3
Introduzione.
Conosciamo l’Islam prevalentemente attraverso le notizie e le informazioni che
provengono dai mezzi di comunicazione. Sui giornali e sugli schermi l’Islam appare
in genere aggressivo, intransigente, una religione i cui fedeli non esitano a ricorrere
alla violenza in difesa delle proprie convinzioni e per imporre la propria volontà.
Di qui l’enfatizzazione delle norme della shari‘a, fino a giungere all’orrore di
decapitazioni, lapidazioni, oppressione e inferiorità giuridica della donna. Di qui la
paura e il terrore che nascono da questa immagine “mediatica”, quella appunto di un
Islam militante e fondamentalista che al grido di “Allah akbar” colpisce
indiscriminatamente e con tanta ferocia vite innocenti e che, pertanto, costituisce una
minaccia per l’ordine mondiale. Ma la spirale di violenza che proietta questo Islam
sui mass media è in contrasto con quella grande maggioranza dei musulmani che
vive invece in silenzio e con profonda pietà la propria fede, con un sincero senso di
umanità nel cuore, che condanna e non capisce le fiammate di violenza dei
fondamentalisti e che anzi le subisce.
Bisogna infatti convenire sul fatto che il terribile evento del settembre 2001, gli
eventi bellici successivi e la recrudescenza degli attentati e degli atti terroristici non
hanno certamente giovato alla causa della comprensione e della distensione tra
l’Occidente e l’Oriente. Tuttavia, se da una parte hanno promosso una politica di
scontro basata sull’infelice teorizzazione riassunta nella formula di “guerra
preventiva” contro gli “Stati canaglia” appartenenti all’“asse del male”, tanto da far
(ri)parlare di “scontro tra civiltà”, dall’altra hanno provocato una necessaria presa di
coscienza all’interno dell’Islam, di una più marcata e netta distinzione tra un’opzione
pacifica e di convivenza integrata ed un’opzione di lotta a tutto campo, di “jihad” nei
confronti dell’Occidente.
L’Islam, diversamente da quanto a volte si legge e si sente, non è infatti una realtà
compatta e monolitica. All’interno di una visione unitaria che si muove intorno ad
alcuni principi irrinunciabili, l’Islam è caratterizzato da una certa flessibilità. E’
incontrovertibile il fatto che l’Islam dell’ayatollah al-Sistani, giusto per citare
qualche esempio dei giorni nostri, è lontano da quello dell’imam al-Sadr, e che
quest’ultimo differisca a sua volta anche da quello del terrorista al-Zarqaui
che, secondo una interessante classificazione fatta da Hamadi Redissi, docente
di Scienze Politiche all’Università di Tunisi, apparterebbe ad un
fondamentalismo di terzo tipo
1
.
Proprio per favorire il dialogo e per affrontare con successo la sfida della
convivenza, senza cadere erroneamente in questo tipo di generalizzazioni e di
falsi ideologici, è indispensabile distinguere tra chi vuole una convivenza
multireligiosa e multiculturale e chi invece abbraccia il mito del fondamentalismo e
dello scontro; tra chi vive la fede religiosa come uno strumento e un momento di
comunicazione, di convivenza con gli altri che professano anche altre fedi religiose,
e chi invece strumentalizza la religione per legittimare violenze del tutto prive di
razionalità politica disprezzando il “formalismo democratico”, dimenticando che è
1
Cfr. H. REDISSI, Verso un fondamentalismo del terzo tipo?, in «Diritto & questioni pubbliche», n.
2, agosto 2002, pp. 187-194.
4
senz’altro preferibile «un sistema con regole certe ed esiti incerti a un sistema con
esiti “certi” (“l’ordine nuovo”, la “società perfetta”)»
2
.
Questa aspra contrapposizione che ha radici lontane, si inserisce in un quadro di
profondo smarrimento e disorientamento in cui il mondo musulmano si dibatte oggi
più di ieri.
L’Islam, la seconda religione mondiale per numero di fedeli, vive infatti una
profonda crisi non solo religiosa, ma anche culturale e politica, oltre che economica.
I popoli a maggioranza musulmana stanno in gran parte vivendo il dramma della
decolonizzazione, con tutti i sussulti che essa comporta.
L’Islam non è infatti soltanto una religione ma è anche una cultura che si sente
minacciata da una modernità occidentale che non è in grado di comprendere, che
scardina principi e norme di vita funzionanti immutati per secoli e che rischiano di
essere stravolti e travolti.
La cultura religiosa, civile e politica del successo –“voi siete la migliore comunità
che Dio abbia suscitato tra gli uomini”
3
-, che è uno dei principi cardine per la
comunità dei musulmani, soffre di fronte al “ritardo economico” che l’ha confinata ai
margini delle società che contano nel mondo, fondate invece sullo sviluppo
industriale ed economico e su di una politica del profitto che le strutture culturali e
religiose del mondo musulmano non sono in grado di sopportare.
A questo si aggiunge il fatto che l’Islam è più rappresentato proprio in paesi, come
l’area del Nord Africa, del Medio Oriente e dell’Asia centrale e meridionale, in cui si
concentrano gran parte delle materie prime sulle quali è fondata la ricchezza del
nostro mondo occidentale.
A tal proposito vale la pena ricordare che in queste aree giace il 61% delle riserve
mondiali di greggio. Negli ultimi 25 anni parte dei paesi appartenenti a queste zone,
grazie al petrolio estratto dal loro sottosuolo, hanno incassato circa 25.500 miliardi di
dollari; soldi spesi poco e male per lo sviluppo delle popolazioni se pensiamo che
una persona su cinque è costretta a vivere con meno di due dollari al giorno e che vi
sono 65 milioni di analfabeti di cui i 2/3 è composto da donne
4
.
La disuguaglianza di condizioni materiali tra i paesi e le classi dirigenziali al potere e
la loro incapacità gestionale, contribuiscono ad accrescere la gravità dei problemi
con i quali il mondo musulmano deve confrontarsi; problemi che diventano vere e
proprie emergenze umanitarie di fronte alle ripetute violazioni dei diritti e delle
libertà fondamentali, al succedersi di guerre esterne ed interne e alla violenza
endemica.
Pertanto, in questo lavoro, tenendo conto delle difficoltà teoriche e pratiche nel
misurarsi con questo tema, ci si chiede se effettivamente questi problemi possano o
meno trovare soluzioni politiche ragionevoli mediante la diffusione dei principi e
delle pratiche democratiche. In tal senso ci si interroga sulla possibilità che gli
schemi, i modelli e le categorie della democrazia, così come si sono sviluppati in
Occidente, siano adeguati ad interpretare le esigenze di governo dei paesi arabo-
musulmani; risultato che data la complessità che caratterizza il “fenomeno Islam”
difficilmente potrà ottenersi con l’uso indiscriminato della forza militare.
Si crede piuttosto che questo “scontro tra civiltà” debba essere combattuto con armi
culturali e, innanzitutto, con la politica, quale strumento di mediazione non militare
2
E. COLLOTTI PISCHEL, La democrazia degli altri, F. Angeli, Milano, 1996, pag. 12.
3
A. BAUSANI, Il Corano, BUR, Milano, 1999. Cfr. Corano III, 110.
4
http://www.un.org/esa/stats.html
5
dei conflitti, grande assente nella scena internazionale di oggi. Da qui la necessità di
una distinzione tra i due Occidenti; quello europeo, e di influenza europea, e quello
statunitense, e di influenza statunitense, alleati, uniti da una storia comune, ma
distinti nelle identità e diversi in alcuni valori fondamentali e negli stili di vita
5
.
Prima ancora di sostenere la tesi di una democrazia da “esportare” ed eventualmente
di trovare una soluzione alternativa al “dissolvimento” della cultura islamica in
quella occidentale, bisogna infatti stabilire se l’Islam, secondo la sua concezione
classica, possa ammettere, in linea di principio, il concetto occidentale di
democrazia.
Partendo proprio dalla definizione di quest’ultima, elaborata facendo ricorso a
specifiche categorie concettuali (descrittiva/prescrittiva, formale/sostanziale, ecc.), e
dalla ricostruzione dei principi etico-politici dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali nella storia occidentale, abbiamo tentato di esaminare il “codice
genetico” dell’Islam, cioè il periodo e il modo in cui si è formato e che ha segnato il
suo sviluppo successivo; le forme di resistenza religiose e culturali che ostacolano la
“transizione istituzionale” verso i sistemi democratici; il legame spirituale-temporale
nell’Islam; la nascita dello Stato islamico, soffermando in particolare l’attenzione
sulle forme di legittimazione del potere e, principalmente, sulla teoria della
“sovranità divina” (hakimiyyat Allah) che comporta alcune importanti distorsioni in
campo giuridico-politico.
Abbiamo inoltre analizzato, facendo sempre riferimento alla dottrina islamica
classica, le forme di legittimazione “democratica” del potere, la shura e la bay‘a, due
concetti che dimostrerebbero la natura democratica dell’Islam e che, pertanto,
ridurrebbero il divario tra la concezione islamica e quella occidentale sull’origine del
potere.
Infine, dopo aver esposto i risultati (deludenti) del dibattito interno al mondo
musulmano riguardo i diritti dell’uomo, abbiamo illustrato, brevemente, il pensiero
politico musulmano con particolare riguardo al pensiero radicale contemporaneo (al-
Banna, Qutb, Mawdudi e Khomeini) e al pensiero riformista dell’attuale Presidente
della Repubblica islamica iraniana Mohammad Khatami.
Dimostrare che è possibile conciliare l’Islam con i valori democratici o che è
ipotizzabile la creazione di una “democrazia islamica”, presuppone infatti una
puntualizzazione, una distinzione tra ciò che la “convivenza democratica” in linea di
principio include, la religione islamica, e ciò che al contrario essa rifiuta, l’islamismo
radicale, vale a dire la trasformazione dell’Islam in una ideologia politica che opera
una sorta di chiusura dogmatica e regressiva che finisce per inibire la critica,
censurare il dissenso e sopprimere qualsiasi opposizione.
In breve, più che indicare una risposta alla tragica vicenda di cui al giorno d’oggi
siamo involontariamente testimoni, abbiamo voluto evidenziare qui che senza
un’adeguata conoscenza delle peculiarità di questa confessione religiosa, di questa
orgogliosa civiltà, non è possibile da un lato elaborare soluzioni soddisfacenti e,
dall’altro, eliminare il pregiudizio che rischia di trasformare il XXI secolo in un
secolo di scontri, scontri per l’appunto prodotti anche dall’ignoranza.
5
M. KHATAMI, Religione, libertà e democrazia, Laterza, Bari, 1999, pag. 14.
6
7
CAPITOLO PRIMO
DEFINIZIONE DI DEMOCRAZIA
Sommario: 1.1 Introduzione. -1.2 La democrazia ateniese. -1.3 Il modello ideale: la democrazia
rousseauiana. -1.4 I caratteri generali della rappresentanza politica. -1.5 Il modello descrittivo:
l’elitismo democratico. -1.6 I due aspetti della democrazia: formale e sostanziale. -1.7 La libertà
liberale del liberalismo e la libertà democratica del democraticismo a confronto. -1.8 La liberal-
democrazia e il personalismo politico.
8
9
CAPITOLO PRIMO
DEFINIZIONE DI DEMOCRAZIA
1.1 Introduzione.
Dall’età classica ad oggi il termine «democrazia» è sempre stato adoperato per
designare una delle forme di governo, uno dei diversi modi con cui può essere
esercitato il potere politico. Sotto il profilo etimologico «democrazia» significa
«potere del popolo» (demos + kratos). Nel lessico politico dell’antica Grecia
l’espressione indicava un tipo particolare di sistema politico diverso tanto dalla
monarchia quanto dall’aristocrazia. La distinzione si basava su un criterio meramente
quantitativo: il numero di coloro cui spettava l’esercizio del potere supremo; uno
nella monarchia, pochi nell’aristocrazia, molti nella democrazia
6
.
Affermare che «il potere è del popolo» significa definire la democrazia ancorandola
al suo significato etimologico e, al tempo stesso, significa stabilire una concezione
sulle fonti e sulla legittimità del potere. Come teoria sulle fonti e sulla titolarità
«legittimante» del potere, il termine «democrazia» indica qual è il significato di ciò
che pretendiamo e ci attendiamo dagli ordinamenti democratici. In un regime
democratico, infatti, il potere è legittimo solo se investito dal basso, solo se è
un’emanazione della volontà popolare e cioè, in concreto, se e in quanto liberamente
consentito
7
.
Il potere, infatti, o ascende dal basso verso l’alto o discende dall’alto verso il basso.
Secondo questo principio sono democratiche quindi, quelle forme di governo in cui
le leggi sono fatte da coloro a cui sono rivolte secondo la massima quod omnes tangit
ab omnibus approbari debet («quel che tocca a tutti deve essere approvato da
tutti»)
8
; autocratiche, invece, quelle in cui coloro che fanno le leggi sono diversi da
coloro a cui sono destinate.
6
V. MURA, Categorie della politica: elementi per una teoria generale, G. Giappichelli, Torino,
1997, pp. 304-305. Per Platone e Aristotele la democrazia era una forma corrotta o degenerata di
governo. Delle cinque forme di governo descritte da Platone nella Repubblica, aristocrazia,
timocrazia, oligarchia, democrazia, tirannide, una sola, l’aristocrazia, è buona, mentre della
democrazia si dice che «nasce quando i poveri […] ammazzano alcuni avversari, altri ne cacciano in
esilio e dividono con i rimanenti, a condizioni di parità, il governo e le cariche pubbliche, e queste vi
sono determinate per lo più col sorteggio», ed è caratterizzata dalla licenza e dalla sregolatezza. Lo
stesso Platone nel Politico definisce la democrazia come “governo dei molti” o “della moltitudine”
affermando inoltre che «sotto ogni aspetto è fiacca, e non combina gran ché di buono né di dannoso,
in paragone dell’altre forme, perché in essa sono sminuzzati i poteri in piccole frazioni, tra molti.
Perciò di tutte le varie forme legali, è questa la più infelice, mentre di tutte quante sono contro la
legge, è la migliore […]». Nella tipologia aristotelica, che distingue tre forme pure e tre forme
corrotte, secondo il criterio in base al quale colui che detiene il potere governa nell’interesse generale
o nell’interesse proprio, la democrazia o “governo della moltitudine” rappresenta una delle tre forme
corrotte di governo, la quale viene definita come il governo a vantaggio dei poveri e contrapposta al
governo a vantaggio del monarca (tirannide) e al governo a vantaggio dei ricchi (oligarchia).
7
G. SARTORI, Democrazia: cosa e’, Rizzoli, Milano, 1993, pag. 30.
8
E. GREBLO, Democrazia, Il Mulino, Bologna, 2000, pag. 41.
10
Il termine «democrazia» non ha però un significato univoco, per questo motivo si
presta a costruzioni interpretative diverse e spesso contrastanti.
La democrazia è infatti un fenomeno complesso, la cui analisi ha impegnato nel
corso del tempo i filosofi, i quali propongono modelli ideali di democrazia; gli
storici, che ne analizzano lo sviluppo, l’ascesa e il declino; i politologi, che tentano
una spiegazione empirica delle condizioni della sua affermazione, del suo
mantenimento, del suo funzionamento, della sua diffusione.
La problematica relativa a che cosa sia una democrazia richiede una necessaria
puntualizzazione che deve essere tenuta in considerazione come sfondo per la sua
definizione. Questa prima precisazione riguarda la distanza esistente tra quelle che
sono le sue teorizzazioni, cioè gli ideali formulati dalla teoria democratica
(dimensione prescrittiva) e le democrazie dette «reali», cioè le pratiche prodotte dai
regimi democratici (dimensione descrittiva).
La democrazia ha quindi in primo luogo una definizione normativa strettamente
connessa all’etimologia del termine, ma non ne consegue che il dover essere della
democrazia sia la democrazia e che l’ideale democratico definisca la realtà
democratica
9
.
Pertanto il discorso teorico sulla democrazia può essere agevolmente affrontato
ricorrendo all’impiego di due differenti tipi di modello: prescrittivi e descrittivi.
I modelli prescrittivi o ideali, quelli cioè che si collocano in una prospettiva
prescrittiva e il cui referente costante è rappresentato dalla teoria di Jean-Jacques
Rousseau (1712-1778), muovono dall’individuazione di un principio etico-politico
inteso come fine ultimo o valore primario da promuovere, realizzare o tutelare, ed
intorno a questo principio costruiscono gli elementi portanti di un sistema ideale. La
loro funzione è quella di far prendere posizione ed eventualmente di indurre ad agire
per cambiare o conservare la realtà.
I modelli descrittivi o realistici, al contrario, di cui l’esempio più significativo è
costituito dalla teoria formulata da Joseph Schumpeter (1883-1950), puntano ad
evidenziare le proprietà effettive dei sistemi reali e a descriverne e spiegarne il
funzionamento. La loro funzione è quella di aiutare a capire la realtà
10
.
Andando oltre questa ripartizione, si deve ricordare che l’esperienza storica ha
prodotto e collaudato due tipi di democrazia: la democrazia diretta, vale a dire la
democrazia come partecipazione, e la democrazia indiretta, vale a dire la democrazia
rappresentativa
11
. La sovranità risiede nel popolo che esercita i suoi poteri o
direttamente (democrazia diretta), o per mezzo delle persone e degli organi che
elegge per rappresentarlo, vale a dire un corpo politico rappresentativo (democrazia
rappresentativa).
La prima è un esercizio in proprio e, in questo senso, diretto del potere, cioè non vi è
scissione fra titolarità ed esercizio del potere sovrano e si parla propriamente di
autogoverno, laddove la seconda è un sistema di controllo e di limitazione del potere
in quanto la funzione di governo è delegata ed il popolo si limita a nominare i
governanti e ad esercitare appunto il controllo sul loro operato.
9
G. SARTORI, op. cit., pag. 12.
10
V. MURA, op .cit., pag. 401. Mura rileva anche che né i modelli prescrittivi della democrazia
possono totalmente prescindere da ogni riferimento alla realtà effettuale, né quelli descrittivi possono
prescindere da assunzioni, sia pure implicite, di tipo assiologico o comunque da un riferimento ad un
modello ideale nel momento della definizione convenzionale dell’oggetto.
11
G. SARTORI, op. cit., pag. 141.
11
Nel primo caso un regime democratico è fondato sulla partecipazione dei cittadini al
governo delle loro città: è la democrazia della polis e delle sue imitazioni medioevali.
Nel secondo caso un regime democratico è invece affidato ai meccanismi
rappresentativi di trasmissione del potere
12
.
1.2 La democrazia ateniese.
La democrazia diretta è la democrazia senza rappresentanti e senza rappresentanza,
che convenzionalmente costituisce il tratto distintivo della democrazia ateniese.
L’esperienza politica realizzatasi nell’antica Grecia, e più precisamente ad Atene nel
corso del V e IV secolo a.C., rappresenta il punto di partenza per cogliere il concetto
di democrazia.
La democrazia ateniese è un sistema complesso e ben articolato sotto il profilo
funzionale, un sistema che esalta i principi della libertà di parola (isogoria) e
dell’uguaglianza di fronte alla legge (isonomia) come valori cardine, che vive
sull’elevata, coinvolgente e diretta partecipazione dei cittadini ai processi decisionali
e in generale alla vita pubblica, ma che non appare altamente inclusivo
13
.
Nella polis greca vige anche la isokratia, i cittadini infatti sono isoi, sono cioè titolari
di un eguale potere che viene riconosciuto soltanto a coloro che hanno diritti politici.
Non c’è nessuna distinzione fra eguaglianza giuridica, diritti politici e
partecipazione; la cittadinanza si esprime solo nella partecipazione alla vita della
polis
14
.
Con la riforma antioligarchica di Clistene, che spezza il binomio censo/governo
attraverso una riqualificazione dei poteri dell’assemblea popolare, viene sancito il
principio secondo cui le decisioni pubbliche spettano a tutti i cittadini, a prescindere
dal reddito.
In seguito alla riforma, infatti, la partecipazione dei cittadini alle deliberazioni
dell’assemblea ateniese e alle funzioni esecutive divenne indipendentemente dal
censo
15
.
Tuttavia, eliminate le barriere di censo, l’Atene democratica ne manteneva altre.
Difatti, si deve precisare che il cittadino dell’antica Atene non si identifica con chi
abita nella città e, inoltre, non tutti gli abitanti della città costituiscono il “popolo” in
senso politico. Godono dei diritti politici, sono cioè cittadini in senso pieno, soltanto
i maschi “liberi”, in quanto «affrancati dai lavori necessari»
16
, che abbiano superato
il diciottesimo anno di età ed abbiano prestato per due anni il servizio militare.
Sono invece esclusi dalla cittadinanza le donne, i minori, gli schiavi, gli stranieri, in
generale tutti coloro che sono addetti alla produzione della ricchezza materiale e dei
beni necessari al sostentamento dei cittadini, che possono quindi dedicarsi
pienamente alla attività politica.
Sotto il profilo storico, la democrazia greca appare un sistema organizzato in
numerose magistrature e costruito sul fondamentale e delicato equilibrio derivante
dal rapporto fra le due principali istituzioni della polis: l’Ecclesia, l’assemblea
12
Ivi, pag. 141.
13
V. MURA, op. cit., pag. 312.
14
N. MATTEUCCI, Lo Stato moderno: lessico e percorsi, Il Mulino, Bologna, 1993, pag. 219.
15
G. LAVAU, Democrazia: breve storia di un'idea, Nis, Roma, 1994, pag. 33.
16
N. MATTEUCCI, op. cit., pag. 218.
12
popolare titolare del potere sovrano, e la Bule (o Consiglio dei Cinquecento),
l’organo effettivo di governo cui è affidato l’esercizio della sovranità.
L’Ecclesia è l’assemblea generale del popolo ateniese, ha competenze molto ampie:
cura le relazioni estere; esercita il potere legislativo; si occupa degli aspetti politici
del potere giudiziario; controlla periodicamente l’operato della Bule, approvandone o
respingendone il rendiconto.
La Bule è la magistratura suprema, l’organo del governo effettivo di Atene.
E’composta da cinquecento buleuti sorteggiati ogni anno dai dieci demi, unità
politico-amministrative di tipo territoriale che riflettono l’antica distribuzione della
popolazione in tribù.
Il Consiglio dei Cinquecento concentra in sé varie competenze tra cui le più rilevanti
sono: il potere di controllare e indirizzare l’attività delle magistrature civili; in
politica estera ha la prerogativa di ricevere gli ambasciatori e il compito di negoziare
accordi e trattati da portare alla ratifica dell’assemblea; esercita il potere giudiziario
nei confronti dei magistrati e di quanti rivestono cariche pubbliche
17
.
La suprema autorità è divisa principalmente tra questi due organi tra i quali vi è un
rapporto di reciproca influenza e necessaria collaborazione in quanto le decisioni
politiche di maggior rilievo sono il risultato di un concorso della volontà dei due
organismi.
Nell’età d’oro, la democrazia ateniese ha dunque concepito i meccanismi
dell’autogoverno popolare, nonostante il popolo non coincida con tutta la
popolazione. Titolare della sovranità, è il popolo ad esercitare le funzioni di governo
sia in modo diretto, attraverso la partecipazione assidua e costante alla vita politica
intesa come dovere etico, sia tramite forme e procedure di tipo indiretto, per mezzo
di un sistema di controlli sull’operato dei governanti e degli amministratori. Infatti,
l’esercizio stesso delle funzioni esecutive da parte dei delegati del demos (la Bule di
500 membri viene in parte scelta a sorte e in parte eletta) è sotto il controllo
permanente del popolo
18
.
Sotto il profilo istituzionale e funzionale la Bule si configura come un organo
attraverso il quale il popolo esercita indirettamente il potere di cui è depositario. Non
a caso i buleuti rispondono del loro operato di fronte all’assemblea e nell’assumere
l’incarico giurano di agire in conformità alle leggi e nell’interesse del popolo
19
.
La democrazia ateniese, quindi, non rappresenta in modo rigido ed esclusivo un
modello di democrazia solamente diretto, bensì un modello “misto” in cui si
intrecciano elementi di democrazia diretta ed elementi tipici degli assetti
costituzionali caratterizzati dall’esercizio indiretto delle funzioni decisionali.
Nell’Atene del V secolo a.C. si sviluppa così una visione del processo politico che
riconosce al “popolo” non soltanto il diritto di governarsi, ma anche le risorse e le
capacità per partecipare alle pratiche di deliberazione collettiva. Questa visione di un
possibile (e realizzabile) sistema politico rimarrà costantemente al centro degli ideali
democratici.
17
V. MURA, op. cit., pag. 310.
18
G. LAVAU, op. cit., pag. 33.
19
V. MURA, op. cit., pag. 313.