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Introduzione
Nel campo dell’economia e della finanza lo studio dell’andamento dei mercati
finanziari ha sempre avuto un considerevole rilievo e ancora di piø dopo la recente
crisi finanziaria. Uno strumento utile a capire l’andamento dei mercati è l’analisi
tecnica intermarket.
L’analisi tecnica intermarket rappresenta una particolare applicazione dell’analisi
tecnica che prende in considerazione il movimento dei prezzi di settore di mercati
correlati. Divulgata principalmente da John J. Murphy all’inizio degli anni novanta,
essa si propone di elevare l’analisi tecnica da semplice strumento di analisi grafica a
vero e proprio strumento di studio delle relazioni presenti tra i mercati delle azioni,
dei titoli di debito, delle valute e delle materie prime, in un contesto finanziario
sempre piø globalizzato ed interdipendente.
La comprensione delle dinamiche di tali interrelazioni tra i mercati sarà poi utile alla
gestione di portafoglio, in particolare si potrà allocare al meglio il capitale a
disposizione in base alle aspettative che verranno fuori dalle analisi.
Lo scopo del presente lavoro, dopo aver illustrato le principali correlazioni tra i
mercati e discusso della recente crisi finanziaria, è quello di analizzare la relazione
che negli anni si è modificata piø volte, cioè la relazione tra mercato azionario e
mercato dei titoli di debito. Dunque il lavoro è organizzato come segue.
Nel primo capitolo vengono delineate le principali interrelazioni tra i mercati; nella
prima parte viene illustrata la teoria della superiorità nel lungo termine degli
investimenti azionari rispetto a qualsiasi altra forma d’investimento; nel prosieguo
della trattazione saranno analizzate la relazione cardine tra materie prime e
quotazioni obbligazionarie, la relazione tra le azioni e le obbligazioni e quella tra
dollaro e materie prime. Nella parte finale del capitolo, infine, si parlerà dell’analisi
delle relazioni fra i settori del mercato azionario e il ruolo del ciclo economico
sull’andamento dei mercati finanziari.
Nel secondo capitolo si effettua una disamina della recente crisi finanziaria che ha
inciso notevolmente sull’andamento dei mercati finanziari negli ultimi 5 anni. Si
descriverà dapprima la crisi dei mutui subprime e verranno ricordati
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cronologicamente tutti gli avvenimenti principali; successivamente, dopo lo scoppio
della bolla immobiliare, si parlerà di quelle che sono state le cause principali della
crisi ossia innovazione finanziaria e sistema bancario ombra. Verranno descritti
anche le concause della crisi tra le quali i viziati processi di governance societaria,
nel segno del moral hazard e infine gli errori del governo e la politica monetaria. Per
concludere si illustreranno alcune proposte di regolamentazione ed infine la delicata
situazione della crisi del debito sovrano in Europa.
Il terzo capitolo entra nel merito della relazione tra quotazioni azionarie e titoli di
debito; in particolare ci si soffermerà sull’analisi di questa relazione per Stati Uniti,
Germania, Giappone e Italia. A tal fine, si stimerà un modello regressivo con il
metodo dei minimi quadrati ordinari (OLS) per capire come si è mossa la relazione
tra borsa e tassi nei diversi paesi dal 1990 al 2012 e per trarre, eventualmente modelli
di comportamento. In particolare si dovrà studiare se, nel corso degli anni, un
movimento al rialzo o al ribasso dei tassi di interesse incida positivamente o
negativamente sull’andamento delle quotazioni azionarie. In conclusione si
analizzerà l’andamento dello spread a 2 anni Italia-Germania per sottolineare come
anche a livello di tassi di interesse a breve termine la situazione sia estremamente
delicata.
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Capitolo 1
Le correlazioni dei mercati
finanziari
1.1 I rendimenti sui mercati finanziari dal 1802: azioni
e obbligazioni
Si possono analizzare storicamente i rendimenti dei titoli azionari e obbligazionari
suddividendo un periodo di tempo ampio in tre sottoperiodi. Un primo sottoperiodo,
dal 1802 al 1870, soprattutto negli Stati Uniti è stato caratterizzato dal passaggio da
un’economia agricola ad una industriale (come sta succedendo negli ultimi anni alle
economie emergenti dell’America Latina e dell’Asia). Il secondo sottoperiodo, dal
1871 al 1925, ha fatto sì che gli Stati Uniti diventassero la maggiore potenza
economica e politica mondiale. Infine l’ultimo sottoperiodo comprende la grande
crisi del 1929 e la successiva espansione postbellica.
Figura 1.1: Indici dei rendimenti nominali reali, 1802-2006.
Fonte: J. J. Siegel Rendimenti finanziari e strategie d’investimento.
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Dalla figura 1.1 è facile osservare che il rendimento delle azioni è superiore a quello
delle altre attività, e la crisi del 1929 sembra rappresentare solo un incidente di
percorso. Se un individuo nel 1802 avesse investito e reinvestito un dollaro in azioni,
alla fine del 2006 avrebbe accumulato una fortuna pari a 12,7 milioni di dollari,
anche se nella realtà questo è difficile che si verifichi, infatti, normalmente gli
investitori consumano la maggior parte dei dividendi ottenuti godendosi i frutti del
risparmio passato
1
.
Le obbligazioni, invece, rappresentano la principale alternativa alle azioni sui
mercati finanziari. Le loro quotazioni cambiano in base alle variazioni dei tassi
d’interesse, assicurano pagamenti prefissati nel tempo e i flussi di cassa derivanti
dalle stesse hanno un valore monetario prestabilito dai termini di contratto.
Figura 1.2: Tassi d’interesse negli Stati Uniti, 1800-2006 (in percentuale).
Fonte: J. J. Siegel Rendimenti finanziari e strategie d’investimento.
Nel corso del tempo l’andamento dei tassi d’interesse è cambiato radicalmente.
Osservando la figura 1.2 si denota, in particolare, un rilevante aumento delle
quotazioni obbligazionarie durante la Grande depressione degli anni Trenta, in cui
1
Siegel J.J., Rendimenti finanziari e strategie d’investimento, Il Mulino 2010.
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sia i tassi a lungo sia i tassi a breve hanno fatto registrare minimi record
2
. Un altro
periodo che è importante mettere in evidenza è intorno agli anni Settanta, in cui si
assiste ad un aumento dei tassi d’interesse senza precedenti, causato da un alto tasso
d’inflazione. E’ quindi possibile affermare che i tassi d’interesse sono strettamente
legati al livello d’inflazione.
1.2 L’andamento dell’inflazione e l’oro
L’andamento dell’indice dei prezzi al consumo sia nel Regno Unito sia negli Stati
Uniti è cambiato radicalmente successivamente alla seconda guerra mondiale e,
soprattutto, negli anni Settanta.
L’Ottocento e i primi decenni del Novecento non sono stati caratterizzati da
significative variazioni nel livello dei prezzi perchØ la maggior parte dei paesi
industrializzati aderiva al gold standard. In tale sistema i governi si impegnavano a
scambiare la propria moneta con un ammontare fisso di oro e dovevano perciò
detenere riserve auree sufficienti a garantire il continuo scambio. Il gold standard
veniva sospeso solo in occasione delle crisi come le guerre. In tale tipo di regime,
basato sulla parità aurea, non vi è alcun vincolo giuridico all’emissione di moneta e
l’inflazione è così soggetta a forze di natura politica ed economica. Quindi questo
tipo di regime limita l’offerta di moneta e quindi il tasso d’inflazione. La stabilità
generale dei prezzi ha però un effetto negativo; il governo, infatti, rinuncia al
controllo sulla base monetaria fissando la parità fra la valuta e l’oro. In questo modo
non era possibile espandere l’offerta di moneta per stabilizzare i prezzi o espandere
la produzione oppure fornire liquidità aggiuntiva in periodi di crisi finanziarie. Per
questi motivi nel 1913 negli Stati Uniti fu istituito il Federal Riserve System (Fed),
con il compito di garantire il ruolo di prestatore d’ultima istanza in occasione di
crisi
3
. In qualche modo, quindi, venivano risolte le crisi di liquidità; infatti, la banca
2
PerchØ come ben sappiamo tassi d’interesse e quotazioni obbligazionarie sono legati da una
relazione inversa data dalla formula del discounted cash flow per il calcolo del prezzo di un titolo.
3
Quindi nel lungo periodo, la creazione di moneta da parte della Fed era vincolata al gold standard in
quanto venivano emesse banconote che garantivano il pagamento di una certa quantità di oro; nel
breve periodo la Fed creava base monetaria a patto che non venisse minacciata la convertibilità.
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centrale avrebbe offerto moneta per consentire ai depositanti di ritirare denaro senza
mettere in difficoltà le banche.
La grave crisi economica che si avviò nel 1929 sancì la fine del gold standard; fu
sospesa prima convertibilità in oro della sterlina nel 1931 e, piø tardi, anche gli Stati
Uniti introdussero il regime di non convertibilità della cartamoneta
4
.
E’ importante rilevare che il prezzo dell’oro segue molto da vicino l’andamento
dell’inflazione; infatti, nei primi mesi del 1980 il suo prezzo era schizzato a 850
dollari l’oncia in seguito alla rapida crescita dell’inflazione nel decennio precedente.
Figura 1.3: Indice dei prezzi negli Usa e nel Regno Unito, 1801-2006 (1801 = 1 $).
Fonte: J. J. Siegel Rendimenti finanziari e strategie d’investimento.
4
Immediatamente dopo l’abbandono del gold standard vi fu un rimbalzo record dei mercati azionari,
mentre invece le obbligazioni crollarono per i timori delle conseguenze dell’inflazione legata
all’abbandono del gold standard.
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1.3 I rendimenti reali di azioni e obbligazioni
I rendimenti totali reali delle attività finanziarie prendono in considerazione i
rendimenti nominali al netto degli effetti dell’inflazione. Il grafico evidenzia
l’aumento del potere d’acquisto per azioni, obbligazioni a breve e lungo termine ed
oro.
Figura 1.4: Indice dei rendimenti reali totali, 1802-2006.
Fonte: J. J. Siegel Rendimenti finanziari e strategie d’investimento.
L’andamento del potere d’acquisto delle azioni prevale sulle altre attività mostrando
anche una stabilità di lungo periodo; il rendimento medio delle azioni al netto
dell’inflazione è stato del 6-7% l’anno. Nel lungo periodo la valutazione della
rischiosità dell’investimento in titoli azionari diventa positiva quindi, le fluttuazioni
di breve periodo sono marginali di fronte all’andamento crescente di lungo periodo.
Il potere d’acquisto delle obbligazioni, invece, è sensibilmente diminuito nel tempo;
in particolare dopo la seconda guerra mondiale, le attività finanziarie a reddito fisso
hanno registrato rendimenti appena superiori al tasso d’inflazione
5
.
5
Smith Edgar L., Common Stocks as Long-Term Investments, New York, Mac-millan, 1925.
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Tavola 1.1: Rendimenti annui sui mercati azionari, 1802-2006.
Rendimento
nominale tot.
6
Rendimento
reale totale
Rendimento
reale dell’oro
Inflazione
PERIODI
1802-2006 8,3 6,8 0,3 1,4
1871-2006 8,9 6,7 0,4 2,0
SOTTOPERIODI
1802-1870 7,1 7,0 0,2 0,1
1871-1925 7,2 6,6 -0,8 0,6
1926-2006 10,1 6,8 1,2 3,0
PERIODI POSTBELLICI
7
1946-2006 11,2 6,9 0,5 4,0
1946-1965 13,1 10,0 -2,7 2,8
1966-1981 6,6 -0,4 8,8 7,0
1982-1999 17,3 13,6 -4,9 3,3
1985-2006 12,4 8,4 0,3 3,0
Fonte: J. J. Siegel Rendimenti finanziari e strategie d’investimento.
La tabella 1.1 illustra i rendimenti annuali delle azioni Usa negli ultimi due secoli. La
colonna con sfondo grigio rappresenta il tasso di rendimento composto annuo, al
netto dell’inflazione, sui titoli azionari. Il rendimento reale delle azioni negli ultimi
duecento anni, al netto dell’inflazione, è stato del 6,8%, questo significa che il potere
di acquisto delle azioni è, in media, raddoppiato ogni 10 anni. Inoltre, dalla tabella è
possibile notare, nonostante la maggior rischiosità rispetto alle obbligazioni, la
considerevole stabilità delle azioni nei sottoperiodi considerati: 7% anno dal 1802 al
1870, 6,6% dal 1871 al 1925 e 6,8% dal 1926. Questa stabilità di lungo periodo dei
rendimenti è straordinaria considerando i notevoli mutamenti intervenuti nella nostra
società negli ultimi due secoli; in particolare gli Stati Uniti sono passati da un
economia prevalentemente basata sull’agricoltura diventando prima una potenza
industriale e oggi un’economia orientata ai servizi e all’innovazione tecnologica. Il
passaggio dal gold standard ad un regime monetario non piø basato sull’oro ha
6
Il rendimento nominale e reale si intendono come rendimenti composti annui.
7
L’analisi dei sottoperiodi in tal caso è riferita al breve periodo.
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rappresentato un altro avvenimento importante che ha condizionato l’andamento dei
mercati.
Nel breve periodo, invece, vi sono stati molti intervalli di tempo in cui i rendimenti
azionari si sono discostati dalla media di lungo periodo. Da rilevare la crescita che ha
caratterizzato i mercati dal 1982 al 1999 che ha assicurato agli investitori un
rendimento annuo al netto dell’inflazione pari al 13,6%, che rappresenta il maggiore
rialzo nella storia del mercato azionario statunitense.
Le attività a reddito fisso non hanno avuto, nel lungo periodo, la stabilità che invece
hanno avuto le azioni.
Tavola 1.2: Rendimenti dei titoli a reddito fisso, 1802-2006.
Titoli del debito pubblico a
lungo termine
Titoli del debito
pubblico a breve
termine
Rendimento
nominale
8
Rendimento
reale
Tasso
nominale
Rendimento
reale
Inflazione
PERIODI
1802-2006 5,0 3,5 4,3 2,8 1,4
1871-2006 5,0 2,9 3,8 1,7 2,0
SOTTOPERIODI
1802-1870 4,9 4,8 5,2 5,1 0,1
1871-1925 4,3 3,7 3,8 3,2 0,6
1926-2006 5,5 2,4 3,8 0,7 3,0
PERIODI POSTBELLICI
1946-2006 5,7 1,6 4,7 0,6 4,0
1946-1965 1,6 -1,2 2,0 -0,8 2,8
1966-1981 2,5 -4,2 6,9 -0,2 7,0
1982-1999 12,0 8,4 6,3 2,9 3,3
1985-2006 10,4 7,2 4,9 1,7 3,0
Fonte: J. J. Siegel Rendimenti finanziari e strategie d’investimento.
8
Il rendimento nominale e reale si intendono come rendimenti composti annui.
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La tabella 1.2 evidenzia i rendimenti nominali e reali dei titoli di stato sia a breve sia
a lungo termine dal 1802 in poi. Il rendimento reale dei titoli di stato a breve è sceso
vistosamente dal 5,1% dei primi anni del Novecento ad un irrisorio 0,7% dopo il
1926, appena sopra l’inflazione. Analogo andamento hanno avuto i titoli di stato a
lungo termine; dal 4,8% nel primo sottoperiodo al 3,7% nel secondo e al 2,4% nel
terzo.
La diminuzione dei rendimenti reali medi registrata dai titoli a reddito fisso è
incredibile; considerando un lasso di tempo trentennale, ad eccezione del trentennio
1831-1861, il rendimento reale dei titoli a reddito fisso non è riuscito mai a superare
quello delle azioni. Quindi è dimostrata, per investitori con orizzonte temporale di
lungo periodo, la superiorità indiscutibile delle azioni sui titoli a reddito fisso.
La diminuzione dei rendimenti dei titoli a tasso fisso rispetto alle azioni può essere
spiegata dal fatto che l’aumento dell’inflazione, in seguito all’abbandono del gold
standard, ha avuto un effetto piø duro sui loro rendimenti. Un’altra motivazione può
essere dovuta all’avversione al rischio degli investitori all’investimento azionario
immediatamente dopo la crisi del 1929; infatti, il vertiginoso crollo di borsa ha
allontanato la maggior parte degli investitori dalle azioni per avvicinarli ai titoli di
stato ed ai depositi causandone il ribasso dei rendimenti.
1.4 Gli indici azionari
9
L’indice Dow Jones è il piø noto indice della borsa di New York, e fu creato alla fine
dell’Ottocento da Charles Dow, fondatore della Dow Jones & Co.
10
e padre
dell’analisi tecnica.
Il 16 febbraio 1885 Dow iniziò a pubblicare una media giornaliera di 12 titoli
rappresentativi delle maggiori capitalizzazioni (di 10 compagnie ferroviarie e 2
industriali). Nel 1889 pubblicò una media giornaliera basata su 20 titoli (18
compagnie ferroviarie e 2 industriali). In seguito l’importanza delle imprese
9
Becchetti L., Ciciretti R., Trenta U., Il Sistema Finanziario Internazionale, Michele Bagella,
Giappichelli, Torino, 2007.
10
La Dow Jones & Co. è la società che pubblica anche il Wall Street Journal.
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manifatturiere superò quella delle società ferroviarie e, quindi, il 26 Maggio 1896 fu
creato il Dow Jones Industrial Average composto da 12 titoli
11
.
Nello stesso anno l’indice precedente fu rinominato Rail Average, nel 1970 divenne
Trasportation Average composto sempre da 20 titoli. Nel 1916 il Dow Jones
Industrial Average passò a 20 titoli e a 30 nel 1928
12
.
Il Dow Jones Industrial Average viene calcolato ponderando per i prezzi, in altre
parole i prezzi delle azioni del paniere vengono sommati e divisi per il numero dei
titoli; di conseguenza i movimenti delle azioni con prezzo elevato hanno un impatto
maggiore dei movimenti dei titoli a basso prezzo, a prescindere dalla capitalizzazione
dell’azienda. Una caratteristica importante di quest’indice ponderato per i prezzi è
che l’influenza del prezzo non ha nulla a che vedere con la sua dimensione.
Al dicembre 2006, i 30 titoli del Dow Jones, valevano 4200 miliardi di dollari, circa
il 25% della capitalizzazione totale del mercato statunitense. Fra le 10 azioni
statunitensi maggiormente capitalizzate tutte, escluse la Bank of America, fanno
parte del Dow Jones Industrial Average. Tuttavia non tutti i titoli del Dow Jones
rappresentano grandi imprese (Alcoa, General Motors e Exxon Mobil).
11
Nel 1896 i titoli che facevano parte del Dow Jones Industrial Average erano: American Cotton Oil,
American Sugar, American Tabacco, Chicago Gas, Distillino & Cattle Feeling, General Electric,
Laclede Gas, National Lead, North American, Tennessee Coal & Iron, U.S. Leather Pfd. e U.S.
Rubber.
12
Siegel J.J., Rendimenti finanziari e strategie d’investimento, Il Mulino 2010.