2
Addirittura, la dottrina commercialistica si spinse a ritenere che il favor
politico e legislativo per questo tipo di attività si giustificava proprio in virtù
del duplice rischio (quello economico e quello legato ai fattori ambientali)
insito nell’utilizzazione del suolo ai fini produttivi.
1
Dunque, l’elemento discriminante sembrava essere lo sfruttamento
della terra e delle sue attitudini produttive.
Ma oggi è possibile accettare questa impostazione alla luce dei
progressi tecnologici che hanno interessato il settore agricolo?
Certo è che le innovazioni in campo agricolo sono mal conciliabili con
la condizione d’agrarietà sostenuta, come visto, dai tradizionalisti, per i
quali i nuovi cicli biologici dovrebbero probabilmente collocarsi in un
settore ambiguo, destinato ad accogliere tutte quelle attività che
presentano le sembianze agricole, ma che di fatto non lo sono, perché
prive dei requisiti essenziali poc’anzi individuati.
Allora il primo passo da fare è quello di stabilire l’attendibilità o meno,
ai nostri giorni, dell’impostazione tradizionale
2
.
Si potrebbe partire dall’art.44 Cost., che, subordinando la proprietà
terriera, il godimento e la gestione del bene produttivo, in una parola,
1
La dottrina economico-agraria, proseguendo su questa linea, aggiunge che rientrano nell’
esercizio dell’agricoltura non solo la produzione di derrate vegetali, ma anche quella di derrate
animali fornite dal bestiame domestico.
2
Ormai gran parte dei Paesi industrializzati ha abbandonato il “criterio fondiario”. Per tutti valga
riportare il caso della Francia, che da tempo ha sancito ad ogni effetto il carattere agricolo di
coltivazioni ed allevamenti “fuori suolo”(hors sol). Si veda al proposito S.Corbella (2000, p.59),
con riferimento a Berry (1992, p.529).
3
l’esercizio dell’impresa agricola, al perseguimento di uno sfruttamento
razionale del suolo, pone in rilievo il risultato che l’attività deve conseguire,
che deve essere, appunto, un risultato di coltivazione razionale. Ma tale
razionalità non ha un valore assoluto, mutando al mutare delle condizioni
economiche.
Se, quindi, ai tempi dell’emanazione dell’attuale c.c., date le
caratteristiche dei processi agricoli, era logico dare valore essenziale al
fattore “terra”, quale unica o comunque primaria condizione di produzione,
per cui era razionale la coltivazione di vegetali in campo aperto, oggi le
cose stanno diversamente. Ai giorni nostri, infatti, razionali sono le colture
“fuori terra”, le coltivazioni in serre e vivai, gli allevamenti in batteria o di
specie ittiche in vasche, e dunque il criterio fondiario sembrerebbe aver
perso di significato.
Una moderna attività di coltivazione richiede all’imprenditore di
ricorrere agli strumenti messi a disposizione dalla tecnica, per proteggere
le colture dall’azione degli agenti atmosferici, per allevare le piante in
particolari condizioni, per rendere, in definitiva, l’attività d’impresa
economicamente razionale. La razionalità cui l’impresa deve tendere ex
art. 44 Cost. non può, cioè, legare il soggetto imprenditore a pratiche
proprie di un’agricoltura non più attuale. Negare il carattere dell’agrarietà a
coltivazioni fuori terra significherebbe, di conseguenza, contravvenire al
precetto costituzionale.
4
Il problema è che per molto tempo, non c’è stato un parallelo
adeguamento del correlato termine di uso consolidato e si è quindi
generata una divaricazione tra il concreto svolgimento delle attività e il
linguaggio volto a riflettere quelle attività.
Questo almeno fino al 18 maggio 2001, data in cui è stato emanato il
d. lg.228, intitolato “Orientamento e modernizzazione del settore agricolo”,
nel quale si è propensi a rintracciare un’interpretazione autentica
dell’art.2135 c.c.
A ben vedere, tuttavia, etimologicamente i termini “coltivare” e
“allevare” non richiedono la presenza indispensabile della terra. Infatti
“coltivare” significa rendere fruttifero con particolari cure e per “allevare” si
intende il curare i piccoli allettandoli e nutrendoli.
Per interpretare, dunque, correttamente l’art.2135, occorre partire dal
dato normativo per esaminare l’intenzione del legislatore (art.12 delle
preleggi), da considerarsi, però, non in senso statico come una volontà
fossilizzata. E l’interpretazione, che riguarda indubbiamente tutte le
norme, appare particolarmente necessaria per ciò che attiene alle
definizioni, proprio in quanto si tratta di accertare il significato di
disposizioni dettate al fine di precisare termini, ai quali si collegano
conseguenze giuridiche. In presenza, cioè, di una definizione diretta ad
individuare una specifica fattispecie, allo scopo di sottoporla ad una
determinata disciplina, essenziale appare l’accertamento dell’effettiva
5
voluntas legis, anche se apparentemente la definizione legislativa si
presenta puntuale e chiara.
1.1.1 L’agricoltura tra codice civile e legislazione speciale:
la coesistenza di più definizioni della stessa materia.
Tracciare i contorni della fattispecie “impresa agricola” non è cosa
semplice, data la varietà di leggi e atti normativi, che, succedendosi nel
tempo, l’hanno riguardata direttamente o indirettamente.
Ovviamente, il punto di partenza per individuare lo spazio di
applicazione della legge speciale sarà l’art.2135 c.c.
1
; sarà indispensabile,
cioè, trarre dal codice civile la nozione, l’archetipo dell’impresa agricola.
2
Mi propongo, dunque, partendo dall’art.2135 c.c., come espressione
della volontà del legislatore del ’42, di procedere ad un excursus di alcune
leggi speciali in materia di agricoltura, fino ad arrivare all’art.1 del d.lg.18
maggio 2001, n.228
3
. Intendo, in particolare, stabilire se dopo la
1
Non a caso l’art.2135c.c. apre la Sezione I del Capo II, Libro V c.c., intitolata “Disposizioni
generali sull’impresa agricola”.
2
In senso contrario il Graziani, che testualmente affermò: “Perché ci poniamo il quesito di cos’è
l’impresa agricola? Abbiamo tante leggi speciali, contentiamoci di quelle, e di una nozione unitaria
di impresa agricola facciamone a meno”. Si veda, per il riferimento, il seminario di Eva Rook
Basile (1974, p.257).
3
V. Irti (1979, p.72), per il quale il codice non rappresenta il sistema centrale e unico del
panorama normativo: attorno ad esso ruotano le varie leggi speciali, “ordinate in micro-sistemi,
ognuno con proprie logiche, che compongono il grande universo del diritto privato, nel quale il
codice è solo uno degli elementi del poli-sistema”.
6
compilazione del c.c. del 1942, sia intervenuta qualche legge relativa alla
materia agricola, cui sia stato riconosciuto il ruolo di interpretazione
autentica dell’art.2135; o se, più probabilmente, si sia trattato di leggi
speciali, in quanto tali valevoli solo limitatamente alla materia di loro
competenza.
E’ interessante notare, innanzitutto, che tra dette leggi soltanto alcune
hanno esplicitato e arricchito la lettera dell’art. 2135, sancendo “a tutti gli
effetti” il carattere agricolo di specifiche colture o tipologie di allevamenti.
Dico questo, perché, accanto a tale categoria di atti normativi, se ne
rintraccia un’altra, comprensiva di leggi particolari, che hanno sì fornito
definizioni di impresa agricola e di agricoltura, ma l’hanno fatto
limitatamente agli specifici ambiti di operatività, su un piano diverso da
quello del diritto comune. Si pensi, ad es., all’art.208 del D.P.R. 1124/45,
che considera “agricola, ai fini infortunistici, la coltivazione delle piante,
ovunque esse si trovino”. Sicuramente non può essergli riconosciuto il
valore d’interpretazione autentica, poichè l’inciso “ai fini infortunistici”
esclude che l’articolo contenga una definizione generale dell’agricoltura
senza terra, tale da farla rientrare nel concetto di impresa agricola.
Discorso non diverso per la nuova legislazione anti-infortunistica
778/86
1
, che pur avendo escluso, per l’allevamento, un necessario
collegamento con il fondo, sicuramente non ha avuto il merito di sancire in
1
La Legge 778/86 ha sostituito il D.P.R. 1124/65, intitolato “T.u. sull’assicurazione obbligatoria
contro gli infortuni sul lavoro” che, ai fini assicurativi, richiedeva il necessario collegamento
dell’allevamento allo sfruttamento della terra.
7
via generale (cioè, non solo ai fini infortunistici) l’abbandono del criterio
fondiario. Tuttavia non è corretto neppure accogliere, in generale, la
concezione di agricoltura ancora legata alla terra, desumibile dalla legge 3
maggio 1982, n.203
1
. Questa legge, dettata al solo fine di modificare le
norme sull’affitto dei fondi rustici, non fornisce, infatti, alcun elemento che
faccia ritenere essere intenzione del legislatore incidere in via generale
sull’interpretazione dell’art.2135. E in più in essa, non è contenuto alcun
richiamo al citato articolo.
E’, dunque, proprio quell’inciso “ai soli fini…”, cioè il fatto di essere
dettate in vista di particolari scopi
2
, a caratterizzare queste leggi rispetto a
quelle rientranti nell’altra categoria, di cui sopra si è detto, che, al
contrario, hanno aggiornato, mediante ampliamenti, l’art.2135.
Ciò non significa, però, riconoscere a queste ultime il carattere di
interpretazione autentica, dato che, comunque, esse si sono limitate a
considerare agricole, seppure “a tutti gli effetti”, solo determinate colture o
determinati allevamenti “fuori terra”, non fornendo, cioè, una nozione
generale di impresa agricola senza terra. E ciò lo si può notare
1
“Norme sui contratti agrari”. La legge, recando “disposizioni integrative e modificative
sull’affitto di fondi rustici”, non può prescindere dal riferimento ad un terreno: non si parla, infatti,
di “strutture” genericamente destinate alla produzione agricola, ma di fondi oggetto di contratti
agrari, necessari per svolgere l’attività produttiva.
2
V. Maiello (1994, p.36).
8
esaminando la l.126/85
1
sulla funghicoltura, indiscutibile esempio di
coltura artificiale.
2
Infatti, l’art.1 di detta legge cita: “L’attività di coltivazione dei funghi è
considerata, a tutti gli effetti
3
, attività imprenditoriale agricola”. Quell’inciso
rende chiaro che il suddetto atto normativo riconosce in generale il
carattere agricolo della funghicoltura, la quale può a tutto diritto ritenersi
compresa tra le attività di coltivazione ex art.2135 c.c.
4
La nozione
codicistica di coltivazione risulta, quindi, ampliata; è certo, però, che la
funghicoltura rappresenta un’ipotesi eccezionale, contenuta in una legge
speciale, e in quanto tale non passibile di estensione analogica ad altre
forme di coltivazione “fuori terra”: neppure in questo caso siamo in grado
di parlare di interpretazione autentica dell’art.2135.
5
Considerazioni non diverse riguardano la l. 102/92, che considera
agricolo“a tutti gli effetti” solo un determinato tipo di allevamento, cioè
l’acquacoltura
6
, e il discorso potrebbe proseguire invariato menzionando le
1
“Inquadramento giuridico e fiscale della coltivazione dei funghi”.
2
Rimando al paragrafo 1.2 le precisazioni sulle caratteristiche delle colture “fuori terra”.
3
La l. 126/85 ha un sicuro rilievo civilistico, a differenza della precedente legge in materia di
inquadramento ai fini esclusivamente fiscali della funghicoltura (L.645/58) che conteneva l’inciso
“…ai fini di questa legge….”
4
Non è mancato, però Chi, malgrado l’esplicita intitolazione della legge e malgrado l’inciso “a
tutti gli effetti”, ha sostenuto che la legge ha visibilmente di mira soprattutto la soluzione dei
problemi di inquadramento fiscale (la legge qualifica come reddito agrario quello derivante dalla
funghicoltura). Si veda l’Alessi (1990, p.96). Tutto, invece, sembra essere a favore di un più
generale inquadramento “giuridico” della funghicoltura.
5
Si veda anche la l.16/12/85 n. 752 (“normativa quadro in materia di raccolta, coltivazione e
commercio di tartufi freschi o conservati ….”), per la quale la raccolta del tartufo può essere
considerata solo in certi casi attività agricola (ad es. ai fini delle imposte sui redditi).
6
Il discorso verrà ampliato nel paragrafo 1.3.3, anche alla luce del d. lg. 18 maggio 2001, n.226
“Orientamento e modernizzazione del settore della pesca e dell’acquacoltura, a norma dell’art.7
legge5 marzo 2001, n.57”.
9
leggi speciali sulla cinotecnica
1
o sugli allevamenti avicoli
2
, importanti, per
aver toccato anche l’altro punto dolente dell’attività di allevamento, cioè
quello riguardante il significato da attribuire al termine “bestiame”.
3
Quali conclusioni trarre, allora, alla luce di quanto detto?
Sicuramente una norma giuridica non si forma tutta in un momento dal
nulla, ma è spesso il risultato di una lunga elaborazione storica.
E’ importante, dunque, tener presente questi interventi normativi,
succedutisi nel tempo, per comprendere la ratio dell’art.2135, ma ben più
importante è non lasciarsi trarre in inganno dal fatto che essi abbiano
riguardato, direttamente o indirettamente, quelle stesse attività di cui
all’articolo suddetto, per affermare la loro portata generale. Il che
equivarrebbe ad affermare il loro carattere di interpretazione autentica.
1
L.23/8/93, n.349.
2
L.3/5/71, n.419.
3
Il discorso sull’attività di allevamento sarà sviluppato nel paragrafo 1.3.
10
1.1.2 Cenni sulla normativa comunitaria in materia di
agricoltura
Premesso che diritto comunitario e diritto interno sono due sistemi
autonomi e distinti, ancorchè coordinati secondo la ripartizione di
competenze stabilite dal Trattato
1
, è certo che la materia agricola non è
stata disciplinata esclusivamente dalle fonti dell’ordinamento statale.
L’agricoltura, infatti, a motivo della sua fragilità per le strutture sociali
interessate, e per le disparità naturali esistenti tra le varie aree
geografiche europee, occupa un posto particolare nell’ordinamento
comunitario. Intendo, per questo, dare uno sguardo alla normativa
comunitaria in materia
2
, per stabilire se ne sono derivati dei contributi alla
nozione civilistica dell’art.2135.
Ma non è difficile accorgersi del carattere settoriale anche
3
di queste
definizioni, appartenenti ad un ordinamento sovranazionale.
1
Corte Costituzionale 8 giugno 1984, n.170.
2
E’ opportuno ricordare che l’1 maggio 1999 è stato ratificato il Trattato di Amsterdam, che ha
visto finalmente la luce quaranta anni dopo la firma del Trattato di Roma. Le modifiche che il
nuovo Trattato ha apportato, in particolare, al Titolo II del Trattato CE, in materia di politica
agricola comune (PAC), sono soprattutto di natura formale. Gli obiettivi della PAC, infatti, restano
intatti (incremento della produttività in agricoltura, sviluppando il progresso tecnico,
miglioramento del reddito dei lavoratori agricoli, stabilizzazione dei mercati, sicurezza degli
approvvigionamenti e fissazione di prezzi ragionevoli nelle consegne ai consumatori; v. art. 33
Trattato), perché la loro formulazione si rivela sufficientemente flessibile per ricoprire i
cambiamenti. In particolare, questi ultimi hanno riguardato il numero degli articoli del Titolo II
(oggi, Titolo I): se prima constava di dieci articoli (38-47), l’attuale ne prevede sette (32-38). V. al
proposito Daniele Bianchi (2000, p.512 ss.).
3
L’avverbio richiama le conclusioni sulla legislazione speciale, di cui si è detto nel precedente
paragrafo.
11
Gli art. 32-38 del recente Trattato di Amsterdam, infatti, si colorano di
specialità rispetto alle altre regole del Trattato, di valenza generale. Allo
stesso modo, è impossibile ricavare dal dir. comunitario derivato, una
definizione generale e uniforme di impresa agricola, universalmente valida
per tutto il settore delle disposizioni legislative e regolamentari,
concernenti la produzione agricola.
Dunque, benchè l’espressione “impresa agricola” ricorra più volte nella
normativa comunitaria, la definizione di quell’espressione varia a seconda
degli specifici obiettivi perseguiti dalle norme in questione. Il che equivale
a dire che neppure le norme comunitarie possono svolgere sui diritti
nazionali alcuna influenza, se considerate al di fuori dello specifico settore
per il quale sono state emanate.
Ma la questione merita qualche approfondimento.
Si osservi che, leggendo l’art.32 del Trattato, l’agricoltura
1
viene
intesa dalla Ce come l’ottenimento, per il commercio, dei prodotti elencati
nell’Allegato I (prodotti che, tra l’altro, spesso, non sono opera di imprese
agricole, per il diritto italiano, ma di imprese agro-industriali; si pensi, ad
es., allo zucchero o all’aceto), esclusivamente ai quali viene limitata,
quindi, l’applicazione della disciplina speciale dettata dagli art. 32-38. Si
pensi al particolare procedimento ex art. 37, per la normazione sulla
1
Il momento dell’attività di produzione emerge appena dalla lettura dell’Allegato, dato che,
comunque, la Comunità è sorta come una forma di “mercato”: si è stati più attenti alla circolazione
ed alla commercializzazione delle merci che alla loro produzione. V.Germanò (1995a, p.44).
12
materia dell’agricoltura, esperibile, per esplicita disposizione del co.3
dell’art.32, solo rispetto ai prodotti dell’Allegato.
Incidendo, quindi, l’elenco sulla definizione di agricoltura, di cui
all’art.32 Trattato, ne deriva che, ad es., pur essendo “agricoltura”
l’allevamento, non può rientrare nelle disposizioni del Trattato il
commercio di pellicce, cioè di prodotti che sono ottenibili dall’allevamento,
ma che non sono elencati nell’ Allegato I.
1
E’ per questo che non ha forse molto senso impegnarsi ad elaborare
una nozione di “attività agricola” comunitaria, al di fuori di quella avente ad
oggetto i prodotti specificamente elencati.
Oltretutto è veramente difficile individuare il criterio ordinatore di detto
elenco, perché, se da un lato, l’esclusione di prodotti come legno e lana
potrebbe far pensare che esso si basi su un’idea di agricoltura destinata
all’alimentazione, dall’altro, l’inclusione del lino, della canapa e del tabacco
porta a conclusioni diverse.
Qualche cenno meritano, infine, le attività di allevamento nel dir.
comunitario.
L’Allegato comprende tra i prodotti agricoli anche i pesci, che, di
regola, nulla hanno a che fare con il fondo rustico; la stessa svalutazione
del criterio fondiario la si ritrova nel Regolamento CE 14 giugno 1966,
1
V. Tribunale comunitario di I°, sent. 2 luglio 1992, in causa T-61/89.
13
n.70
1
, che afferma, appunto, l’irrilevanza del collegamento delle attività di
allevamento col fondo, accogliendo, inoltre, un concetto molto ampio di
bestiame (rane, volatili, lombrichi…).
Come si vedrà meglio in seguito, oggi queste disposizioni concordano
perfettamente con il contenuto del nuovo art.2135, ma con questo non
voglio assolutamente affermare, come detto all’inizio, che dal diritto
comunitario siano provenute definizioni generali di impresa agricola: esso,
ribadisco, fornisce soltanto criteri di identificazione dei produttori agricoli,
di volta in volta considerati.
2
Così come i regolamenti comunitari, che non hanno avuto una diretta
incidenza sulla configurazione dell’impresa agricola nel nostro sistema, in
quanto volti a regolare più il mercato
3
, che l’attività produttiva in sé.
Le norme comunitarie hanno, però, avuto sicuramente un peso in quel
processo evolutivo che ha portato alla riformulazione, ex art. 1
D.lg.228/01, dell’art.2135 c.c. Anzi, si potrebbe addirittura ritenere che sia
stato proprio l’inserimento dell’economia italiana nel contesto della CE uno
dagli imput all’ “apertura” del nostro art.2135.
1
Vedi anche i Reg. 1619/69 e 95/69 sull’avicoltura, attuati con la L.3 maggio 1971, n.419.
2
Il dir. comunitario riguarda, quindi, il mercato dei prodotti agricoli, rivolgendosi genericamente a
soggetti che provvedono alla circolazione del prodotto, indipendentemente dal fatto che ne siano i
produttori. Tale circostanza, aggiunta all’assenza di una compiuta corrispondenza tra prodotto
agricolo in quanto oggetto di coltivazione, allevamento o silvicoltura e prodotto interessante il
mercato agricolo ai sensi del Trattato, impedisce di configurare nozioni di impresa agricola
nazionale e comunitaria coincidenti. V. Cass. 11 febbraio 1984, n.1051.
3
V. L.Costato ed E.Casadei (2000, p.10). Detti autori notano come la logica del Trattato, che ha
considerato alla stessa stregua (art.32 co.1) prodotti agricoli in senso stretto e derivati da questi,
“ha contribuito a sviluppare un orientamento mercantile nella legislazione dei prodotti agricoli,
determinando il definitivo avvento della totale commercializzazione dei prodotti agricoli”.
14
1.1.3 Il D.Lg. 18 maggio 2001, n.228: interpretazione
autentica dell’art.2135 c.c.
Nei paragrafi precedenti si è fatto cenno alla pluralità di fonti (anche
appartenenti ad ordinamenti diversi) che, nel tempo, hanno riguardato,
“per fini particolari” o “a tutti gli effetti”, la materia agricola, creando un
inevitabile disordine normativo.
Nessuna di esse, si è detto, è assurta al rango di interpretazione
autentica dell’art.2135c.c., potendo essere, tutt’al più, per le “sedes
materiae” in cui sono contenute, semplicemente viste come indice della
tendenza del legislatore (anche comunitario) a tener conto del progresso
tecnologico, che ha trasformato la tradizionale figura dell’imprenditore
agricolo.
In alcuni casi è vero, però, che l’art.2135 si è aggiornato mediante
ampliamenti
1
(si pensi alle leggi sulla funghicoltura e sull’acquacoltura) e
tutto ciò, aggiunto ad un processo di interpretazione evolutiva
2
dell’art.2135 c.c., deve essere stato determinante
3
per la formulazione
dell’art.1 d.lg. 228/01.
1
Per Alessi “Non sono cresciute le figure degli imprenditori agricoli, ma di quelli considerati tali”.
Alessi (1990, p.119-121).
2
Si veda il prossimo paragrafo.
3
“Orientamento e modernizzazione del settore agricolo, a norma dell’art.7 della L.5 marzo 2001,
n.57 (quest’ultima è la “legge delega per la modernizzazione nei settori dell’agricoltura, foreste,
pesca e acquacoltura”).
15
Cita testualmente il suddetto art.1 al co.1: “E’ imprenditore agricolo chi
esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura,
allevamento di animali e attività connesse. Per coltivazione, per
selvicoltura e per allevamento di animali s’intendono le attività dirette alla
cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria dello
stesso………..che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le
acque”.
Dalla lettera si desume il carattere di interpretazione autentica.
Cercherò di illustrare i motivi di una tale affermazione
Si parta, innanzitutto, dal tipo di fonte normativa: si tratta di un decreto
legislativo, ex art. 76 Cost., emanato dal Presidente della Repubblica a
norma dell’art.87 Cost.
1
L’art. 76 Cost. richiede, per la legittimità del decreto, il rispetto dei
criteri direttivi contenuti nella legge delega, limitando in tal modo la
discrezionalità amministrativa sulla materia oggetto della delega stessa.
Mi propongo, perciò, per il momento, di approfondire, relativamente al
d.lg.228/01, il discorso su detti limiti contenutistici.
Non sembrano esserci dubbi sulla sua corrispondenza a quegli
“oggetti definiti” dalla l. delega, dato che esso, attuativo degli art. 7 e 8
L.57/01, sembra essersi attenuto puntualmente alle disposizioni ivi
contenute.
1
Art. 87 co.5 Cost., a norma del quale il Capo dello Stato “promulga le leggi ed emana i decreti
aventi valore di legge e i regolamenti”.