vi
Per rispondere a questi interrogativi mi sono avventurata alla ricerca di una “teoria”
delle autorità indipendenti che fosse in grado di soddisfare le mie curiosità ma,
attraverso una prima osservazione, non sono stata in grado di rinvenire alcun corpus
teorico che si occupasse analiticamente della delega di poteri regolatori a siffatte
istituzioni. Ciò che non mancava erano i contributi storico-economici e giuridici al
problema, ovvero quella vasta letteratura che mette in evidenza le contingenze storiche
ed i trend economici che hanno dato vita all’una o all’altra opzione istituzionale,
oppure che si focalizza sulla connessione formale esistente tra la struttura che tali
autorità assumono ed il ruolo che sono chiamate a svolgere nella sfera dei rapporti tra il
settore pubblico e la società; ma niente teoria della delega. Nessun contributo, almeno
tra questi, che si “astraesse” dal fenomeno concreto – ovvero dalla spiegazione del
perché tali autorità sono nate, si sono diffuse a livello mondiale ed hanno assunto le
loro peculiari strutture – per produrre una cornice teorica autonoma, entro la quale
ricomprendere e – con elementi più solidi a disposizione – decifrare, il fenomeno
stesso.
L’obiettivo di questo lavoro consiste proprio nell’accostare contributi teorici di varia
natura per giungere alla formulazione di una teoria della delega di poteri regolatori
ad autorità indipendenti; una teoria grazie alla quale poter chiarire – almeno in parte -
i) quali sono i vantaggi, o i benefici, che il decisore politico “ritiene” di poter ottenere
attraverso la delega dei suddetti poteri, ii) quali gli svantaggi, o i costi, connessi a tale
scelta e iii) quali i riflessi istituzionali – sulla struttura delle singole autorità (nella
fattispecie, la loro indipendenza) o sull’ ”ambiente regolatorio” in cui operano – delle
scelte orientate a conseguire tali benefici e a far fronte a tali costi; tutto ciò al fine di
comprendere se, e se sì in che modo, l’adozione di un approccio analitico possa dare
conto della nascita e della proliferazione di autorità indipendenti con compiti regolatori.
vii
Il punto di partenza di questo “tentativo” di teoria ha a che fare con un’intuizione
riguardante le caratteristiche peculiari dei poteri delegati – vale a dire la natura
dell’attività di regolatoria – e la correlazione tra tali caratteristiche ed i tratti essenziali
delle istituzioni che ne sono titolari. In particolare, nella misura in cui è possibile
attribuire al fenomeno regolatorio un’essenza intrinsecamente trasversale – dal
momento che la regolamentazione è, sì, un’attività tecnico-economica, ma è soprattutto
un’attività politica (non solo poiché di “governo”, ma anche poiché ha a che fare con la
composizione di interessi in conflitto) - anche le istituzioni che le danno vita avranno
un genoma tanto tecnico-economico quanto politico, e dovranno essere analizzate
adottando la medesima, duplice, prospettiva.
Alla luce di questa impostazione concettuale, comporremo la nostra teoria della
delega – che, in un’ottica più ampia diverrà una teoria delle autorità di regolamentazione
indipendenti – in due stadi di analisi: in una prima fase (PARTE I), facendo nostra la
prospettiva “tradizionale” allo studio delle autorità indipendenti, tenteremo di
identificare quei processi storico-politici ed economici che hanno condotto ad una
riforma – orientata a conferire un peso maggiore allo svolgimento di funzioni
regolatorie - degli schemi d’intervento pubblico nell’economia ed alla diffusione
internazionale di un modello di regolamentazione “a mezzo” di autorità indipendenti.
In particolare, dopo aver chiarito le ragioni per le quali, in genere, a tale forma
d’intervento venga attribuita una “derivazione” statunitense, considereremo da vicino
le esperienze più importanti – Stati Uniti, da un lato, Gran Bretagna, Francia ed Italia,
per quanto riguarda la cornice europea, dall’altro – valutandone le differenze non solo
relative ai risultati istituzionali di tale riforma, ma soprattutto alle diverse cause ed ai
diversi obiettivi che si è teso a conseguire suo tramite.
viii
In seguito, dopo un breve esame delle difformi esperienze nazionali volto a mettere
in luce l’eterogeneità funzional-strutturale degli organismi che vi operano, ci
preoccuperemo di individuare alcuni punti in comune tra le diverse opzioni
istituzionali per ricondurle ad unità, ed elaborare un “concetto univoco” di autorità
indipendente che ci serva come punto di riferimento per l’analisi successiva. In essa
(PARTE II), dopo un breve excursus dei principali approcci teorici – più o meno
tradizionali - alla regolamentazione, ci addentreremo nella valutazione dei benefici e dei
costi della delega di poteri regolatori ricorrendo a contributi di teorie di stampo tanto
politologico quanto economico ed adottando, soprattutto in relazione a quest’ultimo
versante, gli schemi formali di una prospettiva teorica piuttosto recente, la cui analisi -
incentrata sulle dinamiche interne a gerarchie a tre livelli - si addice a rendere conto dei
fenomeni reali riguardanti le gerarchie regolatorie Stato/autorità/soggetti regolati - la
New Economics of Regulation.
Onde non perdere il contatto con il nostro intento originario - vale a dire la
costruzione di una cornice teorica della delega attraverso la quale spiegare il fenomeno
reale della nascita e della diffusione di autorità indipendenti – tenteremo, di volta in
volta, di applicare i risultati ottenuti al contesto regolatorio considerato, traendo
conclusioni parziali che, nella sezione finale (CONCLUSIONI), saranno riproposte in
modo coerente e - per quanto possibile – esaustivo e si accompagneranno ad un ultimo
sforzo teso a valutare la misura in cui l’adozione di una prospettiva trasversale possa
risultare utile per l’analisi di un fenomeno complesso come quello considerato.
PARTE I
RIFORMA REGOLATORIA ED
AUTORITÀ INDIPENDENTI
2
1. DALLO STATO GESTORE ALLO STATO
REGOLATORE
Uno dei tratti distintivi dell’evoluzione nei rapporti tra Stato e mercato risiede nella
comparsa – e nella recente proliferazione internazionale – di autorità poste al di fuori
dalla gerarchia di controllo degli organismi di governo, cui questi ultimi delegano
poteri connessi ad un qualche incarico di regolamentazione. Ad oggi, di autorità
indipendenti con compiti regolatori è possibile riscontrare esempi in tutto il mondo:
dalle independent regulatory agencies statunitensi, ai regulatory offices inglesi, dalle
autorités administratives indépendantes francesi alle autorità indipendenti italiane. Tuttavia,
malgrado l’attuale estensione del fenomeno, questo soltanto da pochi decenni si è
manifestato nel panorama istituzionale europeo, dove, in linea generale, è interpretato
come la conseguenza “visibile” di quel processo di riforma dei meccanismi di
intervento pubblico nella sfera privata che ha portato alla sosituzione di un tipo di
azione “continentale” da Stato gestore, con una modalità operativa diversa – soltanto in
Europa “nuova”, ma radicata da più di un secolo negli Stati Uniti – da Stato regolatore.
Le differenze sostanziali tra il modello d’intervento continentale e quello statunitense
iniziarono a palesarsi già a partire dalla metà del XIX secolo quando, a prescindere
dall’uniformità d’indirizzo dell’azione pubblica (orientata, in entrambi i contesti,
all’attuazione di politiche protezionistiche ed infrastrutturali volte a favorire lo
sviluppo delle economie nazionali), laddove in Europa questa era guidata da una
logica statalista ed autarchica che induceva il soggetto pubblico a sostituirsi
all’autonomo funzionamento dei meccanismi di mercato
1
, negli Stati Uniti il medesimo
era chiamato piuttosto a svolgere un ruolo, super partes, di severo regolatore,
supervisore e garante del corretto ed efficiente dispiegarsi delle relazioni tra privati
1
Soprattutto attraverso interventi di nazionalizzazione di molte delle industrie produttive e delle reti
infrastrutturali (in particolar modo di quelle delle comunicazioni su rotaie).
3
all’interno del mercato. Per tutto il corso del XX secolo, l’adesione a tali modelli rimase
pressochè invariata: pur se i grandi eventi bellici e la crisi mondiale del capitalismo
degli anni Trenta contribuirono ovunque ad accentuare le spinte all’allargamento del
ruolo dello Stato nell’economia
2
, negli Stati Uniti l’azione di governo rispettò la
tradizionale logica super partes, mentre l’economic policy making della maggior parte dei
governi europei continuò a rispecchiare, per lungo tempo, il prevalere di una
razionalità statalista ed autarchica - culminante in quell’ondata di nazionalizzazioni
che investì il centro Europa alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Il
consolidamento di queste opposte tradizioni ha fatto si che, nel corso del tempo, nella
dottrina storico-economica il modello statunitense venisse comunemente utilizzato
come esempio paradigmatico di intervento da Stato regolatore, mentre a quello
continentale venissero calate le vesti di tipico intervento da Stato gestore
3
.
Alla base della distinzione tra intervento da Stato regolatore ed intervento da Stato
gestore, risiede non soltanto la diversa priorità conferita ai possibili obiettivi
“economici” dell’azione di governo, ma, soprattutto, una diversa scelta negli strumenti
– istituzionali e non – attraverso i quali tali obiettivi sono perseguiti. In linea generale,
le tre grandi funzioni che la teoria economica attribuisce all’intervento pubblico
consistono nella redistribuzione delle risorse, nella stabilizzazione delle variabili
macroeconomiche e nella regolamentazione, un intervento orientato ad eliminare quelle
frizioni, o correggere quelle imperfezioni, che tendono ad inficiare il corretto ed
2
Esigenze dettate dalla necessità di predisporre strumenti di intervento ad hoc per gestire l’incremento
della spesa pubblica a fini militari e dalla necessità di fronteggiare le crisi e le inefficienze causate
dall’”incepparsi” dei tradizionali meccanismi dell’economia di mercato. Per le cause (tecniche, sociali e
politiche) dell’espansione dell’intervento pubblico nel corso del XX° secolo, si vedano Goodman and
Wrightson (1987:14).
3
Per la distinzione tra i concetti di Stato regolatore e Stato gestore e l’associazione dei medesimi ai modelli
di intervento statunitense e centroeuropeo, si vedano La Spina – Majone (2000), Bentivogli–Trento (1995),
Seidman e Gilmour (1986), cit. in Majone (1996b:55), Lowi, T.J, The State in Politics. The Rrelation Between
Policy and Administration, in Noll, (1989); per i tratti dell’economic policy making europeo, si veda Aldcroft
(1994).
4
autonomo funzionamento dei meccanismi di mercato. L’importanza accordata a
ciascuno di questi obiettivi è relativa, e dipende soprattutto dalla “cultura” economica
della classe dirigente, la quale risulta fortemente influenzata – ed influenzabile (quindi,
soggetta a variazioni periodiche) – dai cambiamenti dell’ambiente socio-politico ed
istituzionale che ruota attorno alla sfera dei rapporti tra settore pubblico e settore
privato. Tali cambiamenti, indotti anche dal confronto con esperienze diverse da quella
considerata, che possono modificare la sensibilità collettiva rispetto al ruolo che lo
Stato è chiamato a svolgere nel suo rapportarsi con la società: mentre negli Stati Uniti il
radicamento di una filosofia liberista (di derivazione anglosassone), volta a non
sostituire l’operare della mano “invisibile” del mercato con la mano “invasiva” dello
Stato, ha orientato le scelte della classe politica in favore dello svolgimento di funzioni
regolatorie, per le quali il soggetto pubblico è chiamato ad agire indirettamente
sull’interazione tra soggetti privati assicurandone l’efficiente dispiegarsi, negli stati
centroeuropei il consolidamento di forti sentimenti nazionalistici, a partire dagli albori
dell’era moderna, ha favorito lo sviluppo di quella cultura interventista cui si
connettono scelte volte ad attribuire al soggetto pubblico un ruolo diretto ed attivo
nella gestione dell’economia a fini, essenzialmente, redistributivi e di stabilizzazione
5
.
Verso la fine del XX secolo, tuttavia, questa distinzione si è fatta meno netta, ed è
andata mano a mano scomparendo: la crisi del sistema monetario internazionale, le
crisi energetiche ed il fenomeno della “stagflazione”, nonché la globalizzazione del
sistema economico mondiale
6
da un lato, e la crescente interdipendenza politica,
sociale ed economica tra paesi dall’altro hanno contribuito ad evidenziare
4
Meccanismi tramite i quali si manifestano i tentativi che le istituzioni di governo compiono nell’obiettivo
di influenzare, controllare o gestire direttamente le decisioni ed azioni degli operatori privati.
5
Per il dibattito sul ruolo dello Stato per il benessere e la crescita economica alla luce delle dottrine del
liberiste e nazionaliste - le cui radici si individuano nel pensiero di Smith, Ricardo, Hamilton e List - si
veda Gilpin, R. (1990)
6
Favorita dagli enormi sviluppi tecnologici, soprattutto nel campo delle comunicazioni.
5
l’inadeguatezza del modello di intervento da Stato gestore nel far fronte a
problematiche di carattere moderno
7
, favorendo una generale perdita di fiducia
rispetto all’efficacia del dirigismo economico ed un ritorno dell’attenzione politica ed
intellettuale – soprattutto in contesti istituzionali caratterizzati da un forte statalismo –
verso i principi della libertà individuale, del mercato e del limited government, principi
mai abbandonati nella tradizione statunitense
8
.
Sotto la pressione di queste spinte ideologiche si è assistito, soprattutto in Europa,
ad un progressivo “ritiro” dei governi dalla gestione diretta delle faccende
economiche. Tale ritiro, in realtà, non ha coinciso con un vero e proprio
smantellamento di ogni forma di ingerenza pubblica nell’economia, piuttosto con la
sua trasformazione da una forma di intervento diretto e visibile a forme più indirette,
tipiche dello Stato regolatore
9
, la cui diffusione si è affiancata, oltre che ad uno
spostamento degli “obiettivi” dell’azione governativa
10
, anche ad importanti
cambiamenti nell’assetto istituzionale dell’intervento pubblico che si sono concretizzati
nella creazione di autorità indipendenti, modellate su istituzioni già esistenti nella
tradizione statunitense, e nella delega a quest’ultime di significativi poteri di policy-
making da parte delle autorità politiche.
Il presente lavoro si incentra proprio sull’analisi di questo tipo di istituzione: posto
che la regolamentazione “a mezzo” di organismi indipendenti non rappresenta che
7
Inadeguatezza derivante soprattutto dal palese indebolimento della sovranità dei governi nazionali
rispetto alla gestione diretta del livello delle variabili macroeconomiche, in mercati le cui dinamiche si
trasformavano e sviluppavano rapidamente.
8
Per la “rinascita” del pensiero liberista in Europa a seguito delle trasformazioni del sistema economico ed
alla percezione di un’incapacità dei sistemi d’intervento tradizionali di farvi fronte si vedano, tra gli altri,
Besomi e Rampa (2000) e si consulti il sito Web dell’associazione Società Libera [http://www.soc-
libera.org] nonché gli archivi del SISE [http://www.unifi.it /centri/sise].
9
Per il consolidamento e la diffusione del modello di intervento da Stato Regolatore in Europa si vedano,
tra gli altri, Vogel (1996); Majone (1994); Kay and Vickers (1990).
10
Da una preferenza manifesta verso l’attuazione di politiche redistributive e di stabilizzazione verso un
tipo di intervento regolatorio.
6
una delle varie modalità attraverso le quali l’intervento regolatorio può manifestarsi
11
,
tenteremo di comprendere le ragioni, di carattere normativo e positivo, che giustificano
la scelta dei governi, democraticamente eletti, di devolvere importanti poteri regolatori
ad istituzioni cui viene ex ante attribuito uno status di (formale o sostanziale)
indipendenza, status che le pone al di fuori dalla propria gerarchia di controllo. Prima
di addentrarci nella teoria della delega (che sarà fulcro d’analisi della II sezione) ci
soffermeremo sulla sua prassi, ovvero sull’osservazione delle “dinamiche” concrete che
hanno contrassegnato l’apparizione di autorità indipendenti “delegate” in alcuni dei
più rilevanti contesti istituzionali, nonché sulla natura strutturale e funzionale di tali
organismi. A tal fine, dapprima ci soffermeremo brevemente nel “mondo della
regolamentazione”, specificandone obiettivi generali, modalità e fondamenti, così da
avere a disposizione una cornice utile per comprendere le ragioni per le quali
l’intervento pubblico “a mezzo” di istituzioni indipendenti possa considerarsi
“peculiare” dell’esperienza d’oltreoceano; in seguito indugeremo sull’analisi dei
processi socio-politici che hanno condotto, in tempi e luoghi diversi, alla creazione di
siffatti organismi per comprendere le motivazioni della loro comparsa nel contesto
europeo; infine, tenteremo di ricondurre ad unità le diverse esperienze considerate (da
un punto di vista strutturale e funzionale) per giungere alla formulazione di un concetto
univoco di autorità indipendente che sarà il punto di riferimento per l’analisi teorica
successiva.
11
Infatti, non bisogna dimenticare che la scelta di un governo di stabilire una priorità tra obiettivi di
redistribuzione, stabilizzazione e regolamentazione non rappresenta un aut aut; in genere, ogni governo
predispone apparati, strutture e procedure attraverso le quali perseguire ciascuno di questi obiettivi. Il
fatto che nei paesi centroeuropei non fossero operativi organismi indipendenti (come nel caso americano)
con compiti di regolamentazione, significa semplicemente che tali compiti erano svolti, in linea di
massima, dalle burocrazie governative, dagli apparati tradizionali del policy making, senza per questo
7
2. BASI TEORICHE E CARATTERISTICHE OPERATIVE
DELL’INTERVENTO REGOLATORIO
Nella tradizione anglosassone il termine regulation si riferisce ad un insieme di
attività che consentono alle autorità pubbliche di esercitare una forma di controllo sul
comportamento dei soggetti operanti nei settori privati, onde conseguire finalità
“sociali”. La regulation è, come il vocabolo stesso indica, una questione di “regole”;
regole provenienti da varie fonti, che, assumendo forme diverse, sono operative a
livelli differenti
12
. In altre parole, essa è un processo, o un’attività attraverso la quale
l’autorità pubblica, richiedendo o prescrivendo ai soggetti regolati (siano essi operatori
privati o istituzioni dello Stato) l’adozione di determinati comportamenti intende
esercitare un’influenza (diretta o indiretta) sulle dinamiche socioeconomiche nei settori
ritenuti domaines sensibles per la collettività al fine di modificarne gli esiti, e raggiungere
obiettivi di carattere sociale.
13
A livello teorico si è soliti operare una distinzione tra approcci normativi ed
approcci positivi al fenomeno regolatorio; laddove le prospettive del primo tipo si
incentrano sull’analisi delle ragioni per cui i governi dovrebbero regolare, le altre, a
partire da un’analisi empirica degli effetti concreti dell’intervento pubblico, cercano di
ricorrere all’operato di strutture “nuove” ed indipendenti da questi ultimi. Si vedano, a riguardo, La Spina
– Majone (2000).
12
In particolare, l’azione regolatoria può essere rivolta verso settori facenti capo tanto alla sfera economica
quanto a quella sociale; da qui la distinzione tra forme di economic e forme di social regulation, quest’ultima,
in particolare, comparsa intorno alla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Per la distinzione tra
economic and social regulation si vedano, tra gli altri, Bailey (1987), Reagan (1987) e Baldwin and
McCrudden (1987).
13
Obiettivi legati, almeno ufficialmente, all’aumento del benessere sociale. <<Il termine regulation (per noi
“regolamentazione” nel senso di funzione regolatoria) si riferisce “[…] ad un tentativo da parte dello Stato di
dirigere la condotta […] di entità non statali […], esso copre l’intero interfaccia dei rapporti fra pubblico e privato, ed
include, oltre ad aree vecchio stile come i servizi di pubblica utilità e la politica antitrust anche […] la gran parte
della finanza pubblica, quote cospicue dell’economia monetaria, finanziaria e del commercio estero, vasti settori
dell’economia del lavoro, agricola e fondiaria e l’economia del benessere>> (Stigler 1981: 73). Per le caratteristiche
del processo regolatorio, Friedman, L.M. ‘On regulation and legal process’, in Noll, R.G. (1989).
8
individuare le motivazioni effettive in base alle quali i governi regolano
14
. La ragione di
questa “distinzione” metodologica deriva da una sorta di consapevolezza relativa al
fatto che la regolamentazione, prima ancora di essere un’attività economica (i.e.
“tecnica”), è un’attività governativa, un processo politico che si esplica attraverso la
partecipazione, diretta o indiretta, di tutti gli interessi che ne sono potenzialmente
incisi e che si adoperano per modificarne gli esiti a proprio vantaggio
15
. I risultati
effettivi di tale processo potrebbero differire dalle istanze normative che ne
costituiscono il fondamento, e per questa ragione che ogni tentativo di comprenderne
aspetti e dinamiche dovrebbe rispecchiare la natura, nel senso più ampio, sociale del
fenomeno ed adottare un punto di vista “trasversale”, attraverso cui considerarne tanto
la valenza socio-economica (obiettivi e tecniche) quanto quella prettamente politica,
legata alle scelte che le istituzioni pubbliche compiono al fine di “soddisfare ” le
preferenze della collettività.
Da un punto di vista normativo, è possibile distinguere teorie della
regolamentazione di natura “economica” e “non economica”: laddove queste ultime
trovano fondamento in argomentazioni eterogenee, che spaziano dalla necessità di
assicurare un equilibrio tra poteri all’interno della società, al bisogno di garantire
l’approvvigionamento di servizi sociali ed, addirittura, di perseguire finalità di tipo
estetico nella sfera socioeconomica
16
, la logica economica si basa sul concetto di
fallimento di mercato la cui origine risale alla riformulazione neoclassica del ‘teorema
della mano invisibile’ di Adam Smith. Esistono delle situazioni in cui l’esistenza di
imperfezioni nel meccanismo di mercato impedisce il raggiungimento di allocazioni
Pareto-ottimali, non consentendo agli operatori di sfruttare appieno i possibili vantaggi
14
Per gli approcci positivi e normativi alla regolamentazione, cfr. Reagan (1987).
15
Sulla regolamentazione come processo politico, cfr. Dixit (1996)
9
dello scambio economico. Per rimuovere o neutralizzare tali difetti
17
è necessaria
un’azione “esogena” rispetto alle dinamiche del mercato stesso: attraverso interventi di
regolamentazione è lo Stato ad assumersi il compito di portare avanti quest’azione e di
favorire il ripristino delle condizioni ideali a garantire l’efficiente dispiegarsi
dell’autonomo funzionamento di quest’ultimo
18
.
Da un punto di vista positivo, al contrario, la regolamentazione si spiega in base al
convincimento secondo cui a monte dell’attuazione di un programma regolatorio vi
sarebbe un elemento “catalitico”, attorno al quale tenderebbe a formarsi una sensibilità
sociale che induce le autorità governative ad intervenire per assecondarne le istanze.
I
primi interpreti accademici di questa “visione positivista”
20
condividevano l’idea che
l’allargamento del ruolo del governo nell’economia fosse conseguenza diretta del
processo di industrializzazione e dei suoi corollari in termini di concentrazione del
potere, crescenti impersonalità delle relazioni economiche nonchè complessità ed
interdipendenza della struttura socio-economica. In quest’ottica, l’intervento pubblico
avrebbe giustificazione endogena, nella misura in cui esso altro non rappresenta che la
reazione della società stessa, i cui valori sono mediati dalle istituzioni politiche, a
16
Per un’analisi puntuale di queste tematiche, che, pur concorrendo alla spiegazione di un fenomeno
complesso e “reale” come quello regolatorio (per spiegare il quale le speculazioni accademiche non sono
sufficienti), non rivestono l’oggetto specifico di questa già breve analisi, si veda Reagan (1987).
17
Difetti che possono derivare dalla presenza di potere di monopolio, di una scarsa o imperfetta
distribuzione dell’informazione, di beni pubblici e dal verificarsi di situazioni in cui si manifestano effetti
esterni – di carattere positivo o negativo – che provocano, come conseguenza diretta, una deviazione
nell’allocazione delle risorse economiche dai livelli di ottimo paretiano.
18
Gli interventi regolatori possono assumere varie forme; dalla nazionalizzazione delle industrie operanti
in condizioni di monopolio naturale (al fine di garantire prezzi concorrenziali) alla fornitura diretta di beni
pubblici; dall’internalizzazione degli effetti esterni attraverso l’uso di politiche di incentivazione alla
raccolta e distribuzione diretta dell’informazione necessaria per l’efficienza delle scelte individuali, etc.
19
Ad esempio un evento particolare, oppure la percezione diffusa di un cambiamento in atto negli assetti
socioeconomici, etc.
20
Scenziati politici quali R. E. Cushman, M. Bernstein e F. Merle, nonché economisti come J.M. Clarck e C.
Wilcox, i cui contributi si incentrano prevalentemente sull’analisi dell’esperienza statunitense tra il 1930 ed
il 1980, ovvero nel periodo di massima espansione dell’intervento pubblico. Per una rassegna, Reagan
(1987)
10
situazioni di cambiamento e trasformazione i cui effetti appaiono gestiti in modo
inadeguato dai tradizionali meccanismi di controllo sociale
21
.
Da un punto di vista operativo il termine regulation è stato utilizzato, sulle due
sponde dell’Atlantico, per indicare “oggetti” distinti; mentre nella tradizione
americana esso designa una forma di intervento ben caratterizzata, che si manifesta
attraverso le azioni ed i controlli che un’istituzione pubblica esercita sull’attività dei
soggetti privati operanti in un settore ritenuto di “peculiare interesse” per la collettività
e che rappresenta una forma “a parte” di policy making (il cui svolgimento richiede lo
sviluppo di conoscenze specifiche, l’acquisizione di una certa familiarità con le
dinamiche del settore regolato, etc.), nella tradizione europea con lo stesso termine ci si
riferisce ad una nozione “ampia” di intervento (di tipo legislativo, amministrativo e di
controllo sociale) il quale, non andando a contrassegnare una tipologia distinta o
innovativa di policy making, si è andato sommando alle funzioni tradizionalmente
svolte dalle autorità di governo
22
. Ne consegue che, se negli Stati Uniti si è sentita la
necessità di istituire un’amministrazione ad hoc, una burocrazia “a parte” che si
occupasse della gestione dell’intervento regolatorio, in Europa tale attività è stata
affidata agli organismi pubblici già titolari delle tradizionali forme di policy making:
dalle corti giudiziarie, agli organismi ministeriali o interministeriali, alle commissioni
parlamentari, etc.
21
Laddove le prime teorie positive di stampo politologico individuavano come fattore causale di un
intervento pubblico orientato a ristabilire equilibri sociali “stravolti” dagli effetti dell’industrializzazione,
le pressioni politiche provenienti dai gruppi sociali organizzati che si ritenevano “vittime” degli abusi del
potere concentrato, l’ottica degli economisti era più orientata a considerare gli stessi cambiamenti
produttivi, tecnologici e dell’organizzazione sociale ed economica, come la vera causa di quei problemi di
natura tecnico-distributiva la cui soluzione si andava cercando in un’estensione del controllo pubblico,
attuata in forme dirette o indirette. Per un’analisi puntuale delle tematiche si rimanda alla vasta letteratura
disponibile, per la quale si citano, come punti di riferimento i contributi di Reagan (1987), per le
prospettive politologiche e di Musgrave (1989) per quelle economiche.
22
Proprio l’adozione di quest’ottica ha fatto si che, nel dibattito europeo, lo studio e l’analisi della
regolamentazione fossero portati avanti in modo parallelo da discipline tanto guridiche, quanto