8
assimilatrice che esalta l’Io a discapito d’Altri e far rinascere invece una relazione
diacronica che dà priorità all’Altro, incontrandolo nel suo Volto.
1. Fenomenologia della violenza
«Se vuoi la pace, prepara la guerra»
4
. Questo detto latino, presente nel terzo libro
dell’Epitoma rei militaris di Vegezio, composto alla fine del IV secolo d.C., sembra
segnare la storia dell’umanità. La semplice osservazione della realtà ci mostra che
nell’ordine politico, come nell’ordine individuale, la guerra di tutti contro tutti
sembra segnare la regola: alla pace è stata data una posizione di subordinazione,
come condizione contraria allo stato di guerra.
Secondo Gaston Bouthoul, coniatore del neologismo “polemologia”, quale
disciplina, afferente alla sociologia, avente ad oggetto di studio la guerra, una
precisa conoscenza dei conflitti potrebbe condurre a nuove vie verso la pace.
5
La violenza è: «ogni iniziativa che pesa gravemente sulla libertà altrui, che tenta di
impedirgli la libertà di riflessione, di giudizio, di decisione, e soprattutto che giunge
a degradare l’altro al rango di mezzo o di strumento in un piano che lo assorbe e lo
ingloba senza trattarlo come un compagno libero ed uguale»
6
. Si presenta come
multiforme,
7
ma in ogni caso è contrassegnata dalla vis, da un rapporto di forza e di
dominio.
8
4
«Igitur qui desiderant pacem, praeparent bellum». FLAVIO VEGEZIO RENATO, Epitoma
rei militaris, a cura di Marco FORMISANO, L’arte della guerra romana, BUR, Milano, 2003, p.
188.
5
«Si tu veux la paix, connais la guerre». Gaston BOUTHOUL, Traité de polémologie.
Sociologie des guerres, Payot, Paris, 1991, p. 4.
6
René RÉMOND, La violenza, in La violenza. Atti della Settimana degli Intellettuali
Cattolici Francesi. 1-7 febbraio 1967, a cura di René RÉMOND, AVE, Roma, 1968, p. 8.
7
Per una presentazione delle diverse forme di violenza, non tralasciando quella che viene
dalle religioni, e tra queste il cattolicesimo, cfr. Vittorino ANDREOLI, La violenza. Dentro di noi,
attorno a noi, BUR, Milano, 2003.
8
La violenza si scatena, si alimenta e si propaga a partire dalle situazioni quotidiane.
Secondo l’antropologa Pat Patfoort, la radice della violenza si annida in una relazione di potere e
dominio tra due parti contrapposte, che può portare all’escalation o a situazione di concatenazione
della violenza, per cui si ha o una sua esplosione esponenziale o una propagazione verso altri
9
È necessario distinguere la violenza dall’aggressività. La violenza, infatti, ha
sempre un effetto distruttivo, consapevole o meno, nei confronti di esseri umani e/o
dell’ambiente circostante. L’aggressività, invece, può manifestarsi come
distruttività, e in questo caso è assimilabile alla violenza, ma può anche avere
carattere costruttivo e può essere orientata alla vita. In questo caso è quel drive che
alimenta l’atteggiamento assertivo e la volontà di pace.
Non esiste solo la violenza aperta, manifesta, bellicosa, ma anche quella subdola, o
quella che si nasconde dietro l’abitudine.
9
C’è la minaccia che incute timore e
quella che seduce
10
. C’è poi la violenza che determina piacere in colui che la opera:
come non dimenticare l’atteggiamento gaudente degli aguzzini di fronte ai
perseguitati delle varie guerre o i fenomeni di bullismo degli adolescenti o l’uso
oggettivante del corpo dell’altro nei casi di violenza sessuale. Dietro questi
atteggiamenti ci sta la crudeltà che arriva al sadismo, per cui si arriva al godimento
nell’illusione di potersi appropriare dell’essere altrui.
Stupisce l’affermarsi sempre più della cosiddetta “banalità del male”
11
, la violenza
senza colpa, come azione non intenzionale e priva di significato. Quando la
soggetti. Cfr. Pat PATFOORT, Difendersi senza aggredire. La potenza della nonviolenza, EGA,
Torino, 2006.
9
Secondo Johan Galtung, uno dei padri della peace research, la violenza si manifesta a
diversi livelli. C’è quella diretta, che si presenta come evento prodotto da cause e da soggetti
precisi (la guerra, la tortura, l’uccisione, la repressione), e c’è quella strutturale, quella che ha le
sue radici nelle situazioni di miseria, alienazione, ingiustizia e disuguaglianza sociale, che
impediscono alle persone di soddisfare in modo equo i propri bisogni fondamentali, senza che
apparentemente venga compiuta alcuna violenza nei loro confronti. Spesso si presenta sotto forme
più o meno celate di colonialismo di tipo economico e politico. Infine, la più subdola, ma più
invasiva, è quella culturale. È un processo diretto a plasmare le culture, che dura nel tempo,
attraverso la filosofia, l’arte, la religione e la scienza, incitando indirettamente alla violenza diretta
o strutturale. Cfr. Johan GALTUNG, Pace con mezzi pacifici. Teoria della pace, teoria del conflitto,
teoria dello sviluppo, teoria delle macroculture, Esperia, Milano, 2000, pp. 45-71.
10
Per esempio combinando i due diversi aspetti della violenza, Hitler ha preso il potere. Se
la violenza si impadronì della Germania, ciò non fu per le spedizioni punitive, ma con la seduzione
dell’ordine e della sicurezza, che attirò il gruppo della “gente bene” e delle gerarchie organizzate.
Cfr. Jean-Marie DOMENACH, Un mondo di violenza, in La violenza, p. 35.
11
La banalità del male è il titolo di un libro di Hannah Arendt, dove racconta del processo
celebrato a Gerusalemme nel 1961, a cui essa stessa ha assistito, contro Adolf Eichmann,
responsabile del Servizio centrale di sicurezza del Terzo Reich che è stato incaricato dello
sterminio degli ebrei. La Arendt esprime la sua meraviglia di trovarsi non di fronte a un mostro, a
un perverso, ma a un soggetto banalmente normale che compie la “banalità del male”. La colpisce
10
violenza diventa un modello estetico, come comportamento guidato dal gusto e si
trasforma in “spettacolo”, allora fare o vedere violenza diventa qualcosa di comune,
di banale. Per cui si rimane insensibili di fronte alle violenze più o meno manifeste.
Quando pensiamo al rapporto tra gli Stati e la violenza, pensiamo alle guerre, cioè
quando la violenza passa attraverso il potere e la sua patologia, attraverso la falsità
con cui si riesce a giustificare una distruzione persino barattando e travisando la
semantica della pace. In fondo lo sviluppo della “civiltà” umana è stata sempre
segnata da «una lotta contro la paura, lotta che si riferisce alla categoria della
minaccia […]. La minaccia rappresenta […] l’insieme dei pericoli che derivano
dall’azione ostile di altri uomini, i cosiddetti nemici. Ogni società ha immaginato
delle soluzioni al problema centrale della sicurezza»
12
. In nome di questa sicurezza
sono stati e continuano ad essere perpetrati olocausti, mentre la guerra continua ad
essere un peso infame sul significato di progresso fino ad annullarne ogni possibile
esaltazione.
2. Radici e sviluppo del pensiero sulla guerra e sulla pace
Prima di soffermarci sulla fecondità della proposta francescana e del pensiero
levinesiano crediamo che sia importante interrogarsi sull’origine della conflittualità
violenta che ha segnato il pensiero e la storia dell’Occidente.
Secondo Norberto Bobbio nel corso della storia del pensiero filosofico è stata
elaborata una grande filosofia della guerra, mentre non esisterebbe una filosofia
la sproporzione tra il male commesso e la personalità ordinaria degli esecutori. Nel libro viene
presentato Eichmann come un uomo che non riesce a cogliere il male, che ha separato la coscienza
dalla sua vita e un mero esecutore di un ordine ricevuto. Cfr. Hannah ARENDT, La banalità del
male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 2001.
12
Gaston BOUTHOUL, La pace. Tra storia e utopia, Armando, Roma, 1976, p. 45.
11
della pace.
13
Per un altro autore contemporaneo come Severino, la guerra sembra
inevitabile, perché, secondo il pensiero eracliteo, fa parte del nostro essere.
14
2.1. Il pensiero di Eraclito
Alle radici del pensiero occidentale ci sta quello greco, e non solo Socrate, Platone
ed Aristotele, ma ancor prima dello dei “Presocratici”. Tra questi Eraclito di Efeso,
con i frammenti a lui attribuiti e a noi tramandati.
Il conflitto è un concetto dominante del pensiero di Eraclito, secondo il quale gli
individui sono detti esserci o non esserci per il prevalere cieco delle forze in guerra:
«pòlemos
15
è padre di tutti [gli esseri] e re di tutti, pertanto rende gli uni dèi, gli altri
uomini, fa schiavi alcuni, gli altri liberi»
16
. Il conflitto viene presentato come prova
del temperamento degli uomini e delle loro qualità, oltre che come origine di tutte le
cose (patér) e sovrano di tutto (basiléus). È necessario per la stratificazione
gerarchica all’interno della pòlis, distinguendo i liberi dagli schiavi, gli eroi dai
comuni mortali.
17
Il conflitto diviene quindi il tribunale sulle vicende umane e della
sorte dei popoli, ma ancor prima è il principio cosmico che scandisce la dialettica
del divenire tra gli opposti.
18
«Pòlemos è l’origine poiché, nell’eterna materia
13
Cfr. Norberto BOBBIO, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna,
1997.
14
«La nostra civiltà tenta di trovare le cause e i rimedi della guerra, tenta di eliminarla […].
Ma l’impresa è impossibile. Come se uno tentasse di liberarsi della propria ombra […] diventa
possibile solo se tramonta l’anima della nostra civiltà». Emanuele SEVERINO, La guerra, Rizzoli,
Milano, 1992, p. 51.
15
Pòlemos ha primariamente il significato di conflitto, di discordia, non di guerra. Per tutti
i filosofi presocratici, i concetti non sono distinti dalle divinità che li personificano, per cui
Pòlemos è il genio della discordia. Cfr. Gaston BOUTHOUL, La pace. Tra storia e utopia, p. 91.
16
Fr. 22 B
53
DK: I Presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle
testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann DIELS e Walter KRANZ, a cura di
Giovanni REALE, Bompiani, Milano, 2006, p. 352-53.
La numerazione che seguiremo è quella Diels-Kranz, mentre in questo fr. 53 abbiamo preferito la
traduzione italiana di Marcovich. ERACLITO, Testimonianze, imitazioni e frammenti, a cura di
MARCOVICH Miroslaw et alii, Bompiani, Milano, 2007, p. 480.
17
Un eroe, o quantomeno colui che partecipava ad una guerra vinta, era oggetto di
venerazione come un dio.
18
Cfr. Giuseppe GOISIS – Lorenzo BIAGI, Il giardino di Isaia. Dal fascino della guerra
alla pienezza della pace, Concordia Sette, Pordenone, 1992, p. 37.
12
indifferenziata – il kaos nel preciso significato antico non di confusione bensì di
materia priva di qualsiasi forma modellante le diversità -, introduce le differenze,
che specificano le specie, gli enti, le condizioni umane»
19
.
Centrale è il fr. 80 dove vien detto che «bisogna sapere che il conflitto è comune [a
tutte le cose], che la giustizia è contesa e che tutto accade per contesa e necessità»
20
.
Da queste premesse sembra che, per Eraclito, la guerra sia originaria e il fine
dell’uomo, conducendo a una visione polemologica della vita sociale e della natura
umana. Tuttavia pur affermando che «tutto si genera per via di contesa, dalle cose in
contrasto nasce l’armonia più bella»
21
.
Chi si ferma all’esperienza immediata del reale, rischia di essere uno che
«dimentica dove conduce la strada»
22
. E la strada maestra porta al lògos, poiché
secondo Eraclito «comune a tutti è il pensare»
23
. Ma «sebbene il lògos sia comune a
tutti, i più vivono come se ciascuno avesse un proprio modo di pensare»
24
, portando
nell’esperienza umana la presunzione e la violenza.
25
La conoscenza piena si manifesta nell’unità degli opposti che prende le vesti di
armonìa: il lògos appartiene a un’armonia nascosta, che non si mostra ai
superficiali. Anche se il lògos è accessibile alla conoscenza, non sta sempre alla
superficie delle cose, ma si “nasconde” in ogni cosa particolare.
26
Il senso del reale non si esaurisce nell’apparenza pluralistica e conflittuale espressa
dal pòlemos; esiste un orizzonte “nascosto”, “invisibile” in cui le differenze non
19
Sergio COTTA, Dalla guerra alla pace, Rusconi, Milano, 1989, p. 53.
20
Fr. 22 B
80
DK: I Presocratici, pp. 360-361.
Secondo l’interpretazione di Giovanni Reale, il divenire per Eraclito è caratterizzato dal passaggio
da un contrario all’altro (Fr. 22 B
126
DK). «Il divenire è un continuo “conflitto dei contrari” che si
avvicendano, è una perenne lotta dell’uno contro l’altro, è una guerra perpetua. Ma poiché le cose
hanno realtà […] solo nel perenne divenire, allora, per necessaria conseguenza, il conflitto e la
guerra si rivelano, in un certo senso, come il fondamento strutturale della realtà delle cose».
Giovanni REALE, Introduzione a ERACLITO, Testimonianze, imitazioni e frammenti, p. XXVII.
21
Fr. 22 B
8
DK: I Presocratici, pp. 342-343.
22
Fr. 22 B
71
DK: I Presocratici, pp. 358-359.
23
Fr. 22 B
113
DK: I Presocratici, pp. 366-367.
24
Fr. 22 B
2
DK: I Presocratici, pp. 340-341. La traduzione è la nostra.
25
Cfr. Giorgio COLLI, La sapienza greca, vol. 3. Eraclito, Adelphi, Milano, 1996, p. 186.
26
Cfr. Fr. 22 B
54
DK: I Presocratici, pp. 352-353.
13
vengono cancellate ma riportate a convivenza dal lògos-armonìa.
27
È a questa
armonia nascosta del lògos che gli uomini devono guardare per cogliere il senso
profondo del reale. Coloro che non hanno occhi per la “superficie” del reale sono
condannati a rimanere prigionieri di un’eterna contesa, in cui c’è spazio soltanto per
il proliferare di un lògos “privato” ed individualistico.
L’interpretazione del lògos eracliteo e i suoi vari aspetti è resa incerta dal fatto che
tale dottrina è stata prevalentemente tramandata dagli stoici, i quali hanno
presumibilmente sovrapposto la loro mentalità e i loro interessi al significato
arcaico e genuinamente eracliteo del termine. Molte delle categorie e dei concetti
guida sull’essere e sulla conoscenza in Occidente hanno privilegiato le categorie del
dominio, della forza, della violenza. Vi è stato quasi un voler pensare, teorizzare,
rendendola quasi necessaria ed essenziale la guerra.
2.2. Le tappe principali delle filosofie del dominio
L’idea occidentale di pace è influenzata, oltre che dal pensiero greco, dalla
concezione romana della pace. Dal punto di vista etimologico, la parola latina pax è
più vicina al verbo pacisci che vuol dire “concludere un patto”, da cui “facciamo
pace”. La pax romana è un fatto politico, imperialista ed egoista. La parola de-
bellarre vuol dire mettere fine attraverso la vittoria: il vinto doveva affidarsi alla
generosità del popolo romano. Nell’etica e nella politica romana l’idea di pace
comportava quindi il dominio totale dell’Impero, consolidata dopo una guerra
vittoriosa.
28
27
Solo nella contesa i contrari ritrovano il proprio senso (Fr. 22 B
111
DK oppure Fr. 22 B
23
DK) ed è nell’armonia che gli opposti coincidono, per cui sia il giovane che il vecchio, sia il vivo
che il morto, lo sveglio e il dormiente convivono nella stessa persona (Fr. 22 B
88
DK).
28
Cfr. FLAVIO VEGEZIO RENATO, Epitoma rei militaris, a cura di Marco FORMISANO,
L’arte della guerra romana, BUR, Milano, 2003. La guerra sarebbe figlia della forza, e la
tranquillità dei popoli si imporrebbe sulla base di una salutare e necessaria deterrenza, capace con
la paura di incutere rispetto e dunque di propiziare la pace come non aggressione.
L’Epitoma offre un programma, prima ancora di un’organizzazione militare, di revisione culturale
sulla base della rievocazione del passato mediante la riproposizione di exempla universalmente
validi.
14
Con la nascita del pensiero politico moderno il tema della violenza acquista un
positivo statuto epistemologico e teoretico, e l’opera di Niccolò Machiavelli (1469-
1527) rappresenta eloquentemente il nuovo atteggiamento.
29
L’uomo vive
naturalmente in uno stato extrasociale «a similitudine delle bestie»
30
, per cui è
naturalmente egoista e cattivo, operando il bene solo per necessità, la quale è
misurata col termometro dell’utilità. La ragione, secondo Machiavelli, è dominata
dalle passioni, tra queste l’ambizione viene vista come causa principale dei
conflitti.
31
Di fronte a questa situazione è necessario la presenza dello Stato e, per la
“sopravvivenza” della patria, ogni mezzo, sia anche violento, senza alcun limite
morale, è permesso.
32
La violenza non si presenta come eccezione, ma come un
modo normale della politica. Machiavelli riprende le regole generali sulla guerra
indicate da Vegezio, traducendole e parafrasandole, e, ricercando una tecnica per il
potere e del potere, punta sulla politica come ruolo chiave nell’azione militare.
33
Non lontano dal pensiero di Machiavelli ci sta quello di Thomas Hobbes (1588-
1679), alla cui base ci sta una visione dell’uomo, nella prospettiva naturalistico-
sensistico, come homo homini lupus, dominato dalla passionalità vitalistico-
29
Cfr. Marco CANGIOTTI, Violenza e gnosi, in Hermeneutica 5 (1985) pp. 45-46.
30
Niccolò MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, libro I, cap. II, a cura
di Francesco BUSI, vol. 1, Salerno editrici, Roma, 2001, p. 20.
31
Cfr. Ibidem, libro I, cap. XXXVII, vol. 1, pp. 177-178.
32
«Dove si delibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna
considerazione né di giusto né di ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né
d’ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e
mantenghile la libertà». Ibidem, libro III, cap. XLI, vol. 2, p. 765.
33
Il modello che Machiavelli ha in mente è Cesare Borgia nel quale vede esprimersi le
“virtù” principali del comandante militare: la risolutezza, l’astuzia e la sagacia. Nella figura del
Principe si personifica lo Stato che ha diritto a tutto, si evoca la figura di un uomo privo di scrupoli,
di un cinismo estremo, astuto e forte nello stesso tempo, un uomo da temere. Il Principe sarà il
codice per acquistare e contenere la forza, preso in considerazione fino ai giorni nostri. Cfr. IDEM,
De Principatibus, a cura di Giorgio INGLESE, Il Principe, Einaudi, Torino, 2005.
Con Machiavelli inizia la funzione storica della violenza che, secondo le tesi avanzate da Walter
Benjamin, «ogni violenza è, come mezzo, potere che pone o che conserva il diritto». Walter
BENJAMIN, Per la critica della violenza, in IDEM, Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di
Renato SOLMI, Einaudi, Torino, 1995, p. 16.
15
egoistica, possessivo-predatoria e aggressiva.
34
Nello stesso tempo, però, sta nella
natura umana la volontà di sottrarsi alla guerra, sotto la spinta della paura della
morte violenta e dell’aggressione altrui. Sotto l’influsso di questi due principi
contraddittori l’uomo, da solo, non può che elaborare mentalmente la pace. Il
convincimento generale può portare alla costruzione della “società civile”, dello
Stato, abbandonando lo stato di natura, attraverso una rinuncia contrattuale.
35
La pace, artefatto della volontà dell’uomo e frutto del calcolo utilitario, può esistere
solo grazie all’uso della forza, infatti la condizione di reale possibilità della pace è
data dalla forza superiore che lo Stato deve avere, tale da impedire l’uso della forza
individuale, attraverso la legge. L’uomo quindi non si sottrae al dominio della
violenza in quanto essa costituisce l’anima anche della società politica. La legge
garantisce al cittadino l’autoconservazione fisica non come uomo, ma come
suddito.
36
La pace è il fine a cui tendere,
37
ma non è il primum: la guerra è primordiale, fa
parte dello stato naturale dell’uomo e la pace la limita e la regola, ma viene meno
non appena vengono meno le convenienze del calcolo utilitaristico all’interno dello
34
Secondo Hobbes gli uomini si contendono ogni cosa facendo uso della violenza, perché
sono naturalmente diffidenti l’uno verso l’altro e, sempre secondo un desiderio naturale, «ciascuno
richiede per sé l’uso di cose che sono in comune». Thomas HOBBES, De cive, a cura di Norberto
BOBBIO, Elementi filosofici sul cittadino, UTET, Torino, 1948, p. 55.
La primaria legge di natura è quella descritta da Spinoza (1632-1677) come l’immagine del pesce
grosso che mangia il pesce piccolo: «i pesci sono determinati dalla natura a nuotare, i grandi a
mangiare i più piccoli, e perciò i pesci per supremo diritto naturale si servono dell’acqua e i grandi
mangiano i più piccoli […]. Il diritto della natura si estende fin dove si estende la sua potenza […]
ciascun individuo ha il supremo diritto a tutto ciò che può, ossia che il diritto di ciascuno si estende
fin dove si estende la sua determinata potenza». Benedetto SPINOZA, Trattato teologico-politico,
XVI,1, a cura di Alessandro DINI, Bompiani, Milano, 2001, p. 517.
35
Cfr. Thomas HOBBES, De cive, pp. 147-157. Cfr. Norberto BOBBIO, Introduzione a:
Thomas HOBBES, De cive, pp. 23-25. Cfr. Sergio COTTA, Filosofia della guerra e filosofia della
pace a confronto, in La pace: sfida all’Università Cattolica. Atti del simposio fra le università
ecclesiastiche e gli istituti di studi superiori di Roma. 3-6 dicembre 1986, a cura di Franco BIFFI,
Herder-FIUC, Roma, 1988, p. 683.
36
Cfr. Marco CANGIOTTI, Violenza e gnosi, p. 47.
37
Cfr. Thomas HOBBES, De cive, p. 89.
16
Stato, dando origine alle guerre civili, o quando manca una suprema autorità
dominante sugli Stati, dando origine alle guerre interstatali.
38
Anche in G. W. F. Hegel (1770-1831) la natura umana è essenzialmente agonistica
e conflittuale e l’analisi dello storicismo idealistico si sposta dall’individuo alla
società, ai popoli e agli Stati: la storia è storia dell’inevitabile guerra dei popoli a
causa della loro reciproca alterità. La storia universale è un processo dialettico in
cui ogni nuovo regno appare con la scomparsa del precedente.
39
Lo “Spirito universale” agisce e si fa reale storicamente attraverso la particolarità
dei popoli, determinando una inevitabile opposizione. Nella dialettica hegeliana la
guerra è valore, poiché in essa e per essa si impone lo “Spirito universale”, e
attraverso essa si ha il dinamismo storico.
40
Inoltre la sua idea di progresso necessariamente orientata al maggiore, documenta
come la verità abiti sempre e soltanto il campo dei vincitori.
41
38
La pace per Hobbes procede ex negativo. È il tempo residuo a quello della guerra: «Che
cosa è la guerra, se non quel periodo di tempo in cui la volontà di contrastarsi colla violenza si
manifesta sufficientemente con le parole e con i fatti? Il tempo restante si chiama pace». Ibidem,
pp. 85-86. Cfr. IDEM, Leviatano, a cura di Raffaella SANTI, Bompiani, Milano, 2001, p. 207.
39
Egli giustifica la guerra come “momento etico” all’interno della filosofia della storia: per
suo mezzo «la salute etica dei popoli viene mantenuta», che altrimenti rischierebbe la “putredine”,
introdotta nei popoli da «una pace durevole o addirittura perpetua». Cfr. Georg Wilhelm Friedrich
HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio, a
cura di Giuliano MARINI, Laterza, Roma-Bari, 1999, pp. 256-257.
Il riferimento è alla “pace perpetua” di Immanuel Kant (1724-1804), secondo il quale è il fine
ultimo a cui tenderebbe la storia, fine da raggiungersi attraverso «una società che faccia
universalmente valere il diritto», cioè quel diritto cosmopolitico che ha la sua massima espressione
nell’ospitalità attiva e passiva (cfr. Immanuel KANT, Per la pace perpetua, a cura di Roberto
BORDIGA, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 53). Consapevole anche lui che la pace non è naturale tra gli
uomini, ma una conquista consapevole della volontà umana, vede nella guerra una manifestazione
del “disegno della saggezza suprema” e la fonte del progresso culturale. Cfr. IDEM, Critica del
giudizio, a cura di Valerio VERRA, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 250.
40
«Per evitare che l’isolamento di questi membri, mettendo radici e consolidandosi,
disgreghi il Tutto e dissolva lo Spirito, è necessario che il governo li scuota di quando in quando
con le guerre. Mediante la guerra, il governo deve turbare e sconvolgere l’ordine stabilito di tali
sistemi e il loro diritto di autonomia; quanto poi agli individui che, confidando in quell’ordine e in
quel diritto, si staccano dal Tutto e aspirano all’inviolabilità dell’essere-per-sé e alla sicurezza della
persona, il governo deve fargli sentire, mediante l’imposizione del lavoro della guerra, il loro
signore, cioè la morte». Georg Wilhelm Friedrich HEGEL, Fenomenologia dello spirito, a cura di
Vincenzo CICERO, Bompiani, Milano, 2004, p. 611.
41
Cfr. Marco CANGIOTTI, Violenza e gnosi, p. 49.