6
Capitolo I
Prospettiva interna: nascita ed evoluzione dell’art. 41-bis, ord.
penit.
1. Anni Settanta: i primi utilizzi di un “regime detentivo speciale” – 1.1. Gli “anni di
piombo” e l’introduzione dell’art. 90, ord. penit. – 1.2. La legge 10 ottobre 1986 (o legge
Gozzini) – 2. Anni Novanta: la legislazione di emergenza contro la criminalità organizzata. –
2.1. Gli “anni del tritolo”. – 2.2. Il d.l. 8 giugno 1992, n. 306 e l’affermazione del “doppio
binario penitenziario”. – 2.3. L’opera di “legittimazione” del regime detentivo speciale da
parte della Corte Costituzionale. – 2.4. La legge 7 gennaio 1998, n. 11. – 3. Anni Duemila:
l’istituzionalizzazione dell’art. 41-bis, comma 2, ord. penit. – 3.1. La legge 23 dicembre 2002,
n. 279. – 3.2. I risvolti della riforma del 2002 – 3.3. La legge 15 luglio 2009, n. 94 e l’odierna
disciplina del regime detentivo speciale.
1. Anni Settanta: i primi utilizzi di un “regime detentivo
speciale”.
1.1. Gli “anni di piombo” e l’introduzione dell’art. 90, ord. penit.
L’idea di un regime carcerario differente, in negativo, da quello ordinario
nasce per contrastare l’emergenza del dilagante fenomeno del terrorismo politico
in Italia, in quel periodo storico che va dalla fine degli anni Sessanta agli inizi
degli anni Ottanta del Ventesimo secolo, i cosiddetti “anni di piombo”.
7
Si viveva una situazione in cui numerosi gruppi clandestini armati,
fortemente politicizzati, dei quali le Brigate Rosse rappresentano il modello
meglio organizzato e più duraturo nel tempo, intrapresero la lotta armata come
“via principale della lotta di classe”
1
. Ciò non poteva significare altro che uno
scontro frontale e violento con i poteri dello Stato e dei “capitani d’industria”:
parafrasando le parole di De Andrade, a cui Renato Curcio
2
si rifaceva per il suo
programma di lotta, la città è oggi il cuore del sistema, il centro organizzativo
dello sfruttamento dell’enstablishment economico-politico. “Ma è anche il punto
più debole del sistema, dove le contraddizioni appaiono più acute, dove il caos
organizzato che caratterizza la società tardo capitalista appare più evidente. È qui
nel suo cuore che il sistema va colpito”
3
dalla lotta armata. E così accadde:
l’opposizione violenta operava principalmente nelle città, con diversi tipi di
bersagli, sia umani che materiali, tutti riconducibili al potere dello Stato o alle alte
dirigenze di grandi realtà aziendali. I modi di agire erano estremamente violenti e
imprevedibili, come la diffusione della manovalanza terrorista era capillare.
L’emergenzialità della situazione non si attenuava nemmeno all’interno
delle mura carcerarie: i detenuti legati alle frange terroristiche dimostrarono presto
di essere in grado di coinvolgere i detenuti “comuni” nelle attività sovversive,
creando quindi collegamenti fra ristretti e gruppi di fuoco all’esterno del carcere.
1
Questo predicava, tra gli altri, Marcelo De Andrade, rivoluzionario brasiliano citato da Curcio in
una sua relazione tenuta in una pensione di Chiavari, nel 1969, denominata Lotta sociale e
organizzazione nella metropoli, innanzi ai membri del Collettivo politico metropolitano, nucleo
primordiale delle Brigate Rosse. Per un approfondimento sul contesto e sui gruppi armati durante
gli “anni di piombo” vedi G. GALLI, Piombo rosso. La storia completa della lotta armata in
Italia dal 1970 a oggi, Baldini Castoldi Dalai Editore, Milano, 2004; G. BOCCA, Il terrorismo
italiano 1970-1978, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1981.
2
Figura di spicco del terrorismo rosso. Tra i fondatori delle Brigate Rosse.
3
Parole del Collettivo politico metropolitano, presenti nel documento Lotta sociale e
organizzazione nella metropoli del 1969, citate in G. BOCCA, Il terrorismo italiano 1970-1978,
Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1981, al quale si rimanda per un approfondimento
sull’argomento.
8
Per fronteggiare questo proselitismo dilagante, che portava anche a veri e propri
reclutamenti da sviluppare una volta finita la pena, lo Stato rispose introducendo
la prima esperienza codificata di sospensione delle regole di trattamento
carcerario ordinario in situazioni di emergenza, l’art. 90
4
della legge
sull’ordinamento penitenziario n. 354 del 1975. Con questa disciplina, in realtà, si
puntava ad attuare una riforma penitenziaria votata alla risocializzazione del
detenuto e dunque attuativa del principio costituzionale di rieducazione della
pena, di cui all’art. 27, comma 3, Cost., obbiettivo che però tradiva una debolezza
normativa e logistico-strutturale del sistema penitenziario, dovuta rispettivamente
alla sottovalutazione, da parte del legislatore, della gestione intramuraria dei
detenuti pericolosi, ignorando la necessità di prevedere un trattamento
differenziato per soggetti dotati di grande capacità a delinquere e alla
inadeguatezza delle case di reclusione a fronteggiare il fenomeno terroristico, con
annesse rivolte interne ed evasioni
5
.
Pertanto, all’indomani della riforma, si ritenne necessario apporre una
deroga allo stesso finalismo risocializzante a cui essa aspirava: con un decreto
interministeriale del 4 maggio 1977, firmato dal Ministro di Grazia e Giustizia
Bonifacio, dal Ministro della Difesa Lattanzio e dal Ministro dell’Interno Cossiga,
4
Rubricato “Esigenze di sicurezza”, vi si leggeva testualmente che “quando ricorrano gravi ed
eccezionali motivi di ordine e sicurezza, il Ministro per la Grazia e Giustizia ha facoltà di
sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione in uno o più stabilimenti penitenziari, per un periodo
determinato, strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla
presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza”.
Abrogato dalla legge n. 663 del 1986. Per un’analisi specifica della norma vedi L. CESARIS,
Commento all’art. 90, in F. Della Casa, G. Giostra (a cura di), Ordinamento penitenziario
commentato, V ed., Cedam, Assago, 2015, pp. 1074-1075.
5
Cfr. su tali punti T. PADOVANI, Il regime di sorveglianza particolare: ordine e sicurezza negli
istituti penitenziari all’approdo della legalità, in L’ordinamento penitenziario tra riforme ed
emergenza (1986-93), V. Grevi (a cura di), Cedam, Padova, 1994 e L. CESARIS, Commento
all’art. 14-bis, in F. Della Casa, G. Giostra (a cura di), Ordinamento penitenziario commentato, V
ed., Cedam, Assago, 2015, pp. 163-164.
9
fu istituito l’Ufficio per il coordinamento dei servizi di sicurezza degli istituti
penitenziari, comandato dal Generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa.
In tal modo venne conferito al Generale il potere di individuare, di concerto con
l’Amministrazione penitenziaria, gli istituti di pena ritenuti maggiormente sicuri
per i detenuti più pericolosi. Lo stesso anno, con un successivo decreto
interministeriale del 21 luglio, vennero quindi istituite per la prima volta le
“carceri speciali”
6
. Divenne allora possibile applicare efficacemente l’art. 90 ord.
penit.
7
, in penitenziari dove era stata trasferita la maggior parte dei detenuti
pericolosi. Le restrizioni previste avevano lo scopo di evitare contatti fra detenuti
sovversivi ed altri loro adepti esterni al carcere, nonché di inibire le
comunicazioni anche al suo interno: limitazione alla partecipazione alle attività
comuni e al passeggio all’aperto, divieti su alcuni generi da introdurre in carcere,
limitazioni nel numero e nello svolgimento dei colloqui, controlli sulla
corrispondenza, ecc. Vengono qui dunque anticipate quelle esigenze di
prevenzione che costituiscono il presupposto del vigente regime speciale di
detenzione
8
.
Tale disciplina derogatoria però finì subito col mostrare le sue falle dal
punto di vista delle garanzie di differenziazione del trattamento, venendo infatti
applicata, per carenza di strutture idonee a contenere tutti i detenuti pericolosi,
anche in case di reclusione contenenti ristretti non rientranti nel regime speciale, i
6
Cfr. S. ARDITA, Il regime detentivo speciale 41-bis, Giuffrè, Milano, 2007 e A. MORRONE, Il
penitenziario di massima sicurezza nella lotta alla criminalità organizzata, in Diritto penale e
processo, 2004, n. 6, pp. 749-750.
7
Cfr. L. CESARIS, Commento all’art. 90, in F. Della Casa, G. Giostra (a cura di), Ordinamento
penitenziario commentato, V ed., Cedam, Assago, 2015, pp. 1074-1075, che a proposito del
circuito parallelo delle carceri speciali, parla di un suo sviluppo, ed utilizzo, indipendente dalle
applicazioni dell’art. 90 ord. penit., prospettando il problema di una errata identificazione del
circuito di massima sicurezza con l’attuazione della suddetta norma penitenziaria.
8
Cfr. S. ARDITA, Il regime detentivo speciale 41-bis, Giuffrè, Milano, 2007 e L. CESARIS,
Commento all’art. 90, in F. Della Casa, G. Giostra (a cura di), Ordinamento penitenziario
commentato, V ed., Cedam, Assago, 2015, pp. 1074-1075.
10
quali venivano travolti dalla sua attuazione generalizzata, colpevoli solo di
condividere lo stesso penitenziario. Ciò comportava inevitabilmente anche una
sua permeabilità a possibili abusi e violazioni dei diritti dei detenuti, considerando
che il suo utilizzo era rimesso alla discrezionalità del Ministro di Grazia e
Giustizia e, nella sua materiale attuazione, dell’Amministrazione penitenziaria,
non essendo peraltro prevista alcuna forma di controllo giudiziario
sull’applicazione, né alcuna disposizione normativa sulle specifiche misure da
adottare in concreto per la sospensione del trattamento ordinario
9
.
1.2. La legge 10 ottobre 1986, n. 663 (o legge Gozzini).
Agli inizi degli anni Ottanta, con lo scemare della violenza terroristica,
venne meno quel clima emergenziale che aveva giustificato le numerose e
automatiche applicazioni del regime ex art. 90 ord. penit. Era adesso richiesta una
effettiva personalizzazione del trattamento intramurario, che distinguesse la
risposta sanzionatoria verso i responsabili di crimini propri di situazioni di
marginalità da quella verso detenuti appartenenti non solo al terrorismo politico,
bensì pure alla criminalità organizzata
10
; ma soprattutto era richiesta una
giurisdizionalizzazione del sistema carcerario, ormai troppo in balìa della
discrezionalità operativa dell’Amministrazione penitenziaria
11
. Occorreva dunque
riprendere l’accantonato riformismo penitenziario orientato alla risocializzazione
9
Cfr. ARDITA S., Il “carcere duro” tra efficacia e legittimità, in Criminalia, 2007, pp. 251-252 e
L. CESARIS, Commento all’art. 90, in F. Della Casa, G. Giostra (a cura di), Ordinamento
penitenziario commentato, V ed., Cedam, Assago, 2015, pp. 1074-1075. .
10
Vedi S. ARDITA, Il regime detentivo speciale 41-bis, Giuffrè, Milano, 2007.
11
Cfr. in tal senso L. CESARIS, Commento all’art. 14-bis, in F. Della Casa, G. Giostra (a cura di),
Ordinamento penitenziario commentato, V ed., Cedam, Assago, 2015, p. 164 e V. GREVI, Scelte
di politica penitenziaria e ideologie del trattamento nella l. 10 ottobre 1986, n. 663, in V. Grevi (a
cura di), L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, Cedam, Padova, 1994.
11
del detenuto, senza però rinunciare a garantire l’ordine e la sicurezza all’interno
dell’istituto penitenziario, con strumenti normativamente prefissati e con le
garanzie del vaglio dei giudici
12
.
La legge 10 ottobre 1986, n. 663, anche nota come “legge Gozzini”,
perseguì tali obbiettivi abrogando innanzitutto l’art. 90 ord. penit., che per le sue
applicazioni aveva sollevato dubbi di legittimità costituzionale, facendone invece
confluire il proprio raggio d’azione in due nuove istituti: uno di portata generale,
di cui all’art. 41-bis, comma 1, ord. penit.
13
, l’altro di portata individuale, secondo
gli artt. 14-bis e 14-quater ord. penit. Riguardo al primo, diversamente dal suo
predecessore, sembra non avere una connotazione di eccezionalità normativa: la
sua collocazione nel capo IV della legge, dedicato al “regime penitenziario”,
anziché come norma di chiusura del sistema, evidenzierebbe proprio il suo
carattere di norma ordinaria
14
. Dal punto di vista contenutistico invece non paiono
esserci particolari innovazioni, ma c’è una miglior specificazione dei suoi
presupposti applicativi, che sottolineano come la sospensione debba essere attuata
solo in situazioni eccezionali e imprevedibili, nonché di particolare gravità; inoltre
il suo ambito di operatività non è più generalizzato a una pluralità di istituti
penitenziari, ma solo a quello interessato o a parte di esso
15
.
12
F. DELLA CASA, Le recenti modificazioni dell’ordinamento penitenziario: dagli ideali
smarriti della “scommessa” anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del “doppio binario”,
in V. Grevi (a cura di), L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza. 1986-93, Cedam,
Padova, 1994, p. 73, parla di “vero e proprio rilancio della prima legge penitenziaria”.
13
L’articolo recita testualmente: “In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di
emergenza, il Ministro della giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di
esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La
sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la
durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto”.
14
In questo senso cfr. L. CESARIS, Commento all’art 41-bis, in F. Della Casa, G. Giostra (a cura
di), Ordinamento penitenziario commentato, V ed., Cedam, Assago, 2015, p. 446.
15
Vedi sempre L. CESARIS, Commento all’art 41-bis, in F. Della Casa, G. Giostra (a cura di),
Ordinamento penitenziario commentato, V ed., Cedam, Assago, 2015, pp. 446-447.
12
Con la seconda inserzione, la riforma ha inoltre puntato a una parallela
personalizzazione del trattamento differenziato, introducendo un “regime di
sorveglianza particolare”
16
. In tal modo si tentò quindi di ovviare all’applicazione
dei regimi eccezionali a tutto l’istituto e, con la possibilità di reclamo prevista
all’art. 14-ter ord. penit., si ripristinò la legalità nel settore dell’ordine e della
sicurezza intramuraria, controbilanciando la discrezionalità dell’Amministrazione
penitenziaria
17
.
Una questione problematica riguardava, invece, l’oggetto della
sospensione, data la genericità del termine “trattamento” menzionato nell’art. 41-
bis, comma 1, senza ulteriori specificazioni. Genericità dovuta alla notevole
ampiezza del concetto di trattamento penitenziario, “definito dalla serie dei capi
che compongono il titolo I della legge 354/75, i quali comprendono in pratica tutte
le regole suscettibili di interferire negativamente con le esigenze di ordine e
sicurezza quando si prospetti una situazione di emergenza”
18
. Nella ricerca di un
inquadramento certo delle regole trattamentali suscettibili di sospensione ci viene
però in aiuto l’art. 14-quater ord. penit., recante le restrizioni applicabili ai
detenuti sottoposti al regime di sorveglianza particolare
19
. Nonostante la loro
16
Vedi L. CESARIS, Commento all’art. 14-bis, in F. Della Casa, G. Giostra (a cura di),
Ordinamento penitenziario commentato, V ed., Cedam, Assago, 2015, p. 164.
17
Così L. CESARIS, Commento all’art. 14-ter, in F. Della Casa, G. Giostra (a cura di),
Ordinamento penitenziario commentato, V ed., Cedam, Assago, 2015, p. 171.
18
T. PADOVANI, Il regime di sorveglianza particolare: ordine e sicurezza negli istituti
penitenziari all’approdo della legalità, in V. Grevi (a cura di), L’ordinamento penitenziario tra
riforme ed emergenza. 1986-93, Cedam, Padova, 1994.
19
In particolare la norma prevede, al comma 1, che “Il regime di sorveglianza particolare
comporta le restrizioni strettamente necessarie per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza,
all’esercizio dei diritti dei detenuti e degli internati e alle regole di trattamento previste
dall’ordinamento penitenziario”. Prevede inoltre, al comma 4, che le restrizioni non possono in
ogni caso riguardare: l’igiene e le esigenze della salute; il vitto; la permanenza all’aperto ecc.,
dunque diritti fondamentali della persona o comunque diretti al soddisfacimento di bisogni
primari. Per un commento sulla norma vedi L. CESARIS, Commento all’art. 14-quater, in F.
13
diversità, i due istituti condividono lo stesso obbiettivo: riportare o assicurare le
condizioni essenziali per la realizzazione del trattamento penitenziario
20
. Il
decreto ministeriale ex 41-bis, comma 1 poi non può, in ogni caso, intaccare il
nucleo essenziale dei diritti dei detenuti, che tra l’altro è proprio quello
individuato dall’art. 14-quater ord. penit. Per cui si deve ritenere che sia proprio
quel nucleo il limitare oltre il quale la sospensione non può procedere
21
.
2. Anni Novanta: la legislazione di emergenza contro la
criminalità organizzata.
2.1. Gli “anni del tritolo”.
A voler continuare la denominazione di periodi storici in base agli episodi
criminali che maggiormente li caratterizzano, se gli anni del terrorismo di matrice
politica si è deciso di ritrarli con il piombo, i primi anni Novanta certamente
possono essere riconosciuti come “anni del tritolo”, in cui assumono una
posizione centrale le cosiddette “bombe del 1992-1993”
22
. Appartengono, tra gli
Della Casa, G. Giostra (a cura di), Ordinamento penitenziario commentato, V ed., Cedam, Assago,
2015, p. 176 e ss.
20
Così L. CESARIS, Commento all’art. 41-bis, in F. Della Casa, G. Giostra (a cura di),
Ordinamento penitenziario commentato, V ed., Cedam, Assago, 2015, p. 447.
21
Cfr. L. CESARIS, Commento all’art. 41-bis, in F. Della Casa, G. Giostra (a cura di),
Ordinamento penitenziario commentato, V ed., Cedam, Assago, 2015, p. 447, nonché, sempre
della stessa autrice, Commento all’art. 14-quater, in F. Della Casa, G. Giostra (a cura di),
Ordinamento penitenziario commentato, V ed., Cedam, Assago, 2015, p. 176.
22
Locuzione presente in Wikipedia. Testualmente: “un periodo della storia d’Italia caratterizzato
da una serie di attentati con ordigni da parte di Cosa nostra, realizzati in Italia durante i primi anni
novanta del XX secolo, precisamente tra il 1992 e il 1993”. Cfr. anche la “Comunicazione del
14
altri, a questa serie le stragi di Capaci e di via D’Amelio, rispettivamente del 23
maggio e del 19 luglio 1992, in cui persero la vita i due magistrati simbolo della
lotta dello Stato a Cosa nostra: Giovanni Falcone prima, Paolo Borsellino poi;
l’esplosione a San Giovanni in Laterano e il fallito attentato dinamitardo al
giornalista Maurizio Costanzo, entrambi a Roma, nel 1993, che non fecero
vittime; le stragi di via Palestro a Milano e di via dei Georgofili a Firenze, sempre
nel 1993. L’immancabile telefonata, dopo ogni attentato, a rivendicare di volta in
volta queste azioni criminali, nominava la “Falange Armata”, fantomatica
organizzazione terroristica con un curriculum lungo venticinque anni, con diverse
intermittenze, di rivendicazioni di omicidi, esplosioni e intimidazioni
23
, nonché
una massa eterogenea di adepti che dalle indagini sono risultati mandanti delle sue
azioni, anche al di fuori di Cosa nostra
24
.
Per gli attentati sopra menzionati, ovvero quelli che ci interessano per
l’evolversi di questa trattazione, sono risultati responsabili, quindi condannati, fra
mandanti ed esecutori, membri di Cosa nostra. La logica fondante però non era
comune a tutte queste azioni. Alla base degli omicidi di Falcone e Borsellino vi
era un motivo legato alle singole personalità e all’operato fortemente incisivo dei
due magistrati nella guerra alla mafia; delitti, dunque, in perfetta sintonia con il
modus operandi che la criminalità organizzata di stampo mafioso ha da sempre
utilizzato verso figure dello Stato ritenute “troppo zelanti”, a prescindere dalla
Presidente sui grandi delitti e le stragi di mafia del 1992-1993”, nel “Resoconto stenografico della
50ª seduta della Commissione parlamentare antimafia, 30 giugno 2010”.
23
La prima rivendicazione è datata 27 ottobre 1990 ed è per l’omicidio di Umberto Mormile,
educatore carcerario del carcere di Milano Opera. L’ultima azione è una lettera minatoria, arrivata
sempre al carcere di Opera il 24 febbraio 2014, indirizzata a Totò Riina (così F. MARCONI, Il
mistero mai risolto della Falange Armata dietro le bombe del ’93, in L’Espresso, 25 maggio
2018).
24
Vedi F. MARCONI, Il mistero mai risolto della Falange Armata dietro le bombe del ’93, in
L’Espresso, 25 maggio 2018. Cfr. anche L. BALDO, Le stragi, le trattative e la Falange Armata,
su www.antimafiaduemila.com, 9 marzo 2013 e A. PETTINARI, Sentenza trattativa: “Falange
armata” sigla oltre Cosa nostra, su www.antimafiaduemila.com, 27 luglio 2018.
15
loro caratura
25
. Sono però stati gli ultimi episodi in un lungo corso di fatti
delittuosi e di vittime della stessa tipologia; delitti che, dagli anni Ottanta, con
l’avvento dei Corleonesi al vertice della cupola di Cosa nostra, avevano acquisito
una inquietante connotazione di estrema violenza e spettacolarità
26
.
2.2. Il d.l. 8 giugno 1992, n. 306 e l’affermazione del “doppio binario
penitenziario”.
Un primo intervento legislativo finalizzato a rendere più efficace l’azione
di contrasto dello Stato contro la criminalità mafiosa avvenne con il d.l. 13
maggio 1991, n. 152, convertito in l. 12 luglio 1991, n. 203, che, introducendo
nella legge di ordinamento penitenziario l’art. 4-bis ord. penit.
27
, sancisce la
nascita di quel “doppio binario”
28
che, da quel momento, diverrà la base su cui
differenziare il trattamento inframurario in rapporto alla natura del reato
commesso dal condannato
29
. L’originaria versione della disciplina individuava
due categorie di condannati:
25
Cfr. la Comunicazione del Presidente sui grandi delitti e le stragi di mafia del 1992-1993, nel
Resoconto stenografico n. 48 della 50ª seduta della Commissione parlamentare d’inchiesta sul
fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, 30 giugno 2010, pp. 7-8.
26
Cfr. C. DEL FRATE, Corleone, Liggio, 200 cadaveri e le stragi: ascesa criminale e caduta di
Totò Riina, 5 giugno 2017, su www.corriere.it e L. CAMINITI, E il villano di Corleone divenne
Totò la belva, 18 novembre 2017, su ildubbio.news.
27
Per un’analisi completa dell’articolo vedi L. CARACENI, C. CESARI, Commento all’art. 4-bis,
in F. Della Casa, G. Giostra (a cura di), Ordinamento penitenziario commentato, V ed., Cedam,
Assago, 2015, pp. 44-90.
28
Vedi C. FIORIO, Il “doppio binario” penitenziario, in Archivio penale, 2018, n. 1.
29
V. GREVI, Verso un regime penitenziario progressivamente differenziato: tra esigenze di difesa
sociale ed incentivi alla collaborazione con la giustizia, in V. Grevi (a cura di), L’ordinamento
penitenziario tra riforme ed emergenza, Cedam, Padova, 1994, parla di “norma chiave per il
sistema dei nuovi equilibri che all’inizio degli anni novanta si volevano instaurare – quanto alle