31
nazionale, intendendolo come il modello generale dell’interazione partitica
nelle varie arene e ai diversi livelli.
3.1. Dal 1945 al 1970. La democrazia maggioritaria
Dal 1945 al 1970 due distinti partiti, con il monopolio virtuale dei voti e
con alternanza al potere, hanno dominato con facilità la scena politica
britannica, garantendo, almeno all’inizio, buoni governi (Budge e McKay,
1988).
In una democrazia maggioritaria i due major party alle elezioni
raccolgono la maggior parte dei voti espressi, e conseguentemente sono in
grado di governare. C’è un two-party system nell’arena legislativa nazionale,
ma un multi-party system in quella elettorale. Perennemente collegato al one-
party majority government è stato il sistema first-past-the-post, sul quale si
sono sempre avuti dubbi – a causa della continua frammentazione – anche
sulla sua capacità di costruire una chiara maggioranza parlamentare per il
partito vincitore (Kavanagh, 1985).
Un altro fattore del bipartitismo è l’alto grado di equilibrio elettorale tra i
due partiti. Il modello competitivo è centripeto, e l’obiettivo consiste nel
conquistare le simpatie dell’elettore di centro. E proprio avere in comune
questo campo implica una grande stabilità. L’uso di toni eccessivi, infatti, è
spesso dovuto unicamente alla necessità vitale di distinguersi dagli avversari
agli occhi degli elettori. Rifiutando di dividere il successo con la concorrenza,
32
il partito vincitore, anche se dotato – in percentuale – di una maggioranza
relativa, deve dimostrare di sapere governare da solo. La possibilità
dell’alternanza al governo è fondamentale caratteristica del bipartitismo,
perché permette all’opposizione di ‘rimboccarsi le maniche’ per potersi rifare,
e dimostra la capacità critica dell’elettorato. Ma: “Lo ‘scorretto’ sistema
elettorale […] polarizza Labour e Conservatives e penalizza gravemente i
terzi partiti moderati” (Budge e McKay, 1988).
Dalla fine degli anni ’60 le crescenti difficoltà dell’economia e i tentativi
falliti di tamponare la crisi hanno posto i primi dubbi sull’efficacia del
sistema bipartitico. A questo proposito, quattro conseguenze della “adversary
politics” hanno caratterizzato le relazioni tra il governo e l’industria. In primo
luogo la tendenza, in aumento, a cambiamenti di policy. Poi la manipolazione
della economic policy per vantaggi elettorali a breve termine. Quindi
l’abbandono prematuro di policy che richiedono un approccio a lungo termine
non di tipo ‘adversarian’. Infine, la riluttanza, da parte di particolari gruppi
economici, ad accettare sacrifici (Ingle, 1989). Esiste sempre un ciclo
‘politica/business’. I governi tendono infatti a ridare fiato all’economia
appena prima delle elezioni, per aumentare la loro popolarità.
Già dopo il 1964 il two-party system mostrava segni di debolezza. Il
numero di parlamentari ‘slegati’ dal Labour o dal Conservative Party
aumentava sensibilmente. “Le stravaganze del sistema elettorale
proteggevano i partiti alla House of Commons più di quanto fossero protetti in
33
termine di voti” (Ball, 1987). Da allora aumentò il numero dei seggi
conquistati dalle minoranze, segno sia dell’aumento dei candidati che della
volontà degli elettori di scegliere partiti ‘diversi’. Spesso le elezioni
suppletive servivano come mezzo di critica al governo in vigore, e in questi
casi le fluttuazioni dal partito di maggioranza alle opposizioni raggiungevano
percentuali ragguardevoli.
La “adversarian” politics comporta il fatto che due partiti con ideologie
opposte competano e alternativamente accedano al potere tentando di
stravolgere le policy dell’avversario: “Ma questa politics rende impossibile
pianificare a medio e lungo termine? La storia insegna che all’opposizione i
partiti tendono a muoversi in direzione delle loro posizioni ideologiche
estreme, ma quando poi sono al governo si spostano verso la consensus
politics.” (Ingle, 1989).
3.2. Dagli anni ’70 ad oggi. Verso un pluralismo moderato?
Il dominio dei due major party era ormai sotto tiro, e nel 1974 nessuno di
loro riuscì ad assicurarsi una maggioranza assoluta di seggi alla House of
Common, per la prima volta dal 1929. Due a quel punto erano le possibilità.
La prima era che uno dei due partiti sarebbe stato definitivamente sostituito da
un altro, alla maniera in cui a suo tempo il Labour rimpiazzò il Liberal Party.
La seconda era che il multi-partitismo sarebbe diventato un fattore
permanente della politica britannica, soprattutto se la formazione di continui
34
‘hung Parliament’ – ovvero ‘bloccati’, senza una chiara maggioranza –
avrebbe indotto ad un cambio nel sistema elettorale (Ball, 1987).
In realtà nessuna delle due possibilità si è avverata, ma una serie di
cambiamenti ha influenzato i fattori-base della democrazia maggioritaria.
L’effetto cumulativo di tali mutamenti ha fatto sì che si mettesse in dubbio
l’effettiva ‘purezza’ del maggioritario.
Considerando il semplice criterio numerico, non si può non notare la
diminuzione della percentuale di voti raccolta dai due grandi partiti, la
mancanza di equilibrio a livello elettorale, con distacchi che – da una parte e
dall’altra – si sono fatti più netti, e l’emergere di partiti minori ‘significativi’,
in maniera particolare i Liberal Democrat (Webb, 2000).
Un secondo aspetto mutato da una trentina d’anni a questa parte è la
natura ‘unidimensionale’ della competizione partitica. La frattura di classe
non è più unica né decisiva, poiché l’agenda delle issue si è notevolmente
ampliata, diventando anche più complessa. Alle due dimensioni del
socialismo e della libertà si è aggiunta la questione dell’integrazione europea.
Altri temi ‘nuovi’ escono dai normali schemi competitivi ai quali la società
inglese – non rendendosi conto del crescente pluralismo che in essa covava
sin dagli anni ’60 – sembrava essere abituata. Il concetto di classe ha quindi
perso la sua predominanza come fonte di identità sociale.
La crescente complessità dell’agenda politica crea per i partiti problemi di
aggregazione della domanda e tende a minarne anche la coesione interna.
35
Inoltre il consueto dominio del potere esecutivo sul legislativo pare meno
garantito. Il partito che governa da solo viene infatti sottoposto a maggiori
pressioni, tanto che è stata modificata la pratica costituzionale, nel senso che
ora un voto esplicito di sfiducia comporta necessariamente le dimissioni,
ovvero, almeno finora, nuove elezioni (Webb, 2000).
Per altri versi i rapporti tra le parti restano ‘aggressivi’. L’assalto al
governo locale durante la premiership di Margaret Thatcher fu violento. Gran
parte di esso era sotto il controllo del Labour. Facendogli mancare i
finanziamenti dal centro, il governo conseguì due obiettivi. Per prima cosa ha
stretto il suo controllo sulla spesa pubblica. In secondo luogo, costringendo il
governo locale ad aumentare le quote delle tasse locali, ha consentito ad
alcuni Ministri di denunciare le autorità locali non conservatrici per “high-
spending” (Lenman, 1992). La Thatcher ritenne invece irrilevanti i problemi
di coordinamento istituzionale (Budge e McKay, 1988).
Blair, invece, nel 1997, nonostante godesse di un’ampia maggioranza, ha
deciso di mantenere l’inusuale relazione di cooperazione stabilita coi Liberal
Democrat quando entrambi i partiti erano all’opposizione, non dando alcuno
spazio ai Conservatori.
Il governo nazionale resta comunque un single-party government, ma i
partiti minori, i LibDem in testa, hanno tutti guadagnato in termini di
potenziale di coalizione, e sono quasi riusciti ad entrare nel cuore del
Westminster system.
36
A questo punto bisogna aggiungere un’ulteriore variabile, di tipo
geografico. Il sistema elettorale single-member plurality, infatti, non può
prevenire l’emersione di partiti che hanno un sostegno concentrato in alcune
zone e connesso con l’eterogeneità della società.
E proprio l’aspetto multiforme del caso inglese è diventato un laboratorio
per studiare l’impatto che avrebbero su di esso i più disparati sistemi
elettorali.
Webb (2000) parla di un “latent moderate pluralism”, categoria di
derivazione sartoriana che include da tre a cinque partiti, permette
l’alternanza al potere tra due partiti o blocchi di partiti, e conserva un moto di
tipo centripeto. E’ da notare che, se i due major party tendessero entrambi al
centro, ruberebbero una grossa fetta di voti al partito che, volente o nolente,
da sempre occupa una posizione mediana, ossia i Liberal-democratici. In un
sistema di pluralismo moderato c’è la possibilità di cooperazione tra i partiti
nelle arene legislativa ed esecutiva.
Il pluralismo moderato è latente, potenziale, proprio perché imbrigliato dal
sistema di voto della single-member plurality.
Tuttavia il passaggio da un sistema bipartitico a quello attuale non è del
tutto lineare. Bisogna anche in qualche modo tenere conto dei diciotto
ininterrotti anni di governo conservatore. Ma questo apparente dominio dei
Tory va analizzato considerando l’aspetto contingente della loro capacità nella
gestione dell’economia e lo scompiglio in cui si trovava il principale
37
antagonista (Webb, 2000). Il pluralismo era già presente, ma forse ancora
nascosto, tuttavia anche adesso, a ruoli invertiti, la situazione non sembra
molto mutata.
3.3. Le ragioni del cambiamento e i loro effetti sui partiti
A questo punto è il caso di indagare quali siano i fattori scatenanti tali
cambiamenti. La classe sociale ha continuato ad essere un elemento
importante del comportamento di voto, ma ci sono incertezze sulla
definizione del concetto stesso di classe e sulla sua attuale persistenza ed
influenza. La mobilità sociale, differenti livelli e modelli di consumo, un
sistema d’istruzione più aperto, migliori alloggi e servizi sanitari hanno eroso
la solidarietà della working-class. La misura e l’importanza di ognuno di
questi sviluppi può facilmente essere esagerata, ma sembra impossibile
ignorare il loro effetto cumulativo. I cambiamenti non sono comunque
completi né universali. Però non esistono più le condizioni per il sistema di
classi chiuse. Sotto la ‘maschera’ di un sistema bipartitico, lo scorso secolo ha
visto la Gran Bretagna amministrata soprattutto dai Conservative. Gli
interessi di classe e le ideologie tipiche dei due major party sono ormai
obsoleti e inadeguati nella moderna società inglese. La Gran Bretagna ha
bisogno di un sistema diverso di governo, un cambiamento che il two-party
system pare non poter garantire (Ingle, 1989).
A lungo termine si riscontra molta meno fedeltà al proprio tradizionale
38
partito, e le elezioni – a qualsiasi livello – sono diventate un mezzo per dare
un giudizio sul governo. Gli elettori, inoltre, sono diventati più ‘materiali’ nei
loro interessi. Infine è tutt’altro che trascurabile il ruolo dei mass-media,
principale veicolo della propaganda politica (Ball, 1987).
Si registra quindi un certo livello di disaffezione popolare, e bisogna
individuarne con precisione le cause. Si possono segnalare tre problemi che i
cittadini inglesi vivono nei confronti dei partiti politici (Webb, 2000).
Il primo è la mancanza di fiducia degli elettori. Ciò deriva dalla palese
incapacità organizzativa dei partiti, e dai molteplici episodi di corruzione
verificatisi.
Il secondo è il fatto che minoranze significative della popolazione non
credano che il partito al governo – qualunque esso sia – possa risolvere i
problemi. Due importanti aspetti della funzione di governo svolta dai partiti
politici vanno considerati, il personale e le policy. Se gli elettori dubitano che
faccia molta differenza quale partito governi, sia perché condivide con
l’avversario una serie di policy che per l’incapacità di risolvere determinati
problemi, allora si può dedurre che i partiti stiano fallendo nel rispettare una
delle loro più importanti funzioni. Partendo dalla questione del personale di
governo, bisogna notare che la penetrazione partitica nello stato inglese si è
alzata a partire dal 1960. Il reclutamento dei Ministri avviene a livello
nazionale, in quanto essi devono essere parlamentari. A livello locale, i
consiglieri indipendenti, non schierati, hanno cominciato ad avere problemi di
39
visibilità. Non si deve però dimenticare che ci sono pubblici ufficiali non
eletti che hanno fondamentali compiti nel governo delle istituzioni e nella
distribuzione delle risorse, e che vanno a formare la cosiddetta ‘quangocracy’,
acronimo di quasi-autonomous-non-governmental organization. Il secondo
aspetto del party government riguarda la policy, che teoricamente dovrebbe
scaturire da fonti del partito che possano essere chiaramente identificate e
tenute conto dalla cittadinanza. Ma ciò è messo in dubbio da alcuni fattori,
quali la fine della coesione interna al partito, il fatto che talvolta la policy del
governo sia più quella del Primo Ministro che quella del partito, e il potere del
civil service, ovvero della burocrazia. Il partito al governo è sempre abile nel
creare un’atmosfera diversa tra i funzionari pubblici. I civil servant
considerano un loro dovere quello di comportarsi nella cornice delle
disposizioni del governo (Ingle, 1989). In riferimento al problema della
accountability, una varietà di sviluppi macro-sociali può seriamente limitare
la libertà di azione autonoma di governo da parte dei partiti.
Da terzo, e ultimo, resta il tema dell’efficacia o meno delle policy nel
risolvere i problemi della nazione. Qui il discorso si fa più soggettivo, a meno
che si consideri il termine ‘efficacia’ soltanto come: “[…] la capacità, da parte
dei partiti, di sviluppare le policies presentate” (Webb, 2000).
Tradizionalmente i partiti inglesi sono riusciti a portare a termine gli impegni
elencati nei loro manifesti elettorali, ma la pressione su di essi esercitata da
alcuni gruppi rende assolutamente possibile che un party government sia
40
inefficace. In ogni caso si può comunque concludere affermando che i partiti
continuano a fornire una serie di policy alternative, ed in questo senso il loro
ruolo nel sistema politico rimane innegabilmente centrale, tuttavia essi
soffrono perché sanno di non conoscere tutte le preoccupazioni della gente
comune e di non interessarsene a fondo. Ad esempio sono forniti più servizi
pubblici, ma la loro qualità è calata. Il governo cambia costantemente
opinione, modifica i programmi e a volte stravolge la sua strategia. Ma non è
neanche del tutto vero che le domande provenienti dalla società siano così
pressanti. L’elettore ‘ordinario’ ha aspettative molto modeste e guarda
semplicemente al governo perché esso blocchi il peggioramento della
situazione. Tutte le pressioni che la macchina governativa sperimenta possono
essere attribuite alle sue difficoltà nello sviluppare policy efficaci, anche
perché il governo centrale manca di coordinazione. Il Cabinet ha poca
capacità di controllo sulle altre istituzioni, che di conseguenza, senza badare
alle priorità, tendono a sviluppare policy, e, a seguire, interessi, alternativi
(Budge e McKay, 1988).
Sorgono a questo punto una serie di dubbi. La questione del sapersi
distinguere e del mostrare le proprie peculiarità è fondamentale nella
competizione tra partiti. Nonostante, a priori, in una democrazia maggioritaria
ci si possa aspettare che i provvedimenti coincidano con le promesse fatte agli
elettori, l’Inghilterra rimane un caso particolare, e tuttavia probabilmente
ancora distante dalla consensus democracy (Webb, 2000).
41
Nella società e nella politica britanniche esistono e sono in aumento una
molteplicità di centri di potere. La presenza ‘ostruttiva’ di gruppi ed
istituzioni sovverte la tradizionale immagine del governo britannico come
centrato sull’autorità del Gabinetto, in grado di compiere qualsiasi cosa
mediante il comando del Parlamento e della burocrazia. Le responsabilità
sono accumulate da dipartimenti separati e quango senza particolare
considerazione l’uno per l’altro o per le richieste della popolazione. La
sovrapposizione delle responsabilità causa confusioni e ritardi, ma essi sono
dovuti all’incapacità del centro di farsi valere, e non al suo sovraccarico di
lavoro (Budge e McKay, 1988).
A costituire la principale sfida al governo, almeno fino al 1979, sono stati
i gruppi di interesse, ed in particolare le trade-union. A livello esterno sono
altri gli ostacoli. La relazione tra la Comunità Europea e il governo britannico
non è infatti semplice. L’autonomia dell’esecutivo è stata ridotta dalla
membership. Il più grande limite esterno è il fatto che l’Inghilterra sia una
nazione totalmente dipendente da import ed export per la sua sopravvivenza
economica. Per mostrare un chiaro esempio, tra il ’74 e il ’79 il governo
laburista dovette affrontare la crisi della sterlina sui mercati internazionali.
Una varietà di gruppi ed organizzazioni può quindi limitare le alternative a
disposizione del governo. Lo Stato britannico sembra debole, rispetto agli
altri, di fronte ai cambiamenti economici e politici. Le élite hanno infatti
stretto con altri gruppi presenti nella società dei legami che però mancano di
42
coordinazione e di direzione dal punto di vista delle policy. Quando, durante
le sempre più intense crisi degli anni ’60 e ’70, i governi tentarono di
effettuare delle riforme e di mettere in atto un controllo maggiore, il fragile
consenso coi leader dei gruppi di interesse evaporò rapidamente.
Un’idea sbagliata ma molto diffusa sul ruolo dei partiti è quella per la
quale essi sono stati creati per servire uno scopo nella politica democratica,
per fungere da canali di comunicazione tra governanti e governati, per fornire
alternative agli elettori. La verità è che i partiti si sono continuamente adattati
per andare incontro ai mutati bisogni della politica, per soddisfare le esigenze
di una democrazia sempre in via di sviluppo.
La direzione dell’economia britannica è in primo luogo infuenzata da
tendenze secolari indipendenti dai partiti e non dal movimento dei partiti
stessi dal governo all’opposizione e viceversa. Il sistema britannico è ormai
lontano dal modello “adversarial”, anzi, è forse più di tipo “consensual”,
perché i governi devono la loro posizione ad un’elezione popolare, e
l’elettorato britannico tende a posizioni di accordo piuttosto che di disaccordo
sulle issue più importanti (Ingle, 1989).
Ad accomunare le critiche ai partiti è una visione della democrazia di tipo
partecipativo, che condanna l’eccessiva fede nel potere delle élite. Una
dicotomia significativa si realizza invece tra quelli che si focalizzano sul
43
collegamento tra i partiti e l’elettorato, e quelli che guardano allo sviluppo
dell’organizzazione partitica nel tempo.
Le due dimensioni sono legate alla legittimazione popolare dei partiti da
parte degli elettori, e alla loro vitalità organizzativa. Entrambe ci dicono
qualcosa sulla forza dei partiti, ma non sono sufficienti per trarne delle
conclusioni. In un secondo tempo bisogna anche valutare l’‘utilità’ dei partiti.
Si devono trovare degli indicatori della legittimazione popolare dei partiti,
quali ad esempio possono essere la disaffezione dell’elettorato, il declino
della membership, il calo del livello di attivismo, la nascita di partiti anti-
sistema. Ma non è detto che le spiegazioni che essi possono fornire siano
univoche o per forza legate alla crescita del sentimento anti-partitico.
Invece un indicatore di una stabile legittimazione dei partiti è il turnout, la
percentuale di elettori che si recano alle urne, che è sempre rimasta agli stessi
livelli, tranne che alle recenti elezioni, in cui si è registrato un forte calo.
Inoltre manca il sostegno ai cosiddetti ‘partiti anti-partiti’, tra i quali non
rientrano certo i Liberal Democrat, che al massimo costituiscono una spinta
ad un cambiamento razionale.
Per calcolare la forza organizzativa, si devono valutare le risorse a
disposizione del partito, e la capacità di impiegarle ai fini degli scopi prefissi.
La qualità dei mezzi ha la sua importanza, ma si deve ricordare che in una
nazione così grande la quantità è bassa rispetto alla media europea. Lo stesso
discorso va fatto per i membri degli staff. Mentre i partiti a livello centrale si
44
sono consolidati, il quadro locale è in sostanziale declino. Questo però è un
punto di forza per i LibDem, che dovrebbero continuare a perseguire
l’obiettivo di una grass-root membership, evitando di farsi coinvolgere dalle
manie di ‘élitismo’, tipiche dei due major party, pur tenendo conto che un
partito moderno deve essere gestito da professionisti capaci ed esperti di
comunicazione e marketing politico. E’ infatti in questo settore che ormai
viene investita la maggior parte delle risorse finanziarie dei partiti. Il centro,
ossia gli headquarters, deve quindi svolgere un ruolo di coordinazione, e
bisogna ammettere che gli stessi Liberal Democrat si sono ‘sofisticati’ e
‘professionalizzati’, studiando ogni mezzo per guadagnare visibilità durante le
campagne elettorali (Webb, 1995).
Anche in questo senso, dunque, i partiti si stanno adattando ad una società
sempre più dominata dai mezzi di comunicazione di massa.
Partendo, con le considerazioni sull’utilità dei partiti, dai fattori che
inducono a parlare del loro declino, quali l’erosione della membership,
l’indebolimento dell’organizzazione e la minore fedeltà dell’elettorato, si
potrebbe affermare che i partiti paghino le difficoltà patite a livello di governo
e di gestione di certe policy. Ciò è legato al noto problema della cosiddetta
accountability e del peso esercitato dalla burocrazia, difficile da controllare.
Ma ha anche un legame con quello che avviene tra i gruppi parlamentari,
sempre meno coesi al loro interno, con frequenti casi di mancata disciplina di
partito. Anche l’Inghilterra, quindi, comincia a conoscere i ‘franchi tiratori’.