6
Introduzione
Il tema della perdita interessa inesorabilmente ogni essere umano che percorre il
cammino della vita: egli pare destinato, prima o poi, ad imbattersi in cambiamenti e
trasformazioni importanti della propria esistenza: il lutto, emblema della perdita, può
talvolta porsi come una sfida ardua per il soggetto, che si appella alle sue risorse
interne ed esterne per farvi fronte.
Può il lutto essere in qualche modo connesso all’utilizzo, adattivo o psicopatologico,
della dissociazione?
Il presente lavoro si propone come un approfondimento teorico e clinico concernente
la dialettica esistente tra il lutto e la dissociazione all’interno di una cornice teorica
psicoanalitica, in particolar modo quella relazionale e intersoggettiva.
Attraverso una analisi bibliografica, si prenderà in esame il pensiero dei principali
autori contemporanei che hanno posto l’attenzione alla relazione tra i due temi in
oggetto.
La tesi è strutturata in quattro capitoli: il primo capitolo tenta di definire e
contestualizzare la dissociazione analizzando storicamente le sue origini. Pur
trattandosi di un argomento rivalutato e riletto nel panorama psicoanalitico
contemporaneo e non solo, la sua scoperta risale però a tre grandi autori quali Janet,
Freud e Ferenczi. Verranno presentate le idee principali e le differenze concettuali
nella loro comprensione della dissociazione. Sarà successivamente descritta la teoria
di Van der Hart, Nijenhuis e Steele che, recuperando le idee di Janet (considerato il
padre della psicotraumatologia), propongono una suddivisione di tre tipi di
“dissociazione strutturale”: primaria, secondaria e terziaria.
Il secondo capitolo è dedicato a Mitchell e dunque alla psicoanalisi relazionale: dopo
una breve descrizione della sua personale critica al lavoro freudiano sul lutto, si
esporranno i principali concetti proposti dall’autore utili ad una interpretazione del
lutto in termini relazionali: il costrutto di “matrice relazionale”, il suo pensiero sulla
teoria dell’attaccamento e la relativa interconnessione con la perdita, i quattro livelli
gerarchici di funzionamento mentale (i Modi), il SØ ed infine il senso di colpa che può
affiorare a seguito di un lutto.
Il terzo capitolo si avvale di un romanzo di Gustaf Sobin intitolato “The Fly-Truffler”,
7
citato e commentato da Bromberg al fine di esporre le sue idee riguardo al tema della
perdita traumatica e la conseguente possibile escalation di destabilizzazione mentale.
Dal pensiero di Bromberg si passerà a quello di Frommer che sottolinea quanto sia
importante per il soggetto saper vivere negli “spazi liminali della mortalità”
giungendo ad un riconoscimento sia emozionale che intellettuale della propria morte.
Si procederà poi con un confronto del suo pensiero con quello di Sussillo, creando
così un dibattito teorico polifonico che vede come protagonisti anche altri autori quali
Glennon e Cole.
Nel quarto capitolo, infine, verrà affrontato il tema del lutto secondo la prospettiva
intersoggettiva, facendo riferimento a due autori principali. Verrà infatti presentato in
primis il pensiero di Stolorow sulla fenomenologia del trauma emozionale e della
perdita traumatica, nello specifico il concetto di “Essere-per-la-perdita”, la dimensione
di finitezza che caratterizza ogni essere umano e la dissociazione intesa come
temporalità traumatica. In secondo luogo, il contributo di Atwood diverrà utile al fine
di comprendere come un soggetto possa rischiare di precipitare nell’abisso della follia
e come la perdita di una figura significativa possa condurre ad una reazione
dissociativa.
L’elaborato terminerà focalizzando l’attenzione sul ruolo del terapeuta che, offrendo
una casa relazionale al paziente, può così permettergli di contenere ed integrare il suo
dolore, accedere ad una maggiore libertà personale ed incamminarsi verso un nuovo
percorso evolutivo di crescita.
8
1. La dissociazione: un’indagine esplorativa
1.1 I padri nobili della dissociazione
Nel panorama contemporaneo della psicoanalisi relazionale e non solo, si assiste oggi
ad una riscoperta ed a una nuova lettura riguardo al tema della dissociazione.
L’attuale rinnovato interesse non può però prescindere da opere ed autori
fondamentali quali Janet, Freud e Ferenczi, che hanno tracciato un prestigioso sentiero
volto alla comprensione della dissociazione e delle sue implicazioni cliniche.
Contributi innovativi come quello di Janet (1859-1947), sono stati per decenni
confinati in una sorta di oblio concettuale, per poi essere riesumati e riletti alla luce
delle nuove prospettive moderne; la sua opera viene infatti paragonata da Ellenberger
(1970) alla città di Pompei, sepolta sotto le ceneri, e poi fatta rinascere sotto nuove
spoglie.
Storicamente è opinione accademica condivisa far risalire la nascita della
dissociazione alla tradizione di fine ‘800 ed in particolare collocarla nel 1889 allorchØ
Pierre Janet
1
, medico oltre che filosofo, nella sua prima opera “L’Automatisme
Psychologique”, utilizza per la prima volta il termine “disaggregazione” (traduzione
italiana di “dØsagregation”), espressione che William James tradurrà l’anno successivo
col termine “dissociazione”.
Nonostante Janet risulti fortemente influenzato da Charcot
2
, e come metodo di ricerca
utilizzasse l’ipnosi, tuttavia questo suo primo libro è da considerarsi essenzialmente un
saggio di filosofia; è infatti proprio come filosofo che Janet analizza la percezione
giungendo a concepire il concetto di disaggregazione (Lapassade, 1996).
Il riconoscimento a Janet è dato dall’essersi posto controcorrente rispetto alla sua
epoca, mettendo in discussione l’idea di una unità dell’individuo e della sua coscienza,
cercando così di riflettere in termini di divisione e molteplicità.
1
Janet eredita una tradizione di ricerche e pratiche terapeutiche riconducibili a Mesmer (fine
del XVIII secolo); fonda la sua opera basandosi su un terreno teorico costituito dal magnetismo
animale con la scoperta del sonnambulismo artificiale, e la teorizzazione di Moreau (de Tours)
degli effetti dissociativi dell’hashish (Lapassade, 1996).
2
Jean Martin Charcot (1825-1893) è stato professore di neurologia alla Sorbona. ¨ noto per i
suoi studi sulla nevrosi, sull’isteria e sull’ipnosi alla clinica di Salpêtrière di Parigi, dove tra i
suoi allievi si annoverano Binet, Janet, Breuer e Freud (www.sapere.it).
9
In questo senso Janet può essere considerato il padre della dissociazione nell’ambito di
una prospettiva clinica psicoanalitica relazionale, pur non rientrando propriamente nel
movimento psicoanalitico (Albasi, 2006).
Janet è quindi considerato oggi l’iniziatore dello studio della dissociazione come
processo psicologico creatosi in relazione ad un trauma.
Per l’autore francese le esperienze traumatiche vengono vissute soggettivamente
dall’individuo, che le sperimenta e le interiorizza ma non potrà riconoscerle e
verbalizzarle successivamente.
Le emozioni, i pensieri e le cognizioni connessi al trauma, grazie all’azione della
dissociazione, vengono trasformate in “idee fisse subconsce”: risultando impossibile
per il soggetto dare un senso all’evento traumatico, tali idee possono essere definite
come “memorie” situate in una coscienza separata da quella ordinaria.
Ciò nonostante, queste idee continuano subdolamente ad agire internamente e ad
influenzare la vita, l’affettività e il comportamento del soggetto.
Tali frammenti scissi dalla coscienza, possono riemergere all’improvviso, come nei
disturbi isterici, caratterizzati dall’intrusività di ricordi traumatici che riaffiorano
all’improvviso con una reviviscenza automatica (Lingiardi, Mucci, 2014).
Il metodo teorizzato da Janet, ovvero “l’analisi psicologica”, permetterebbe di
accedere all’avvenimento traumatico all’origine delle “idee fisse subconsce” e della
sintomatologia isterica.
Il trauma agisce negativamente su due processi mentali basilari per l’autore:
l’immagazzinamento e la categorizzazione delle esperienze (Albasi, 2006).
Tali processi, in base all’intensità, durata e ripetitività del trauma, saranno invalidati e
questo porterà al venir meno della capacità di “sintesi personale”, che permette di
accedere a strutture di significato dell’esperienza.
La dissociazione per Janet è quindi in grado di degradare ed intaccare la sintesi
personale.
L’autore per spiegare il concetto di “sintesi” esordisce con una riflessione sulla
percezione, che non consiste semplicemente in una sensazione sensoriale, ma si lega a
rappresentazioni ed immagini anteriori che costituiscono l’Io.
Janet infatti afferma:
10
“Ora, abbiamo studiato accuratamente uno stato particolare degli isterici e dei nevropatici in
generale che abbiamo chiamato restringimento del campo della coscienza. Questo stato è
prodotto, nella nostra ipotesi, precisamente da una debolezza piø accentuata che
nell’ordinario della sintesi psichica; debolezza che non permette a costoro di riunire nella
stessa percezione personale un grande numero di fenomeni sensitivi che gli accadono
realmente […] L’operazione di sintesi sembra poter scegliere e collegare all’io, per
conseguenza alla coscienza personale, tanto le une quanto le altre, le sensazioni del senso
tattile come quelle del senso visivo” (Janet 1889, trad.it 1996, p. 13).
L’ipotesi formulata è quindi che la patologia isterica e i relativi fenomeni di
automatismo, si oppongano a quella funzione di sintesi che caratterizza la salute
psicologica (Lingiardi, Mucci, 2014).
Janet rifiuta quella concezione cartesiana, dicotomica tra mente e corpo, concependo
una inter-relazione tra essi (Silvestri, 2015).
I sintomi isterici sono riconducibili a frammenti della personalità scissi dalla
coscienza, che traggono la loro origine da eventi traumatici del passato.
Janet assegna dunque un ruolo fondamentale all’ambiente e quei sintomi che oggi
chiamiamo dissociativi, possono essere ricondotti a lacune relazionali ed
interpersonali presenti nel corso dello sviluppo.
La “fonction du rØel” o funzione di realtà, è il livello piø eminente della coscienza e si
rifà alla relazione tra soggetto e ambiente, implicando la capacità mentale di agire
sull’ambiente esterno e sulla realtà in base ai propri scopi.
L’analogia tra questa funzione e la capacità di mentalizzazione di Fonagy e Target
(2003) risulta altisonante, proprio in virtø del primato dato al contesto sociale e
relazionale; non stupisce che Janet fosse solito annotare la storia familiare (e come
non pensare allora anche ad eventi luttuosi?), dei suoi pazienti per creare connessioni
col disturbo mentale in essere (Lingiardi, Mucci, 2014).
La sintesi psichica permette all’uomo di adattarsi all’ambiente. L’indebolimento
dell’attività di sintesi si lega ad eventi di vita che hanno provocato nel soggetto shock
emotivi; le memorie traumatiche imprigionano il traumatizzato in una sorta di
continuo tentativo di “reazione”, che condurrà ad uno stato di esaurimento psichico, in
cui l’attività innovatrice e quella conservatrice non saranno piø in equilibrio (Ortu,
2014).
11
Per Janet la mente è organizzata dunque gerarchicamente, attraverso gradi di
organizzazione e di sintesi sempre piø complessi, da condotte automatiche fino alla
“fonction du reèl”, che permette al soggetto di adattarsi alla realtà circostante
(Silvestri, 2015).
La dissociazione in ottica Janetiana è così sempre patologica, poichØ non permette
l’integrazione dell’evento traumatico alla coscienza.
Venendo meno i processi integrativi, anche la memoria risulta compromessa, e tale
memoria traumatica rimarrà immutabile nel tempo, sotto forma di idee fisse subconsce
e di processi procedurali.
Anche Freud inizialmente fu influenzato dalle idee di Charcot e dallo stesso Janet,
infatti in “Studi sull’isteria” (Breuer, Freud, 1892-95), compare il concetto di
dissociazione (Albasi, 2006).
Osservando i suoi pazienti, Freud si chiede come sia possibile che, sotto ipnosi,
ricordassero fatti e contenuti dapprima inaccessibili alla mente durante lo stato di
veglia.
Da un punto di vista epistemologico la risposta dell’autore piø confacente a questo
quesito potrebbe essere costituita dalla presenza di una sorta di doppia coscienza che
implica, se pur in modo contraddittorio, un “sapere e non sapere” allo stesso tempo.
Il concetto di doppia coscienza all’epoca si legava all’uso dell’ipnosi su pazienti
ritenuti isterici, ritenuti maggiormente suscettibili alla pratica ipnotica.
Tali pazienti erano infatti, per definizione, coloro che manifestavano la realtà della
doppia coscienza meglio di altri (Kilborne, 2014).
L’ipotesi a cui Freud giunge è quindi che alla base dell’insorgenza dell’isteria, vi sia
una dissociazione di due differenti stati di coscienza.
In ogni caso di isteria sussiste, se pur con una modalità rudimentale, una condizione di
“double conscience”.
Lo “stato ipnoide” è infatti dato da contenuti mentali che non hanno alcuna
connessione fra loro.
Nell’opera scritta insieme a Breuer (1892-95), Freud riconosce due modelli distinti:
nei modelli topografici viene strutturalmente impedito l’accesso alla coscienza a
contenuti conflittuali, a differenza dei modelli basati sulla dissociazione di nuclei di
significato, che possono alternarsi nella coscienza (Albasi, 2006).