così palese di regresso della legislazione penale venne accettato dalla
cultura “illuminata” dell’epoca, con la precisa ragione storica, la quale va
ricercata nella tacita intesa tra le vecchie classi egemoni e la borghesia, che si
era spogliata dai panni di classe rivoluzionaria per diventare
controrivoluzionaria
7
. Ciò, per il mantenimento dell’ordine sociale costituito.
L’opera svolta dai sovrani assoluti raccoglieva, da un lato, determinate istanze
illuministiche di maggior rispetto per la persona umana; e, dall’altro
provvedeva ad esigenza di razionalità e di ordine nelle legislazioni. Nel quadro
storico della provvisoria alleanza tra monarchia e terzo Stato non può destare
nessuna meraviglia il fatto che le riforme penali invocate nei Cahires degli Stati
Generali, fossero state largamente anticipate in un editto reale dell’8 maggio
1788, sia pure rimasto quasi interamente allo stato di progetto
8
.
4
I. Mereu, op. cit., cap I, pag.11 s.
5
Pellegrino Rossi coglie con grande acutezza, all’origine degli ostacoli per un effettivo progresso del
sistema penale il collegamento esistente tra il ristagno socio-culturale del suo tempo ed il perdurante
assetto autoritario e gerarchico dello Stato, in Traité de droit pénal, Bruxelles, 1835, pag. 54.
6
Limitatamente ai fatti diretti contro la persona dell’imperatore (l’ipotesi venne assimilata al
parricidio). Per le differenze dalla legislazione del 1791, Chauveau et Helie, Theorie du code pénal, I,
Bruxelles, 1845, pag. 300, 1073.
7
La mobilitazione antigiacobina dei governanti europei era riuscita rapidamente ad innervare l’azione
controrivoluzionaria e a diffonderne i motivi ideali tra le masse, , riassumendo in essa “i motivi di
classe, interessi di casta, paura indiscriminata del nuovo conformismo, fanatismo religioso,
tradizionalismo, insomma tutti quegli elementi che costituiscono la condizione socilogica della staticità
di un ambiente culturale”. (A. Negri, Alle origini del formalismo giuridico, Padova, Cedam, 1962, pag.
330).
8
Per la specificazione delle riforme penali reclamate dagli Stati Generali, A. Desjardin, Les chaiers des
États généraux en 1879 et la legislation criminelle, Paris, 1883.
La Rivoluzione, evolvendo le sue istituzioni verso assetti di democrazia
totalitari, stava per travolgere le stesse premesse della rivoluzione borghese
9
.
Passata attraverso la tempesta dell’ “improvvisazione giacobina”
10
e gli eccessi
irrazionali del Terrore
11
, la borghesia è di nuovo alla ricerca di un nuovo ordine
che gli garantisca dal temuto assalto alle classi inferiori e consolidi, i vantaggi
acquisiti.
La borghesia si avvicina così all’ancien régime e d’accordo con esso, si accosta
per edificare un nuovo stato, che sia soprattutto un apparato coattivo per la
difesa dell’ordine sociale esistente
12
.
Già nel codice napoleonico la materia dei delitti contro lo stato riceveva le
maggiori attenzioni dal legislatore; la restaurazione sociale, avviata fin dal
Termidoro, esigeva, infatti, la massima energia nella difesa di questo apparato
difensivo della “società dei proprietari”: ottenendola nel modo più completo del
legislatore francese del 1810, e dai codici liberali che ad esso si ispireranno.
La stabilità di questo sistema verrà dimostrata dopo l’ondata rivoluzionaria del
‘48, pur sospinta da rinascenti ideali giacobini e democratici
13
e fornirà un
ottima occasione ai governanti per ribadire i timori ed il lealismo delle classi
medie ed inasprire i meccanismi della repressione. Le istituzioni
rappresentative restano appannaggio di una minoranza di privilegiati, che tende
a costruire uno stato tagliato su misura per una società “destinata a rimanere
imbozzolata e rinchiusa sotto la guida di una ristretta élite illuminata”
14
.
9
S. Guerin, La lutte de classes sous la Premiere République, Paris, 1968, t. I, pag. 17.
10
L’espressione è di J. Talmon , in The origins of totalitarian democracy, London, 1952. Tr. in it. : Le
origini delle democrazie totalitarie, Bologna, Il Mulino 1967, p. II, pag. 97 ss.
11
Durante i quattordici mesi in cui i giacobini ebbero il controllo della Convenzione vi furono circa
17000 esecuzioni capitali ufficiali, e, soprattutto, nel periodo dall’aprile al giugno 1794, la strage
divenne socialmente e politicamente indiscriminata. D. Caute in The left in Europe since 1789; tr. in it.
Le sinistre in Europa dal 1789 ai giorni nostri, Milano, Giuffrè, 1966, pag. 165.
12
Il diritto penale dell’800 non può essere interpretato, se non attraverso la particolare ottica delle classi
agiate, la cui mentalità Pellegrino Rossi coglie molto lucidamente, laddove, osserva che nella giustizia
penale esse non vedano, essenzialmente, altro che uno strumento diretto “contre ce qu’elles appelant
volontiers la canaille” (Traité, cit., 49).
13
Ma la borghesia teme ormai le masse più del vecchio regime. La paura, scrive D. Caute, op. cit., pag.
160 – come il peccato vuole un precedente: “ i sanculotti in rivolta rappresentavano, come Adamo ed
Eva, per una generazione più antica, un peccato impossibile da dimenticare”.
14
L. Cerroni, La libertà dei moderni, Bari, Laterza, 1968, pag. 182.
La cultura liberale non si limiterà soltanto a rettificare talune “false idee” dal
punto di vista democratico sui rapporti tra governanti e governati, ma a
generare un nuovo autoritarismo statalista, comune tanto alla monarchia della
Restaurazione quanto allo stato costituzionale-parlamentare dell’ottocento.
L’ispirazione reazionaria degli ordinamenti penali foggiati dalla Restaurazione
si dimostrerà ben più durevole nelle istituzioni, di cui era originariamente il
prodotto e risultando e poi, particolarmente congeniale alle esigenze dei regimi
antiparlamentari, generati dalla involuzione autoritaria dello stato liberale
15
.
Lo stato dell’800 fu ben più uno stato di polizia che non il “Rechtsstaat”,
teorizzato dal liberalismo: esso non distrusse, ma legalizzò, l’asseto autoritario
e gerarchico del vecchio regime: raccogliendone il nucleo essenziale
rappresentato da un potere centralizzato, “ lo ha meglio organizzato, lo ha
strutturato in forma tecnicamente più moderna, così da renderlo più sensibile e
meglio rispondere alle esigenze di chi detiene il potere; e ciò ha fatto
servendosi degli stessi mezze, strumenti e pene”
16
. Perfino il progresso che
sembrava acquisito, in termini di certezza del diritto, si rivela in gran parte
illusoria, e non solo per effetto del frequente abuso dei governanti. Il governo
della legge si è, formalmente, sostituito all’arbitrio di chi comanda; ma resta il
fatto che “chi detiene il potere può far parlare la legge a suo piacere”
17
, come
viene attestato dall’ambiguità e rigore delle norme sui delitti dello Stato.
2) La nascita del diritto di manifestazione del pensiero in Italia.
Nella storia d’Italia, la prima cauta ammissione della sola libertà di stampa
risale all’art. 28 dello Statuto Albertino, il quale, se da un lato riconosceva che
“la stampa sarà libera”, dall’altro subordinava tale libertà ad una “legge che ne
reprimerà gli abusi”. Nessuna garanzia, nemmeno a livello di legislazione
15
La ultrattività del sistema penale sembra, dunque, quasi una costante storica; e non sorprende, allora,
che dopo più di sessant’anni dalla caduta del regime fascista, il codice penale vigente contenesse ancora
elementi così autoritari.
16
I. Mereu, op. cit., pag 112.
17
I. Mereu, op. cit., pag. 114.
ordinaria, copriva le altre modalità di espressione del pensiero; al contrario, le
attività di pubblico intrattenimento erano sottoposte a sistemi censori e
rigidamente basati su vaghi parametri di moralità e ordine pubblico; di rispetto
dell’ordinamento politico e della religione cattolica; dei principi della
famiglia
18
.
Su un terreno dove era così radicata la censura, al legislatore fascista risultò
agevole la costruzione di un sistema che consentisse a priori di garantire che
l’uso dei mezzi di divulgazione del pensiero avvenisse in modo omogeneo
all’indirizzo politico dominante
19
. Così, la tutela dell’ordine pubblico e del
buon costume, fu tradotta nella tutela all’offesa del Re, del Pontefice, del Capo
del Governo e delle istituzioni, del sentimento nazionale o dei principi
costitutivi della famiglia
20
. Il cambiamento e l’evoluzione verso un sistema
maggiormente garantista (promosso rigidamente nella Costituzione) concerneva
il valore della libertà di manifestazione del pensiero e, conseguentemente, i
limiti che lo Stato doveva rispettare nella regolamentazione in questione.
La “rivoluzione morale”, che la dottrina illuminata attendeva, non avvenne
all’interno di quegli ordinamenti penali risalenti all’inizio della seconda metà
dell’ottocento. Non per nulla Carrara lamenterà la sostanziale sopravvivenza ,
nelle materia dei delitti di stato, delle regole eccezionali e feroci del
crimenlesae. Mentre Pellegrino Rossi indicherà, come causa primaria del
carattere stazionario, se non addirittura regressivo del sistema penale del suo
tempo, “gli uomini di potere che amano i colori dell’integrità generale,
cercano nella cosa pubblica tutto quello che c’è di egoista”
21
.
Le intenzioni dei singoli legislatori non riusciranno a modificare gran che di
questo stato di cose; nessun codice dell’800, compreso il codice Zanardelli, per
18
Leggi di pubblica sicurezza n. 3720 del 1859 e n. 2248 del 1865.
19
Si veda sul punto F. Rimoli, La libertà nell’ordinamento italiano, Cedam, Padova, 1992, il quale
sostiene che “l’intervento è stato passaggio obbligato e tipico di ogni Stato totalitario, e che la cultura
ha sempre svolto un ruolo primario come instrumentum regni”.
20
Per un’analisi approfondita della legislazione fascista in materia di controllo delle attività
teatrali,cinematografiche e tipografiche si vedano i testi unici di pubblica sicurezza del 1926 e del 1931.
21
Rossi Pellegrino, Traité de droit pénal, Bruxelles, 1835, 49 ss.
quanto liberale nelle intenzioni, riuscì a far in modo che la giustizia penale non
fosse lo specchio fedele di una società autoritaria e repressiva.
3) I reati d’opinione nell’Editto Albertino sulla stampa e nel Codice
Zanardelli.
Nella nostra tradizione legislativa, la tendenza a difendere con lo strumento del
diritto penale l’attuale modo di essere della società e dello stato, prevalse
regolarmente sui postulati teorici del liberalismo, mostrandosi poco riguardosa
rispetto alle esigenze della libertà ideologica.
Alla radice delle disposizioni penali, che variamente incriminano la
manifestazione del pensiero, c’è il timore che uno spregiudicato esercizio della
libertà d’espressione, possa travolgere, con la vecchia cultura e le vecchie
istituzioni, anche le basi attuali del potere politico, appena attestato sui difficili
equilibri dell’ordinamento parlamentare.
“L’Editto Albertino sulla stampa”, 26 marzo 1848, rifletteva in modo molto
chiaro questo atteggiamento del legislatore, di fronte ai problemi della libertà,
al cui riconoscimento formale si accompagna la pressante preoccupazione di
salvaguardare l’autorità e il prestigio delle istituzioni tradizionali.
L’art. 28 dello “Statuto Albertino”, pubblicato il 4 marzo 1848, aveva stabilito:
“La stampa sarà libera, ma in una legge ne reprime gli abusi”. Tale Editto, in
conformità all’ufficio assegnatogli (cioè di reprimere gli “abusi” della libertà di
stampa), è essenzialmente un catalogo di reati, in parte di nuova creazione e in
parte, invece, già previsti come reato comune, dal codice penale del 1839, le cui
disposizioni vengono all’occasione richiamate
22
. È questo il caso dei “reati
contro la religione”, sanzionati dall’art. 16 dell’Editto
23
, e delle “offese ai buoni
22
Il codice penale conteneva, già una particolare disciplina dei “reati commessi per mezzo di stampa, di
scritti, di immagini e di incisioni” (art. 467 ss.); disciplina che, in parte, doveva considerarsi abrogata,
per effetto della nuova legislazione (Editto art. 91).
23
E previsti negli art. 164 e 165 del codice penale, che incriminavano, anche la mera enunciazione di
principi contrari ai dogmi della religione cattolica. G. Lazzaro, La libertà di stampa in Italia dall’Editto
Albertino alle norme vigenti, Milano, Giuffrè, 1969, pag. 36, riferisce che nel 1848 con sentenza del
Tribunale di Nizza, poi confermata in appello e Cassazione, il gerente responsabile di un giornale venne
costumi”, di cui si occupava il successivo art. 17
24
; in parte è nuovo, invece, il
reato di offesa “verso la Sacra Persona del Re o Reale Famiglia, o Principi del
sangue”
25
(art. 19).
Del tutto originale nella formulazione, sono, per contro, le disposizioni degli
artt. 13 e 14, relative “alle provocazioni a commettere reati” col mezzo della
stampa che è distinta a secondo che si trattasse di provocazione a commettere
reati comuni, ovvero “delitti di attentato e di cospirazione contro il re o
componenti della famiglia reale”
26
. Nuovo è anche art. 15, che punisce
l’impiego della stampa “per impugnare formalmente l’inviolabilità della
Persona de Re, l’ordine della successione al trono, l’autorità costituzionale del
Re e delle Camere”
27
. Nell’art. 20, poi compariva per la prima volta in una
legge italiana, anche il delitto di “lesa irresponsabilità del Re” concernente il
fatto di chi farà risalire alla sacra persona del Re il biasimo o la responsabilità
degli atti del suo governo.
Queste disposizioni connesse in qualche modo con i nuovi ordinamenti
costituzionali, sono coronate dalla singolare previsione, contenuta nell’art. 22,
condannato, ai sensi dell’art. 16 dell’Editto, per aver pubblicato uno scritto, d’autore straniero, che
metteva in dubbio la perpetuità delle pene dell’Inferno. Con il codice del 1859 si ebbero importanti
innovazioni in questa materia riducendosi la previsione del reato al fatto di chi “con animo deliberato
profferisce contumelie ad oltraggio della religione”, ovvero “pubblicamente commette altri fatti che
siano di natura tale da offendere la religione od eccitarne il disprezzo”.
24
L’offesa ai buoni costumi in pubblico era prevista, congiuntamente all’ipotesi di oltraggio al pudore,
nell’art. 433 del codice penale; il cui secondo comma incriminava (a querela di parte) anche l’oltraggio
commesso in luogo privato.
25
Il codice, infatti, non contemplava un reato di offesa al re o alla famiglia reale. Stabiliva, però: “Ogni
[…] pubblico discorso, come pure ogni altro scritto o fatto […] diretti ad eccitare lo sprezzo ed il
malcontento contro il re o le persone della famiglia reale o contro il governo, sarà punito colla
reclusione o colla relegazione o col carcere, o col confino, avuto riguardo al riguardo alle circostanze di
tempo e di luogo, ed alla qualità e gravezza del reato”.
26
Il codice del 1839 (art. 477) incriminava la provocazione al reato a mezzo della stampa, come ipotesi
di concorso nel reato (ma stabiliva pure che se la provocazione non avrà avuto effetto, la pena sarà
diminuita da uno a tre gradi). Non contemplava, per altro, una figura generica di istigazione a
delinquere (che entrerà, invece, come provocazione a commettere reati, nell’art. 469 del codice del
1859), limitando tale previsione alla provocazione a commettere delitti di stato (art. 199).
27
È degno di nota che in quest’ultima disposizione l’autorità costituzionale del Re e delle Camere dei
Deputati (incriminato dal successivo art. 21) siano poste esattamente sullo stesso piano; così come, del
resto, vengono parificate nelle conseguenze giuridiche, l’offesa al Re (art. 19) ed oltraggio al senato ed
alla Camera dei Deputati (incriminato dal successivo art. 21). Il Codice Rocco puniva , invece l’offesa
al Presidente della repubblica in modo sensibilmente più grave del vilipendio delle istituzioni
costituzionali (cfr. artt. 278, 290).
che puniva con le stesse pene previste dall’art. 12 per le offese al Re, “coloro
che avranno fatto pubblicamente atto di adesione […] a qualunque altra forma
di governo, o coloro che avranno manifestato voto o minaccia di distruzione
dell’ordine monarchico costituzionale”. Fra le disposizioni penali dell’Editto,
quella di gran lunga più rimarchevole l’art. 24, il quale stabiliva: Qualunque
offesa conto l’inviolabilità del diritto di proprietà, il rispetto dovuto alla legge,
ogni apologia di fatti qualificati crimini o delitti della legge penale, ogni
provocazione all’odio fra le varie condizioni sociali, e contro l’ordinamento
della famiglia, sarà punito colle pene di cui all’art. 17”
28
.
Non soltanto in questa disposizione compare, per la prima volta, l’espressione
“apologia” che entrerà poi nel codice del 1889 (art. 247); essa ci indicava
anche, in modo esplicito, quali fossero i valori “irrinunciabili”
29
, primo fra tutti
il diritto di proprietà , contro i quali non sarebbero stati tollerati neppure
attacchi puramente verbali. L’ampia discrezionalità lasciata al giudice per la
determinazione della pena e la sua relativa mitezza
30
, denota, nella disposizione
dell’art. 24, una tipica norma di chiusura del sistema che tramite il codice
penale e le altre disposizioni dell’Editto, contemplava già tutte le possibili
forme d’attacco contro i poteri e gli interessi fondamentali dello Stato: cioè
ogni sorta di scritto o pubblico discorso, ostile ingiurioso per le autorità
costituite
31
.
Tra Editto e Codice Zanardelli, non tenendo conto delle leggi ulteriori, sia
temporanee che permanenti
32
, rimaneva ben poco della promessa di libertà di
28
E cioè “con il carcere non maggiore ad un anno” o con pene di polizia “secondo le circostanze”. Nel
comma seguente si stabiliva che “nei casi nei quali si abbiano ad applicare pene correzionali, sarà
aggiunta una multa, estensibile a lire mille”
29
G. Lazzaro, op. cit., 18.
30
Le pene previste nell’art. 17 vennero rese più rigide con la legge del 20/06/1958, quando si trattasse di
apologia dell’assassinio politico; ipotesi a cui con legge citata, venne applicabile , l’art. 24 dell’Editto.
Il progetto di legge all’uopo approntato andava però ben oltre: come riferisce G. Lazzaro, op. cit., 36, il
quale sottolinea che, ad ogni modo la Cassazione, con prodigiosa rapidità aveva avuto già occasione
con sentenza del 29 marzo 185, di applicare l’art. 24 dell’Editto all’apologia del reato Orsini (avvenuto
il 15 gennaio dello stesso anno).
31
Art. 200 del codice penale del 1839.
32
Oltre alla già citata legge 20/06/1958 vanno ricordati: il decreto Luogotenenziale 28/04/1859 (che
vietava di eccitare per mezzo stampa “le passioni o la diffidenza tra i vari ordini sociali, seminare la
stampa, soprattutto nella materia politica, in senso ampio, o per meglio dire,
rimaneva giusto quel tanto che non suonasse come contestazione degli
ordinamenti politici, sociali ed economici costituiti nello Stato
33
.
L’Editto Albertino rimase, per quasi un secolo, la struttura portante della
legislazione penale in materia di stampa, e non fu mai esplicitamente abrogato,
anche se buona parte delle disposizioni penali in esso contenuto è rimasta
superata per effetto di assorbimento nei codici penali, specialmente nel codice
Zanardelli e nel codice vigente, ovvero per abrogazione tacita, derivante da
incompatibilità con leggi successive
34
.
La contemporanea previsione degli stessi fatti come reato comune e come reato
di stampa, a cui diede luogo la successiva legislazione penale all’origine di una
serie di controversie interpretative, non risolte né dalla legge 20/11/1859
(diretta appunto al coordinamento dell’Editto con i nuovi codice penali), né da
leggi ulteriori. L’effetto pratico di questa sovrapposizione di norme, fu il
moltiplicarsi delle occasioni di intervento repressivo, che non venne meno anzi
si aggravò, con la promulgazione del Codice Zanardelli. Con la legge di
pubblicazioni dei codici del 1889 infatti, mentre furono abrogate tutte le norme
penali precedenti incompatibili con la nuova legge generala, si stabiliva:
“Questa disposizione non si applica alle leggi sulla stampa, tranne che per gli
articoli 17, 27 e 29 del regio editto 26 marzo 1848”. Vennero in tal modo
sottratti al regime dell’Editto i soliti reati di diffamazione a mezzo stampa e le
“offese ai buoni costumi”, per i quali provvederanno d’ora innanzi direttamente
i codici penali
35
. Con la stessa legge di pubblicazione dei codici, si stabilì,
discordia o turbare la pubblica tranquillità”) e la legge del 17/05/1866; entrambe temporanee visto che
erano leggi di guerra. Si devono inoltre menzionare il D.R. 19/10/1870 che estendeva al pontefice le
disposizioni degli artt. 14, 15 e 19 dell’Editto e, infine, le c.d. leggi antianarchiche del 1894.
33
Nell’insieme l’Editto rifletteva un regime di relativo favore per la stampa. E’ stato sottolineato, però
che a questo intento venne in parte neutralizzato dall’atteggiamento della magistratura dell’epoca, che,
oltre a restringere sempre di più la categoria dei reati di stampa sembrava compiacersi di applicare le
nuove leggi “alla lettera, come per nostalgica fedeltà dell’antico regime”.(G. Lazzaro, op. cit., 33)
34
La sola novità sostanziale, nel regime dei reati d’opinione, riguardò in seguito, i reati contro la
religione.
35
Ciò venne spiegato col fatto che non tutti i reati che si commettono col mezzo della stampa
partecipano di quel carattere politico che giustificava il particolare regime “di favore dell’Editto”, per
inoltre, che l’art. 13 dell’Editto (il quale puniva la “provocazione ai reati” a
mezzo della stampa) restasse in vigore limitatamente ai reati che rimanevano
tuttora regolati dall’Editto
36
.
Con questa disposizione di legge, si crearono le premesse per un singolare
regime “in cui non tutti i reati commessi a mezzo della stampa si dovevano, per
ciò solo, considerare… reati di stampa”. Nei casi dubbi che si presentarono in
seguito, la giurisprudenza della Cassazione andò molto al di là delle premesse
legislative, dando regolarmente le preferenze alla legge comune; soprattutto
quando si trattò di scegliere tra l’art. 24 dell’Editto e dell’art. 247 del codice
penale
37
.
Le motivazioni di quest’orientamento divengono trasparenti se si consideri che
l’Editto Albertino traduceva il regime di favore, accordato ai reati di stampa,
non solo nella relativa mitezza delle pene, ma altresì nella previsione di un
brevissimo termine di prescrizione dell’azione penale (art. 12 Ed.) e in uno
speciale regime processuale, che sottraeva la cognizione dei fatti ai giudici
ordinari. Non curanti della forte censura della dottrina, la giurisprudenza estese
l’applicazione degli artt. 246 e 247 del codice penale ad ipotesi che a stento
sarebbero rientrate nelle più generiche previsioni dell’Editto
38
. Le conseguenze
pratiche divennero particolarmente rilevanti dopo le leggi del 19/05/1894, nn.
314 e 315, che avevano elevato della metà le pene per l’istigazione a
questo motivo, sia l’offesa ai buoni costumi, sia la diffamazione, erano restituite al governo della legge
comune. (cfr. la relazione sul progetto definitivo, n. LXXV, p. 252).
36
Cioè, mentre la provocazione (anche a mezzo della stampa) a commettere reato, era ora regolata dagli
artt. 135 e 246 del codice, restava punibile ai sensi dell’art. 13 dell’Editto la sola provocazione a
commette re i reati in esso previsti (cioè i reati di stampa). Sotto il vigore del codice del 1859, invece, la
provocazione a commettere reati, di qualsiasi specie, se commessa a mezzo della stampa, era sempre
sottratta all’applicabilità dell’art. 269 del codice penale.
37
L’art. 247 del codice del 1889 stabiliva: “Chiunque , pubblicamente, fa l’apologia di un fatto che la
legge prevede come delitto, o incita alla disobbedienza dalla legge, ovvero incita all’odio fra le varie
classi sociali in modo pericoloso per la pubblica tranquillità è punito con la detenzione da tre mesi ad
un anno e con la multa da lire cinquanta a mille”.
38
Per una fattispecie esemplare a riguardo, cfr Cass. 17/09/1895, in Giust. Pen., 1895, 1430, con nota
vivacemente dissenziente di J. Escobedo, A proposito del reato di incitamento alla disobbedienza della
legge,d’istigazione all’odio tra le classi sociali, in modo pericoloso per la pubblica tranquillità (ivi,
1434 ss.).
delinquere, per l’apologia di reato e per gli altri fatti previsti dall’artt. 246 e 247
c.p.
39
, anche se commessi a mezzo stampa.
Nell’indirizzo della Cassazione si rifletteva, da un lato, un orientamento
generalmente repressivo connesso al clima politico di quegli anni; dall’altro, un
raffreddamento degli iniziali entusiasmi per la stampa, tramutatisi, anzi , in una
evidente insofferenza per il regime di favore, di cui ancora vi era traccia nella
legislazione
40
: con la conseguente tendenza ad interpretare restrittivamente la
nozione del reato di stampa. Ma, anche a prescindere dagli orientamenti della
giurisprudenza, si deve comunque prendere atto che la legislazione unitaria
aveva affinato e moltiplicato nel frattempo le incriminazioni preesistenti, dirette
a limitare la libertà di manifestazione del pensiero. I suggerimenti che venivano
dalle leggi pre-unitarie e dalla giurisprudenza erano, infatti, confluiti
armoniosamente nei codici penali; ne è espressione in quello del 1889, le cui
previsioni si rilevarono, nei decenni successivi,un utile strumento di controllo
politico talora contro la stessa volontà dei suoi autori
41
.
In materia di libertà d’espressione, ad ogni modo, il più era stato fatto già
dall’Editto, che forniva un prontuario veramente completo dei delitti
d’opinione. Alle previsioni tradizionali sull’offesa alla religione, al Re e al
Governo, e sulla provocazione ai reati di Stato, l’Editto, che tutte le richiamava
e perfezionava, aveva aggiunto un’ampia serie di incriminazioni, che non a
caso passarono poi nella legge penale generale, evidentemente in vista di più
ampie esigenze repressive: pensiamo, soprattutto, all’art. 13, all’art. 22 e all’art.
24, che prefigurano tutte le future ipotesi di “pubblica istigazione”,
“incitamento” e “apologia” (gli artt. 272, 414,, 415, 553, del cod. pen. vig.); al
delitto di “lesa irresponsabilità”, agli oltraggi dell’art. 21 (che anticipano le
figure del vilipendio) e così via. l’art. 13 dell’Editto, che faceva già parte del
39
Sul punto i rilievi di J. Escobedo, op. cit., 1436.
40
Come rileva anche G. Lazzaro, op. cit., 58.
41
Esemplare, in questo senso, fu la vicenda delle norme relative ai delitti contro la libertà di lavoro (artt.
165 e 166 del codice Zanardelli) che divennero strumenti di repressione antioperaia. Per un’accurata
documentazione G. Neppi Modona, Sciopero, potere politico e magistratura – 1870/1922, Bari,
Laterza, 1969, pag.. 71 ss.
codice del 1859 aveva trattato l’ipotesi della provocazione generica a
commettere reati (art. 469); il codice del 1889 raccolse più ampiamente la
lezione dell’Editto, elaborando la previsione dell’apologia di reato, ed
affinando e accrescendo le ipotesi del vilipendio.
3.1) Il Codice Zanardelli: contrasto tra giurisprudenza e dottrina
sull’art. 247.
Al tempo del progetto Zanardelli le norme sul vilipendio incontrarono una forte
resistenza da parte della dottrina e si scriveva apertamente che la previsione di
questi delitti non era per nulla giustificata e che “meglio avrebbe fatto il nostro
legislatore a non accoglierli nel codice ed ora opera provvida toglierli via”
42
.
Nei lavori preparatori il dibattito si era sollevato soprattutto contro la previsione
dell’art. 121 del progetto preliminare, che incriminava il fatto che “chiunque
pubblicamente vilipende la bandiera o le istituzioni da essa stabilite”.
La Sottocommissione del Senato propose la modifica del testo originario
dell’art. 121, escludendone appunto il vilipendio alla legge; lasciando quello
alle istituzioni. Alcuni commissari manifestarono la perplessità con cui la
censura vivace può trascendere in “vilipendio”. Fu rilevato che la disposizione
proposta andava oltre lo stesso art. 107 del codice prussiano “che fu paragrafo
di reazione”: non vi sono forse in tutti gli Stati “istituzioni che meritano di
essere attaccate vigorosamente ?”
43
. Da queste discussioni scaturì il testo
definitivo dell’art. 126 del codice del 1889, che puniva con la detenzione sino a
sei mesi o con la multa di lire cento a duemila
44
“chiunque pubblicamente
vilipende le istituzioni dello Stato”. Alla radice delle riserve manifestate dalla
dottrina, è evidente la preoccupazione che, dalle nuove disposizioni potessero
42
E. Florian, Delitti contro la sicurezza dello Stato, in Trattato di diritto penale II, Milano, 1915, pag.
419.
43
Cfr. i Verbali della Commissione di revisione XVIII, p. 289. Anni dopo, P. Nocito era ancora
dell’opinione che il reato di vilipendio non avesse fondamento giuridico (Corso di diritto penale col
commento delle relative leggi, VI. Reati contro il diritto politico, Roma, 1901, XXXV, p. 324), infra
nel testo, e nt. 60; nonché cap. III, n. 6, pag. 115.
44
La disposizione corrispondente prima della riforma del 2006 (art. 290), prevedeva, invece, la pena
della reclusione da sei mesi a tre anni.
derivare inammissibili limiti di critica politica. Si osserva infatti che il
vilipendio punibile fosse quello diretto non già contro “le personalità
individuali e collettive in cui le istituzioni si incarnano, ma contro le istituzioni
in sé stesse avvisate”
45
. Inoltre nel circondare con la tutela penale determinate
forme teoriche e di principio , “lo Stato si fa banditore e protettore di una
determinata scienza politica”: “il che va contro all’istituto della libera
discussione e censura”
46
.
L’uso, che dell’art. 126, avrebbe fatto la giurisprudenza, darà ragione ai suoi
critici. Fra l’altro, la Cassazione interpretò sempre estensivamente, a partire dal
1892, la nozione delle “istituzioni costituzionali”, includendovi puntualmente
“l’esercito”
47
e più tardi “il governo”
48
.
Nella prassi giudiziaria dell’Italia liberale, comunque gli strumenti di elezione
per la penalizzazione del dissenso politico erano altri. Sotto il vigore del codice
sardo-italiano le disposizioni per questi scopi erano state, oltre all’art. 22 e 24
dell’Editto sulla stampa, principalmente gli artt. 426 e 471 del c.p., che
incriminavano rispettivamente, “l’associazione di malfattori” e il fatto di chi
eccitasse “lo sprezzo e il malcontento contro la Sacra Persona del Re, e le
persone della Reale famiglia, o contro le Istituzioni Costituzionali”.
Dopo l’entrata in vigore del codice Zanardelli le norme più adoperate contro la
diffusione del pensiero “sovversivo” furono, invece, gli artt. 246 e 247 del
codice. L’art. 246 prevedeva la generica “istigazione a delinquere”, mentre
l’art. 247 incriminava “l’apologia di delitto”; l’incitamento “alla disobbedienza
della legge”; l’incitamento “all’odio fra le classi sociali, in modo pericoloso
per la pubblica tranquillità”. Nell’interpretazione della Cassazione
l’incitamento alla disobbedienza della legge venne equiparato al disprezzo della
45
E. Pessina, Nota a Cass. 6 gennaio 1892, in Cass. Un., III, 473 s.
46
E. Florian, op. cit., 420.
47
Da vedere: Cass. 6 gennaio 1892, già cit., nt. 27; 17 agosto 1990, in Cass. Un., XII, 321; 17 gennaio
1905, in Riv. Prat. Dir. Giur., 1905, 175. Contro la tesi della Cassazione, E. Florian, op. cit.,414 s. e gli
Autori, ivi cit., p. 414, nt. 3.
48
Ciò, per altro, solo alla vigilia, si può dire, della promulgazione del Codice Rocco; e quasi
anticipandone le statuizioni (se non andando al di là di esse).
legge: vanificandosi in tal modo, l’eliminazione dal teso dell’art. 126 e
l’elusione dell’ipotesi dell’eccitamento al disprezzo della legge (che vi era
originariamente inclusa
49
). La giurisprudenza trasformò così il reato dell’art.
247, da illecito di pericolo concreto, ad illecito di pericolo presunto,
identificando spesso il pericolo con la mera pubblicità del fatto.
Fino a quando il codice Zanardelli fu in vigore, la Cassazione risultò sempre
severa nell’applicare l’art. 247, sia prima che dopo l’avvento del fascismo. A
causa di ciò diversi esponenti politici dell’epoca come Giambattista
Impallomeni e Ludovico Mortara criticavano l’art. 247: il primo diceva che il
sistema tedesco era stato più riguardoso verso la libertà di pensiero e “più
circospetto verso gli arbitri di un giudizio timido e retrivo”
50
; il secondo
criticava l’indirizzo preso dalla giurisprudenza sull’interpretazione dell’art 247;
dove la pubblica enunciazione e analisi del fatto economico era stata spesso
qualificata come incitamento all’odio di classe nelle sentenze “che lasciarono
incerto se fosse più deplorare la supina ignoranza dei loro autori o la ferocia
delle condanne inflitte a i cittadini o la ferocia delle condanne inflitte a
cittadini mondi di ogni colpa”
51
.
49
Cass. 28 gennaio 1902, in Giust. Pen., 1902, 1168, m. 815.; 24 marzo 1902, ivi, m. 818. Nella
Relazione sul progetto definitivo, LIII; pag. 80, Zanardelli, aveva precisato che la figura del vilipendio
della legge, era stata esclusa, dal codice, perché ritenuta pericolosa per la pubblica discussione,
limitandosi la previsione dell’art. 126 al vilipendio delle istituzioni costituzionali e riservando, invece,
l’applicazione dell’art. 247 alle ipotesi in cui “il disprezzo della legge sia rivolto ad un fine realmente
perturbatore dell’ordine pubblico”. D’altra parte, dallo stesso art. 247 era stata eliminata la previsione
dell’eccitamento al disprezzo della legge, “essendo quasi impercettibile la linea che separa la critica
onesta e lecita, per quanto vivace e ardita, da quella che tende a suscitare lo sprezzo dell’oggetto preso
di mira” (Relazione, cit., CXIV, pag. 397). Scomparsa, quindi, da un lato, la figura del vilipendio della
legge, l’applicazione dell’ art. 247, dall’altro lato, restava limitata ai soli casi di vero e proprio
incitamento alla disobbedienza della legge; ed inoltre al caso dell’incitamento all’odio di classe, in
modo pericoloso per la pubblica tranquillità: vale a dire non “quale semplice espressione di sentimenti
avversi ad una determinata classe di cittadini”, bensì quando avvenisse in modo tale che “ne consegua
un perturbamento nella opinione della generale sicurezza” (La Relazione minist.. del progetto del 1887,
pag. 162 s.). Tale requisito fu identificato, in seno alla Commissione senatoria, con l’avvenuto
turbamento, nel senso che “gli animi siano stati eccitati, per il pericolo che seguano dei reati” (Auriti).
Questo estremo della fattispecie viene definito da E. Pessina, Il nuovo codice penale, Milano, 1890,
pag. 275, come “violenta provocazione al disordine sociale”.
50
G. B.Impallomeni, Discorso sulla giuria, in Giustizia penale, 1895, pag. 236 s.
51
L. Mortara, Comuni e Camere del lavoro innanzi al Consiglio di Stato, in Riforma sociale, IV, 1897,
p. 39. Ludovico Mortara fu Procuratore Generale della Corte di Cassazione e poi Ministro di Grazia e
Giustizia nel Gabinetto Nitti (1919).