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INTRODUZIONE
Il presente elaborato si propone di analizzare la devianza minorile, fenomeno
caratterizzato da una certa complessità sia per la sua definizione sia per l’identificazione
dei fattori che contribuiscono al suo sviluppo in quanto ampiamente studiato in vari
ambiti disciplinari e, quindi, soggetto a molteplici interpretazioni e prospettive.
Proprio per questo, ci si propone di considerare l’ampia gamma di letteratura presente
sull’argomento, in modo da definire un quadro complessivo quanto più chiaro possibile
e identificare quei fattori su cui bisognerebbe puntare per un’azione di intervento e/o di
prevenzione.
Nel primo capitolo, infatti, sarà affrontato il fenomeno nel suo complesso: dalle varie
definizioni sviluppatesi in ambiti di studio quali antropologia, biologia, psicologia,
psichiatria, sociologia e criminologia, alla distinzione fatta tra le varie tipologie di
devianza esistenti. Nello specifico, sarà preso in analisi un approccio critico spesso
messo da parte, ossia quello secondo cui la devianza può adempiere a delle funzioni non
solo negative e distruttive, bensì anche positive e produttive per la struttura sociale
generale. Infine, saranno identificati i fattori principali che contribuiscono
all’insorgenza di un comportamento deviante.
Nel secondo capitolo ci si focalizzerà, invece, sull’intervento di tipo comunitario
previsto per i minori sottoposti a misure cautelari. Esso non fungerà esclusivamente da
analisi bibliografica, ma anche da raccolta di riflessioni derivanti da osservazioni
partecipanti eseguite durante la mia esperienza di stage formativo, svoltosi in una
comunità-alloggio per minori, con l’obiettivo di comprendere appieno i programmi
educativi di intervento previsti per i soggetti considerati devianti e di identificare
eventuali punti deboli al suo interno.
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CAPITOLO 1
La devianza
1.1 La devianza e le sue definizioni nel corso del tempo.
Volendo dare una definizione di devianza, già a partire dalla letteratura classica si nota
quanto sia difficile assumere una prospettiva univoca; difatti, la devianza è stata studiata
in così tanti ambiti disciplinari che il processo di comprensione di questo fenomeno
risulta essere complesso (Cioban et al., 2021).
Attualmente al termine “devianza” si possono attribuire tre significati differenti, a
seconda della prospettiva che si intende far prevalere; essa viene descritta come:
1. un comportamento che viola regole e norme di un sistema sociale e, per questo,
viene valutato negativamente (Marotta, 2017), disapprovato e, spesso, anche
condannato o con l’emarginazione da parte del gruppo di appartenenza o con
sanzioni sociali di vario tipo (Bagnasco et al., 2007);
2. una anormalità statistica, ossia “la somma dei quadrati delle differenze tra i
valori della serie e la loro media” (Gnisci, 2019), e ciò significa che essa
corrisponde ad un comportamento anomalo poiché si discosta dalla media dei
comportamenti standardizzati (Carrucciu, 2021);
3. un atto che produce una certa reazione sociale poiché discordante con le
aspettative (Marotta, 2017).
Una definizione comprensiva delle tre appena citate potrebbe, quindi, partire dal fatto
che il comportamento deviante non si spiega se non lo si mette in relazione al suo
opposto, ossia il comportamento normale; quest’ultimo corrisponde a quel
comportamento che viene messo in atto dalla maggioranza delle persone in un dato
contesto, diventando “una mera consuetudine, che può riguardare modi di vivere o di
agire, lo stato di salute fisica o mentale e, ancora, situazioni generali di carattere
sociale, politico, comunitario” (Carrucciu, 2021, p. 8) e che genera delle aspettative.
Tuttavia, bisogna tenere presente il fatto che un comportamento considerato deviante
può essere al contempo molto diffuso tra i comportamenti attuati dalla popolazione; di
conseguenza, quando ci si discosta da un pattern di comportamenti “normali”, la
produzione di una reazione sociale non avverrà sempre in modo automatico, ma
emergerà a seguito del verificarsi di specifici elementi quali, ad esempio, l’appartenenza
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dell’autore di quei comportamenti ad un gruppo stigmatizzato o, semplicemente, il suo
modo di vestire ed il suo atteggiamento generale che danno un’impressione tipicamente
negativa agli spettatori di tali azioni (Balloni et al., 2004).
Tale reazione sociale può essere di tipo formale -ossia esercitata da parte delle
istituzioni- o informale -vale a dire esercitata dagli individui appartenenti a quella
maggioranza che attua comportamenti dai quali ci si è allontanati- (Carrucciu, 2021).
Bisogna, inoltre, specificare una distinzione che viene fatta tra devianza e delinquenza,
spesso erroneamente viste come sinonimi: il soggetto deviante è una persona che viola
le norme socialmente accettate, mentre quello delinquente viola le norme giuridiche
(Marotta, 2017; Carrucciu, 2021); quindi, il delinquente è anche un deviante, ma non è
sempre vero il contrario, e ciò è appurato indipendentemente dalla definizione che viene
attribuita alla devianza. Rispetto alle definizioni usate oggi, nel presente paragrafo
saranno descritti i principali approcci che hanno tentato di dare una forma chiara a
questo fenomeno e di identificare i fattori che contribuiscono alla sua attuazione.
1.1.1 Gli approcci bio-antropologico e neuroscientifico
Il primo approccio da osservare è quello bio-antropologico, col quale si considera la
devianza come “un’anomalia comportamentale pre-condizionata da degenerazioni
intrinseche o acquisite causate da disturbi mentali, fisici o fisiologici” (Savić &
Stanković, 2016, p. 181), per cui sarebbero i fattori biologici e genetici a determinare
un’inferiorità mentale e fisica che, a sua volta, causa l’incapacità di apprendere e
seguire le regole e, quindi, contribuisce all’attuazione di comportamenti devianti (Nalah
& Ishaya, 2013).
Tale punto di vista è riscontrabile già all’interno della teoria proposta dal medico
positivista Cesare Lombroso che, partendo dalla teoria dell’evoluzione di Darwin, vede
il criminale come un essere atavico, arretrato rispetto alla linea evolutiva e caratterizzato
da stigmate criminali -tratti somatici simili agli animali come, per esempio, peluria
eccessiva, orecchie e naso grandi o mascella sporgente-, che compie azioni un tempo
necessarie alla sopravvivenza ma ora considerate devianti (Botelho & Gonçalves, 2016).
Come è prevedibile, sono stati numerosi gli studi capaci di confutare quanto affermato
da Lombroso, ma questa prospettiva è stata cruciale per lo sviluppo di altre teorie bio-
antropologiche che hanno tentato di trovare una relazione tra delittuosità e costituzione
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fisica del delinquente; tra queste, vi sono le teorie costituzionali sviluppate da Ernst
Kretschmer e William Herbert Sheldon, con cui si nota il tentativo di collegare i
comportamenti a delle condizioni oggettive del corpo (Anderson et al., 2010).
Kretschmer propone una classificazione delle costituzioni fisiche parlando di: fisico
astenico, vale a dire snello, esile e delicato; fisico atletico, quindi muscoloso; e fisico
picnico, cioè più tozzo e grasso. Ad ognuno di questi corpi corrisponderebbe un certo
temperamento, per cui vi saranno una persona astenica tendenzialmente riservata e
rigida, un soggetto atletico più equilibrato ma irritabile, e una persona picnica più
allegra e socievole (Kim & Noble, 2014; Marotta, 2017). Dunque, l’autore sostiene che
proprio il tipo di corpo influenzerebbe il comportamento e sarebbe, quindi, la causa di
un’eventuale attuazione di comportamenti devianti (Anderson et al., 2010); nello
specifico, tramite diverse osservazioni condotte, le persone con un fisico astenico sin da
giovani hanno un maggiore rischio di sviluppare schizofrenia e di commettere furti e
truffe, quelle con un fisico atletico sono più inclini ad effettuare truffe o frodi, mentre
quelle con un fisico picnico tenderebbero a sviluppare un disturbo maniaco-depressivo e
a commettere delitti sessuali e in generale contro la persona (Balloni et al., 2013).
Sulla scia di quanto affermato da Kretschmer, anche Sheldon condivide una
classificazione dei corpi in somatotipi, utilizzando i termini: ectomorfo, corrispondente
al fisico astenico; mesomorfo, cioè atletico; ed endomorfo, equivalente al fisico picnico
(Kim & Noble, 2014). Anche in questo caso ciascun somatotipo è legato ad un certo
temperamento e viene utilizzato per spiegare la devianza e, in aggiunta a quanto già
osservato da Kretschmer, Sheldon intuisce che i soggetti mesomorfi sarebbero quelli più
inclini a commettere atti delinquenziali in generale (Kim & Noble, 2014).
Questa concezione di un legame esistente tra il comportamento deviante ed i tratti
individuali innati prende molto spunto dagli studi condotti negli ambiti della
fisiognomica e della frenologia sviluppatesi tra il XVIII ed il XIX secolo ossia,
rispettivamente, della “valutazione di una persona basata sull’aspetto esteriore” e della
“valutazione di una persona basata sulla misurazione del cranio” (Di Lorito et al.,
2017, p. 57); tali tipologie di valutazioni, però, furono ancora più influenti nei confronti
delle neuroscienze, con le quali si cerca di comprendere le interazioni tra fattori
biologici e psicologici che contribuiscono a sviluppare un comportamento antisociale.
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Tra i contributi più importanti si riconosce, innanzitutto, quello apportato da Franz
Joseph Gall e, in particolare, dalla sua teoria delle localizzazioni cerebrali, secondo cui
le varie funzioni psichiche, come l’intelletto ed il comportamento, dipendono da
determinate regioni del cervello (Temkin, 1947); per cui, dopo aver identificato 27 aree
cerebrali -di cui 19 condivise dagli uomini con il resto delle specie animali e 8
esclusivamente umane-, Gall ipotizza una correlazione tra la forma del cranio, le facoltà
intellettuali e le disposizioni morali dell’individuo (Temkin, 1947), dunque
l’aggressività ed il comportamento deviante scaturirebbero da una dimensione eccessiva
ed osservabile di zone craniche specifiche.
Partendo da queste ipotesi e dagli studi condotti da Papez sul sistema limbico, il
neurologo Paul Donald MacLean elabora la teoria del cervello tripartito, sostenendo
l’esistenza di tre zone cerebrali sviluppatesi in diversi momenti del ciclo evolutivo e
aventi funzioni gradualmente più raffinate (Marotta, 2017):
1. il complesso rettiliano, la parte più antica, rigida e profonda costituita da tronco
cerebrale e cervelletto, e capace di gestire le funzioni ed i bisogni vitali quali la
frequenza cardiaca, la respirazione e la temperatura corporea, per cui è
fondamentale per la stessa sopravvivenza dell’organismo (D’Aleisio, 2017);
2. il sistema limbico, apparso nei primi mammiferi, situato nel lobo temporale e
comprendente strutture cruciali per la regolazione emotiva quali l’amigdala,
l’ipotalamo, l’ippocampo, il talamo, il setto ed il bulbo olfattivi, il fornice, i
corpi mammillari e il giro del cingolo (Bear et al., 2015); inoltre, questa zona è
importante per la memorizzazione e l’apprendimento di comportamenti
piacevoli o meno, così da fornire una risposta adeguata alla situazione;
3. la neocorteccia, più recente ed esterna rispetto alle precedenti, consente il
ragionamento logico, il linguaggio, l’anticipazione di azioni future e, quindi, il
processo decisionale (D’Aleisio, 2017); sarebbe proprio a partire da questa zona
(e dai processi decisionali che ne derivano) che vengono prodotti anche i
comportamenti devianti.
Successivamente, gli studi neuroscientifici si sono focalizzati sull’influenza del DNA e,
quindi, sull’analisi di ogni singolo gene presente in esso, per identificare eventuali
anomalie, squilibri o predisposizioni individuali responsabili di comportamenti