II
Nel capitolo dedicato al contributo citato, si è dato ampio spazio ad un’intervista
rilasciata dall’ autore al sottoscritto nell’ambito del progetto di tesi.
Quest’ultima sezione è nata dall’esperienza di studi all’estero (progetto Socrates –
Erasmus) da me condotta a Parigi, presso l’Università di Jussieu, Paris VII - Denis
Diderot.
III
CAPITOLO 1 : L’IDENTITA’ SOCIALE
In questo capitolo parleremo di identità sociale e cercando di definirla non potremo
tralasciare l’analisi dell’identità personale e i rapporti reciproci tra esse.
Il problema della distinzione e del rapporto tra queste due tipologie identitarie è forse
tra i temi più dibattuti e controversi all’interno degli studi sull’identità.
La letteratura è ormai generalmente concorde nel far risalire la distinzione fra queste
due grandi classi di identità ai lavori di Kuhn, McPartland (1954) e alle successive
applicazioni della tecnica da loro ideata e nota come il test del “Chi sei tu ?”.
Tale tecnica consiste nel domandare ai soggetti di rispondere per venti volte alla
domanda “chi sei tu ?”.
Adottando questo metodo gli autori ci mostrano che le persone tendono a descrivere
se stesse in base alle appartenenze a categorie o a gruppi sociali o ai propri ruoli. Solo
in un secondo momento le persone stesse forniscono risposte più soggettive.
Nel 1968 Gordon confermò queste tendenze. Da allora sono diversi gli autori che
condividono l’idea che il sistema di concetti di cui le persone dispongono quando
tentano di definire se stesse è diviso in due classi: quella relativa all’identità sociale e
quella che si riferisce all’identità personale.
Tentando una semplice definizione possiamo affermare che l’identità sociale
comprende tutte le caratteristiche che le persone possiedono in virtù della loro
appartenenza a gruppi o a categorie sociali (religiose, etniche, di genere,
professionali); l’identità personale, invece, comprende tutti gli attributi che sono
“propri” dell’individuo, che rinviano alla sua specificità e unicità individuale
(sentimenti di competenza, attributi corporei, gusti personali, caratteristiche di
personalità).
Tuttavia a queste due grandi classi possiamo affiancarne una terza: quella costituita
dall’identità di ruolo. Essa contiene le immagini che i soggetti hanno di sé in rapporto
ai ruoli che giocano nei vari contesti della loro vita quotidiana. Questa può essere
IV
considerata quella parte della concezione di sé che è legata alle relazioni
interpersonali nelle quali gli individui sono coinvolti.
1.1 Gruppi e Categorie Sociali: Comportamento Intergruppi
Si è scelto di partire da una distinzione classica all’interno della psicologia sociale:
quella tra gruppi e categorie sociali.
Per gruppo s’intende un insieme di due o più individui che condividono un destino
comune che li porta a qualche forma di interdipendenza tra di loro (scopi, attese
comuni; Lewin, 1948) e si percepiscono come membri di uno stesso aggregato
sociale (Tajfel, Turner, 1979) che è riconosciuto come tale da altre persone (Brown,
1988). Una categoria sociale può invece essere considerata come un insieme di
persone che hanno almeno un attributo in comune (Giddens, 1989).
Horwitz, Rabbie (1982) si inseriscono in questo filone di ricerca individuando le
condizioni che trasformano una categoria in un gruppo. Tale passaggio si sviluppa
per questi autori attraverso il riconoscimento di un insieme di individui come
un’entità sociale in grado di muoversi attivamente o passivamente in un campo
sociale, allo scopo di raggiungere un vantaggio o di evitare un danno.
Ma il punto e lo spunto più interessante che questi autori ci offrono è la netta
distinzione da essi operata tra identificazione e identità sociale (Rabbie, Horwitz,
1988).
Facilmente le persone si identificano con questa o quella categoria sociale ma queste
identificazioni non raggiungono il livello di identità sociale, ovvero l’identificazione
non viene interiorizzata a tal punto da far parte del concetto di sé.
È necessario distinguere in maniera netta l’identificazione di un attore con un gruppo
e la sua identità sociale. Se non fosse così ci troveremmo di fronte ad un concetto di
sé inteso come qualcosa di estremamente fluido e flessibile, sottoposto ad una rapida
formazione ma ad un’altrettanto rapida dissoluzione.
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Passiamo ora allo studio delle relazioni che intercorrono tra i gruppi: particolarmente
interessante è l’analisi di un fenomeno noto come comportamento intergruppi.
Tale fenomeno ci mostra come l’appartenenza ad un gruppo, in situazioni di
confronto con altri gruppi, produca favoritismo per il proprio gruppo (ingroup) e
discriminazione nei confronti dei gruppi di non appartenenza (outgroup).
Particolarmente illuminanti sono, a questo proposito, i famosi e pionieristici studi di
Muzafer Sherif nel contesto statunitense e quelli di Henry Tajfel in quello europeo.
Sherif si contrappone a quelle concezioni individualistiche che riconducono il
funzionamento delle relazioni intergruppo a fattori individuali e a processi
intrapsichici.
Attraverso il tre famosi esperimenti condotti tra il 1948 e il 1952 in un campo estivo
per ragazzi, Sherif giunse a dimostrare che il comportamento intergruppi è legato ad
un conflitto oggettivo di interessi in una situazione in cui le risorse sono limitate.
Altri risultati ai quali perviene Sherif sono che la competizione acuisce il conflitto
intergruppi mentre l’istituzione di scopi sovraordinati conduce alla cooperazione tra i
gruppi.
Successivamente è stato provato che il favoritismo nei confronti del proprio gruppo e
la discriminazione verso l’outgroup si verificano anche in assenza di competizioni
esplicite tra i gruppi, di precedenti ostilità o di vantaggi oggettivi.
È dunque importante ribadire che il semplice fatto di essere assegnati arbitrariamente
ad un gruppo, reale o immaginario che sia, è di per sé sufficiente a generare
comportamenti discriminatori tra i gruppi.
1.2 Teoria dell’Identità Sociale (SIT)
Riflettendo sulla problematica del comportamento intergruppi, Henry Tajfel ha ideato
una serie di esperimenti sui cosiddetti gruppi minimi.
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Si tratta di situazioni sperimentali in cui i soggetti vengono classificati, in base ad
elementi arbitrari e/o effimeri, in gruppi che non hanno alle spalle né storia, né
conflitti di interesse, né stereotipi.
Proprio sulla base dei risultati ottenuti da tali sperimentazioni e dalle riflessioni che
ne trae, Tajfel elabora, a partire dagli anni Settanta, un nuovo paradigma teorico noto
come Teoria dell’Identità Sociale (SIT; Tajfel, Turner, 1979).
La teoria dell’identità sociale parte dal presupposto che gli individui cercano di
raggiungere o mantenere un’immagine di sé positiva. Tale immagine deriva, in
massima parte, dalle appartenenze a vari gruppi o a categorie sociali e si forma per
effetto della categorizzazione sociale. Riprendendo Tajfel: “la categorizzazione
sociale può essere intesa come la disposizione dell’ambiente sociale secondo
raggruppamenti di persone in modo tale che abbia senso per l’individuo […], ma
anche […] come un sistema di orientamento che crea e definisce il posto specifico
dell’individuo nella società”.
Quindi per Tajfel, come ben evidenzia Mancini, “la necessità di differenziare
positivamente il proprio gruppo dagli altri non risponde soltanto alle esigenze
cognitive della categorizzazione (specificare i confini tra le categorie), ma anche ad
un bisogno di ricercare (attraverso il confronto sociale con altri gruppi) una
specificità positiva del proprio gruppo di appartenenza che soddisfi, sostenga o
valorizzi gli aspetti positivi della propria identità sociale; quegli aspetti cioè dai quali
ricavare soddisfazioni.”
In definitiva, l’identità sociale si configura come “quella parte dell’immagine che un
individuo si fa di sé stesso, che deriva dalla consapevolezza di appartenere ad un
gruppo (o a gruppi) sociale, unita al valore di significato emozionale associato a tale
appartenenza”.
Si vede in questo modo come l’identità sociale sia legata ad aspetti valoriali e
motivazionali della persona derivanti dalle loro appartenenze, oltre che al processo di
autocategorizzazione. Notiamo dunque come il concetto di autostima sia alla base di
questa teoria.
VII
Ma come è possibile accrescere la propria autostima stabilendo in tal senso una
specificità positiva del proprio gruppo di appartenenza ?
A questo proposito, citiamo ancora una volta Tajfel: “le caratteristiche di un gruppo
inteso nella sua globalità acquistano gran parte del loro significato in rapporto alle
differenze percepite da altri gruppi e alla connotazione di valore assegnata a tali
differenze.”
Diviene centrale, dunque, in questa teoria, la dimensione del confronto con gli altri
gruppi che, a sua volta, non è scevra da connotazioni di valore.
Questo vuol dire che le persone non si limitano a valutare il bilancio dei paragoni
effettuati tra i gruppi bensì attribuiscono delle connotazioni valoriali alle differenze
osservate.
La portata teorica e pratica di questo approccio è immensa; basti solo pensare al fatto
che, dato il bisogno fondamentale di raggiungere e mantenere un’identità sociale
positiva, le persone tenderanno a rimanere o ad appartenere ad un gruppo fin tanto
che quest’ultimo soddisfi, sostenga e valorizzi gli aspetti positivi delle loro identità
sociali.
Ma cosa succede quando il gruppo non è più in grado di garantire, ai propri membri,
un’identità sociale soddisfacente ?
Abbiamo visto come tale teoria conferisca valore al costrutto di autostima e come lo
consideri forza motrice dell’identificazione sociale.
Cosa potrà accadere quando tale bisogno non viene più soddisfatto dalle appartenenze
di gruppo ?
Ovvero, che cosa succede quando l’appartenenza ai gruppi non riesce più a garantire
ai suoi membri un’immagine positiva di se stessi ?
Tajfel ci dice che, in questi casi, il gruppo verrà abbandonato oggettivamente o
psicologicamente o in entrambi i modi dal soggetto, a meno che ciò non sia reso
impossibile da qualche impedimento oggettivo o perché in contrasto con altre
dimensioni importanti dell’identità sociale dell’ individuo.
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In ogni caso, ci sono diverse strategie per far fronte ad un’identità sociale negativa;
molta importanza in questo frangente, viene ad assumere, secondo Tajfel, l’atmosfera
sociale dominante, cioè “i sistemi di credenze individuali sulla natura e sulla struttura
delle relazioni tra i gruppi nella società”.
L’autore individua due sistemi di credenze che definisce come basati l’uno sulla
mobilità sociale e l’altro sul cambiamento sociale.
Quello basato sulla mobilità prevede una società flessibile dove è possibile per
l’individuo spostarsi da un gruppo all’altro, nel momento in cui egli non si senta
valorizzato o soddisfatto dalle condizioni di vita che gli sono imposte
dall’appartenenza ad un determinato gruppo sociale.
Quello invece basato sul cambiamento sociale porta ad una visione della società
marcatamente stratificata, rendendo così impossibile o comunque molto difficile per
la persona svincolarsi dalle proprie appartenenze.
Vediamo come questa teoria sia basata su di un continuum che vede collocato ad un
estremo il cambiamento e all’altro estremo la mobilità.
In effetti, tutta la SIT è basata su di un altro continuum definito da Tajfel come il
continuum interpersonale-intergruppi.
Ad un estremo di questo continuum (interpersonale), egli colloca tutte quelle
situazioni sociali nelle quali l’interazione tra due o più persone è completamente
determinata dalle caratteristiche personali degli individui che interagiscono.
Un rapporto di coppia o di amicizia è forse l’esempio più rappresentativo di questo
tipo di comportamento.
All’altro estremo (intergruppi) egli colloca invece le situazioni sociali nelle quali le
interazioni tra due o più persone sono completamente determinate dalla loro
appartenenza a gruppi o categorie sociali diverse.
Ovviamente le situazioni collocate ai due estremi del continuum sono soltanto
teoriche. In realtà tutte le situazioni sociali si collocano ad un certo punto del
continuum e gli individui interagiscono tra di loro spendendo sia parte delle loro
caratteristiche personali, sia parte delle loro identità sociali.