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demografica che non imponeva una delimitazione precisa tra le differenti società statali
o prestatali.
Questo lavoro si propone di analizzare la tematica delle questioni riguardanti la
definizione delle frontiere nel continente africano da parte delle potenze europee e in
particolare approfondisce le vicende, molto particolari, che portarono alla creazione
dello stato congolese e dei suoi confini. Attraverso la ricostruzione dei maggiori
accadimenti e fenomeni politici che portarono alla destrutturazione delle società
africane precoloniali, il lavoro analizza l’impatto che la cristallizzazione geopolitica
delle frontiere coloniali, stabilite in sede di negoziato tra le potenze europee, produsse in
sede di decolonizzazione nei sistemi politici africani e delle interazioni di tali sistemi
nei processi di assestamento politico-territoriale. La questione della definizione dei
confini politici ha rappresentato la grande incognita che le amministrazioni indipendenti
africane hanno dovuto affrontare al momento della decolonizzazione, soprattutto in
rapporto all’estraneità ad uno stato che non avevano contribuito a far nascere e che
aveva delle frontiere in gran parte “ideate” dai colonizzatori per la delimitazione dei
possedimenti coloniali.
Il comune interesse dei paesi africani ad affrontare la questione degli ex confini
coloniali fu subito evidente, principalmente in relazione alla prospettiva di una possibile
serie di conflitti per l’autodeterminazione o per la secessione di qualche minoranza
africana. La stessa Organizzazione dell’ Unità Africana (O.U.A.) fece i conti con questo
rilevante problema ma, dal momento della sua costituzione, un punto fermo fu il rispetto
della sovranità e dell’integrità territoriale di ogni stato e del suo diritto ad una esistenza
indipendente. All’opposto, le speranze dei panafricanisti che esaltavano la revisione
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delle frontiere coloniali per la creazione di uno stato continentale attraverso un progetto
sviluppato attorno ad un’idea di unione politica.
L’imposizione di confini artificialmente tracciati fu una delle tante forme, forse
la più visibile, con cui gli europei vincolarono gli africani ad una modernità totalmente
imposta, senza la minima presa di coscienza della struttura antropologica e del
patrimonio storico-culturale autoctono. Le popolazioni autoctone, al momento della
colonizzazione, si trovarono a doversi raffrontare ad ambiti territoriali sconosciuti e ciò
ebbe profonde ripercussioni sulle identità di gruppo delle popolazioni. Il lavoro di
ridefinizione territoriale e culturale portato avanti dalle amministrazioni coloniali servì a
fissare e consolidare le appartenenze di tipo etnico, dando vita a un processo di
accentuata «etnicizzazione» delle società africane. Collettività che erano già di per sé
composite furono così predisposte all’emergere di contrapposizioni ancora più nette tra
le diverse comunità presenti al loro interno. Con l’indipendenza e il passaggio dei poteri
alle classi politiche africane nel migliore dei casi si sviluppò una sorta di integrazione
regionale “dal basso”, realizzata a margine delle istituzioni attraverso solidarietà
socioculturali e scambi commerciali transfrontalieri. Nell’ultimo secolo quindi le
frontiere visibili, concrete o simboliche, storiche o naturali dell’Africa hanno continuato
a mutare, facendo comparire forme inedite e inattese di territorialità. E’ evidente che i
confini in questa prospettiva non indicano necessariamente le frontiere ufficiali, le leggi
o la lingua degli stati.
Di fianco a tali dinamiche che si possono chiamare “positive”, se ne aggiungono
altre, come per esempio il fallimento in fase di decolonizzazione di molti progetti
democratici e di conseguenza l’emergere di forme di sovranità, di controllo politico e
sociale al di fuori dello stato e in totale concorrenza con esso. Lo spazio nazionale
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diventa così oggetto di una sovrapposizione di territori e di divisioni interne in cui si
scontrano diverse sfere d’influenza: statale, religiosa, della tradizione, provocando una
serie infinita di conflitti locali che seguono le regole dell’appartenenza etnica e
territoriale.
Lo studio sia apre con un primo capitolo dedicato al concetto di confine e alla
sua evoluzione nel continente africano. Partendo dal periodo precoloniale sino alla
costituzione nell’epoca coloniale dello stato di matrice europea, il capitolo si chiude con
due paragrafi, uno relativo ai modi di acquisizione dei territori e di definizione delle
frontiere da parte dei poteri europei, l’altro mette in luce il rapporto tra le popolazioni
autoctone e l’inedita realtà dei confini.
Il secondo capitolo affronta le vicende che portarono alla fondazione dello stato
congolese da parte del sovrano del Belgio Leopoldo II (1835-1909), che scorse
nell’impresa coloniale lo sbocco naturale alle proprie ambizioni. In principio, questa
inedita entità statale denominata Stato Libero del Congo non fu un possedimento
coloniale ma una vera ed effettiva potenza. L’Associazione Internazionale del Congo
(compagnia privata facente capo direttamente al sovrano belga, la quale non agì in
Africa come strumento di una potenza europea) ebbe lo scopo di creare
un’organizzazione statale nuova, indipendente e sovrana che per qualche decennio fu
proprietà privata del sovrano. Il capitolo affronta in modo approfondito le problematiche
della definizione dei confini, stabiliti in sede di negoziato tra le potenze europee e
l’Associazione Internazionale del Congo, evidenziando che tale entità statale non fu da
subito geograficamente e politicamente ben definita, ma costituì all’inizio una semplice
amalgama di territori e tribù diverse, in cui l’effettività dell’occupazione, richiesta
dall’articolo 35 dell’Atto Generale del Congresso di Berlino, era più simbolica che
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sostanziale. Alla morte di re Leopoldo II nel 1908, il Belgio «ereditò» il Congo che
divenne una colonia tradizionale.
Il terzo capitolo si occupa, attraverso la prospettiva della decolonizzazione, del
pesante lascito delle ex frontiere coloniali e del divario esistente tra il disegno dei
confini e le sottostanti realtà sociali.
Il quarto capitolo, infine, è dedicato alle nefaste conseguenze dell’indipendenza
del Congo Belga. Il nascente stato congolese indipendente passò dalla secessione del
Katanga alla dittatura di Mobutu Sese Seko, sino alla progressiva “decomposizione” del
regime negli anni novanta. Dalla presa del potere da parte di Laurent Désiré Kabila nel
’97, la Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire) ha mostrato sempre più strutture
statali fragili ed instabili, sino alla odierna suddivisione attraverso un processo di
frantumazione interna e di destrutturazione violenta dei quadri territoriali esistenti come
primo passo della disgregazione dello stato. La situazione attuale si presenta ancora
oggi molto instabile, è attiva infatti una missione di peace-keeping denominata
MONUC, in cui i tradizionali compiti di interposizione e di monitoraggio
tradizionalmente assolti dalle forze di pace hanno fallito.
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Capitolo 1
L’AFRICA E I SUOI CONFINI
1.1 Confini e frontiere
1.1.1 L’evoluzione del confine
Tracciare un confine significa analizzare, definire e riconoscere in chiave
geopolitica un territorio. Esso ha anche funzione simbolica di riferimento, di
discontinuità geopolitica, di contenitore che è limite dell’esercizio della sovranità, in cui
l’uomo tende a vivere avendo bisogno di una barriera che delimiti lo spazio che ha
occupato (Guazzini F., 1999, p. 42). Il confine segnala il luogo di una differenza, indica
una separazione tra spazi contigui, stabilisce il limite utilizzato dalla collettività per
segnare il territorio. Ogni proprietà o appropriazione da parte degli individui è segnata
da limiti più o meno visibili, reperibili sia sul territorio, per mezzo di una effettiva
indicazione con elementi fisici, sia attraverso una rappresentazione astratta in cui il
confine è una linea teorica di divisione (Zanini P., 1997, p. 10).
E’ problematico sapere se le popolazioni preistoriche sentivano in qualche modo
il bisogno di un limite territoriale e a cosa questo potesse corrispondere in senso pratico.
Sulla base dei materiali etnografici riferibili alle società tradizionali odierne, l’idea di
limite, di frontiera territoriale è reperibile presso i popoli di tutti i continenti, dalle
Americhe all’Oceania. La delimitazione può accompagnarsi ad una demarcazione in
senso moderno, se non politico del termine, nella misura in cui il supporto alla frontiera
è costituito da barriere naturali come corsi d’acqua o catene montuose (Guichonnet P.,
Raffestin C., 1974, p. 15). L’ipotesi, pur circolata a lungo, di gruppi umani senza
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territori e senza confini perde sempre più vigore. Era un’ipotesi originatasi forse sulla
scia dell’osservazione di «società senza stato», aggregati umani rimasti ai margini
dell’universo progredito e finiti poi sotto la lente degli etnologi. E vi era in questo la
conferma di un diffuso quanto indebito schiacciamento dei concetti di territorio e di
confine sotto quello di stato; non era stata percepita l’idea di un quadro politico, di uno
spazio definito di socialità, fuori della cornice partorita per lo stato dalla storia recente
dell’Occidente. La proiezione del territorio e dei suoi limiti dentro la gerarchia di valori
che regge le relazioni umane non avviene sempre in veste dominante. Nell’impianto
tribale o in quello feudale, ad esempio, le relazioni di sangue o il sistema delle alleanze
hanno la meglio sui legami territoriali, senza per questo escluderli; i confini restano qui
fluttuanti, sfumati, ribaltabili e aperti (Coppola P., 1986, p. 10).
Tuttavia, l’esistenza del limite significa che il territorio gioca un ruolo
fondamentale, ha quindi una funzione sociale. Ad esempio, per gli aborigeni australiani
uno degli elementi portanti per la definizione della tribù consiste nell’occupare una certa
superficie territoriale circoscritta. La tradizione, per questi nativi, comincia dalla
familiarità con il territorio tribale, che si acquisisce attraverso la conoscenza degli
itinerari e dei luoghi particolari che li contrassegnano (Cuisenier J., 2001, p. 35). Questi
territori non hanno una connotazione politica né economica, ma essenzialmente
sembrano rivestirsi di un significato mitologico in ragione del legame spirituale del
territorio. Il carattere sacro delle frontiere e dei limiti è osservabile dall’antichità ai
giorni nostri e sembra avere avuto un’eco sufficiente nelle popolazioni tale da essere
utilizzato con una grande efficienza. Questa trasmissione del carattere sacro si è
tramutata nei tempi moderni nelle forme laiche del nazionalismo. La frontiera nelle
società primitive era l’espressione di un bisogno derivato combinando l’organizzazione
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socio-religiosa e, eventualmente, l’organizzazione socioeconomica. La frontiera ha
avuto anche il senso di limite della civiltà come per gli Imperi cinesi e romani.
Presso questi due popoli, la frontiera, malgrado la costruzione dei Valli per i
romani e della Grande Muraglia per i cinesi, non era precisamente definita e delimitata.
Era piuttosto una fascia, una zona sfrangiata, più o meno estesa in funzione dei rapporti
che correvano tra una parte e l’altra della frontiera, non era solamente un mezzo di
differenziazione spaziale ma un mezzo di differenziazione temporale. I tempi dei
“Barbari” trascorrevano diversamente a causa delle loro attività organizzate in modo
dissimile rispetto ai cinesi e ai romani. La Grande Muraglia che assicurò la difesa contro
gli Unni, tracciava anche la differenza tra due modi di vita: da una parte, i coltivatori
sedentari e consumatori di cereali, dall’altra i nomadi allevatori e consumatori di carne e
latticini. Molte delle pratiche primitive abbandonate dalla civiltà cinese sopravissero
nelle società delle steppe oltre la Grande Muraglia, che non fu altro che un tentativo
disperato di preservare lo sviluppo di una civilizzazione diversa. Dall’altra parte del
mondo, i romani, si confrontarono con problemi simili che cercarono di risolvere con il
limes, un insieme di barriere per lo più naturali (come fiumi e montagne) che venivano
intervallate da strade ed erano presidiate da soldati; tali barriere correvano lungo le linee
di frontiera. Il termine deriva infatti dal vocabolo latino che sta a significare “linea di
confine”. La politica romana in materia di frontiere ha lasciato tracce modeste nel
paesaggio, come i Valli di Traiano e di Adriano. Ma, in compenso, ha marcato
profondamente le coscienze: il limes renano fu all’origine della famosa ideologia che
vedeva nel Reno una frontiera naturale. Lungo queste fortificazioni, che erano sia zone
difensive che di contatto, si distribuivano un gran numero di individui che praticavano
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una profonda modificazione dello spazio, e avevano il compito di fungere da
esposizioni della romanità presso i barbari.
Il crollo dell'Impero Romano con la conseguente frantumazione territoriale e il
feudalesimo, influenzarono sensibilmente l'idea di frontiera nel Medio Evo. Il sistema
che legava il signore ed il vassallo, il legame di vassallaggio, era personale e si
contrapponeva perciò al principio territoriale che comincerà ad imporsi a partire dal
tredicesimo secolo col declino del Medio Evo, sottolineato dal trionfo progressivo del
principio ereditario. I feudi implicavano delle discontinuità, delle rotture di autorità, di
conseguenza, un mosaico che moltiplicava le frontiere; la carta del Sacro Romano
Impero Germanico riproduceva più di 350 stati. Mentre nella transizione dal mondo
medioevale a quello moderno si assiste a due processi fondamentali; il primo è il
passaggio dall’eterogeneità ad una progressiva omogeneizzazione istituzionale delle
forme di organizzazione del potere che continuerà fino al nostro secolo; l’altro riguarda
l’affermazione del principio dell’unicità della sovranità e del suo carattere territoriale.
Nel giro di circa duecento anni la forma stato, e in particolare lo stato-nazione, ha
progressivamente eliminato dalla scena internazionale altre forme rivali di
organizzazione del potere.
Il Rinascimento, con lo sviluppo dell’astronomia e della matematica, va a
rivoluzionare in larga parte la cartografia, che grazie al progresso scientifico rende
appunto possibile la volgarizzazione della carta geografica, cha diventa lo strumento
privilegiato per definire, demarcare e delimitare i confini. Si passa così da una fase in
cui la frontiera era detta zonale e che ha caratterizzato il periodo medioevale, ad una
fase di linearizzazione della frontiera coincidente con l’apparizione dei primi Stati
moderni (Guichonnet P., Raffestin C., 1974, p. 18). La linearizzazione è quindi una
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tendenza dello stato moderno che non si è smentita dal quindicesimo secolo in poi, per
culminare nel ventesimo secolo con linee “rigide”, anzi persino impermeabili perché
sottolineate mediante muri (Muro di Berlino). Dei fattori ideologici (Est-Ovest) portano
persino ad una demarcazione lineare estremamente precisa che corrisponde nei fatti ad
una zona geografica sempre più impermeabile (Raffestin C., 1981, p. 171).
Nasce e si sviluppa così nell’Ottocento la teoria delle frontiere naturali,
supportata dalla convinzione che la stessa “natura” potesse fornire agli uomini i limiti e
le direzioni entro cui muoversi e svilupparsi. Il confine naturale era qualcosa di
predestinato, un’ideale da conquistare e realizzare, quasi fosse un dono divino (Zanini
P., 1997, p. 19). In base a tale concezione, derivata principalmente dalle teorie del
geografo Ratzel e dei suoi seguaci e contaminata con le rivendicazioni irredentistiche e
nazionalistiche dell’epoca, ogni stato avrebbe dovuto, come per un fatale destino o per
una organica potenzialità, raggiungere determinate frontiere ottimali, appunto
“naturali”; a favore di queste “frontiere naturali” si invocavano criteri ed elementi
diversi (etnici, linguistici, economici, strategici, ecc.), spesso coincidenti con barriere
fisiche che la natura aveva disseminato sulla terra; all’idea di confine quindi si
associava quella di popolo (volk) con i suoi spazi e i suoi ritmi di vita (Bono S., 1972, p.
10). Il diciannovesimo secolo conoscerà il trionfo di questo principio di nazionalità che
ispirerà la definizione delle frontiere sino ai trattati che riorganizzeranno l'Europa
all'indomani del primo conflitto mondiale. L’applicazione del principio di nazionalità
per la definizione delle frontiere si complicò quando alla concezione tedesca, carica di
elementi etnografici, si oppose la concezione francese, fondata sulla coscienza per la
patria. La frontiera soprattutto in un contesto di Stati-Nazione di tipo europeo venne
manipolata come strumento per comunicare una ideologia. Essa è divenuta un segno, o
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meglio, un segnale inconfutabile del limite sacro del territorio con un passato glorioso,
che i governanti utilizzarono per mobilitare un’opinione pubblica più sensibile alle
capacità dello Stato Moderno giunto ormai ad un controllo territoriale assoluto.
Parallelamente si sviluppò l’idea di frontiera come limite degli Imperi. Questa
concezione si sviluppò sin dal quindicesimo secolo, quando le grandi scoperte portarono
al Trattato di Tordesillas, firmato a Tordesillas (Castiglia) il 7 giugno 1494, che divise il
mondo, al di fuori dell'Europa, in un duopolio esclusivo tra l'Impero Spagnolo e
l'Impero Portoghese. In seguito a tale trattato l'Oceano Atlantico venne
convenzionalmente diviso da una linea immaginaria chiamata “Raya” dal Polo Nord al
Polo Sud. Essa era collocata a 370 leghe a Ovest delle Isole del Capo Verde cioè a 43° e
30' di longitudine Ovest. Al Portogallo toccavano tutte quelle terre comprese fino a 136°
30' di longitudine Est tra cui l'Africa, l'Asia e la parte orientale del Brasile, mentre le
rimanenti tra cui il continente americano appartenevano alla corona spagnola. La
concezione imperialistica vedeva la frontiera come una «membrana periferica» (Ratzel
1897), che si deformava al momento dell'espansione dello stato; non era altro che una
zona instabile da definire e stabilizzare (Guichonnet P., Raffestin C., 1974, p. 21). E’
lungo questa mobile fascia di contatto che ha inizio l’assorbimento delle potenze in
declino e le condizioni per ampliare gli spazi vitali di quelle in espansione, i cui popoli
sono più saldamente muniti del «senso» dello spazio. Un’altra concezione imperialistica
parlava di «frontiera scientifica» (Lord Curzon 1907), riconducibile al modello
imperiale inglese. Tale concezione era costruita su elementi strategico-militari, attinti
dalla lunga esperienza di compromessi negoziali e di demarcazione minuta, è la linea
che perimetra meglio la pax britannica.
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I trattati che chiusero il primo conflitto mondiale inseguirono in modi diversi
un’idea di confine che rendesse giustizia alle individualità etnico-culturali, misurate
allora con lo sfuggente metro dell’unità linguistica. Su molti dei problemi di frontiera
aperti o irrisolti in quella circostanza si proiettò poi come un’ombra sinistra la dura
replica della geopolitica tedesca, tutta protesa ad assicurare al Reich il confine autentico,
giusto, in quanto consono ai suoi destini.
Dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale, gli accordi di Yalta
sembrarono congelare le frontiere dentro i blocchi ideologici. Il sistema dei blocchi
concentrò lungo la linea di contatto tra mondo capitalista e mondo comunista gran parte
delle tensioni, alleggerendo le controversie sui vecchi confini, dei quali l’uniformità dei
sistemi economici tendeva a proporre un’ulteriore defunzionalizzazione. (Coppola P.,
1986, p. 12).
Da questa configurazione bipolare del sistema internazionale derivavano quindi
due certezze ritenute indiscutibili: l’intangibilità delle frontiere e l’accettazione di un
ordine gerarchico fra gli stati che implicava, per la maggioranza di essi, una sorta di
sovranità esterna limitata. Negli anni ’90 però, il crollo del blocco sovietico ha
modificato i rapporti si forza su scala globale; sono sorti nuovi soggetti politici con
proprie frontiere, rinnovando una politica dell’identità, che nel periodo del bipolarismo
era stata marginalizzata. Il discorso sulle frontiere si è di improvviso riacceso,
soprattutto in quei luoghi che già avevano fatto i conti con il processo di
decolonizzazione. Le frontiere diventano soprattutto un affare da Terzo Mondo, in cui
vari conflitti si susseguono, provocati spesso per motivi interni di legittimazione di stati
o di élite appena nascenti.
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1.1.2 La formazione del confine
I termini «confine» e «frontiera» sono utilizzati sia in modo da rendere palese
una differenza di significato, sia in modo intercambiabile. Tutti e due hanno a che
vedere con la modificazione del paesaggio reale, trasformando il territorio che
fisicamente viene occupato e abitato. Generalmente però, si tende ad affermare una
differenza di significato e di uso, distinguendo con il termine frontiera la zona di
territorio nei cui caratteri si manifesta concretamente la divisione fra due diverse entità
territoriali e con il termine confine la linea di separazione fra le due entità (Bono S.,
1972, p. 1). In inglese alla linearità corrisponde il termine «boundary», e alla zonalità il
termine «frontier»; tale distinzione si ha anche nella lingua francese che distingue tra
«frontière» per la linearità, e «frange pionnière» per la zonalità (Guichonnet P.,
Raffestin C., 1974, p., 26).
La frontiera indica una regione di confine che forma una fascia di separazione,
contatto e transizione tra unità politiche che esercitano le proprie funzioni interstatali
(Bono S., 1972, p. 1), ma anche la divisione fra parti abitate e disabitate di uno stesso
stato (Prescott J. R. V., 1965, p. 33). La frontiera è rivolta verso o contro qualcuno o
qualcosa, è mobile, in continua trasformazione. In quanto investita di funzioni sociali è
una costruzione assolutamente artificiale, nasce dalle aspirazioni e dalle aspettative di
una comunità, è instabile e questa incertezza si percepisce non solo a livello politico o
spaziale, ma anche nella lingua, nelle abitudini e nei costumi della società; i suoi bordi
non sono mai netti, né perfettamente definibili, né in assoluto impermeabili (Zanini P.,
1997, p. 15). E’ dipendente da forze marginali che possono essere influenzate da un
potere centrale, è la manifestazione di forze centrifughe orientate verso l’esterno
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(Guichonnet P., Raffestin C., 1974, p., 27). Per lungo tempo le frontiere sono state mal
definite, raramente ben delimitate e ancor meno marcate.
Il confine, invece, è una linea di delimitazione o demarcazione tra entità
amministrative o regioni geografiche di vario tipo, sia fisiche che umane (Bono S.,
1972, p. 3). Dipende da un’autorità centrale, da uno stato che lo mantiene e ne assicura
il controllo a la sorveglianza, è una manifestazione di forze centripete orientate verso
l’interno; è un concetto politico e giuridico di ispirazione tipicamente occidentale
(Guichonnet P., Raffestin C., 1974, p., 28). Stabilire un confine significa quindi fondare
uno spazio, definire un punto fermo da cui partire e a cui fare riferimento, è linea certa e
stabile, almeno sino a quando non si modificano profondamente le condizioni che
l’hanno determinato. L’occupazione della terra è il primo atto che si deve compiere per
potere essere in grado di tracciare successivamente un confine di qualunque tipo (Zanini
P., 1997, p. 35).
Di vitale importanza è la ricostruzione delle fasi del processo attraverso il quale
ciascun confine passa dalla esistenza astratta, come linea teorica di divisione, a quella
concreta, corrispondente cioè ad una effettiva indicazione sul terreno (Bono S., 1972, p.
6). La difficoltà di reperire tali fasi è collegata allo studio del contesto storico e politico,
delle condizioni e delle ragioni per il quale il confine è stato stabilito. Generalmente
vengono individuate quattro fasi:
1. L'allocazione, si riferisce alla decisione politica che determina la
attribuzione del territorio.
2. La delimitazione, comporta la selezione di uno specifico luogo di
confine.
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3. La demarcazione, si riferisce alla concreta indicazione del confine sul
terreno.
4. L’amministrazione, si riferisce ai provvedimenti per soprintendere alla
manutenzione del confine stesso.
L’allocazione informa in modo ancora molto grossolano sul territorio e sulla
suddivisione auspicata. Quando un confine veniva creato in una frontiera dove la
geografia del territorio era conosciuta, e dove la densità di popolazione era moderata,
era possibile selezionare il luogo dove il confine sarebbe passato. In questo caso la fase
di allocazione coincideva con quella della delimitazione. In aree meno note sostenute da
una densità di popolazione spesso bassa, la prima divisione politica era stabilita
attraverso dei confini arbitrari di due tipi principali. Il primo tipo consisteva in linee
diritte che connettevano punti noti o coordinate; l’altro tipo coincideva con
caratteristiche del paesaggio fisico, che spesso era conosciuto in modo imperfetto. Tali
confini erano quelli tipici della competizione coloniale.
La decisione politica che determinava l’attribuzione di un confine arbitrario,
generalmente risolveva immediatamente conflitti territoriali e permetteva agli stati di
progettare lo sviluppo delle colonie in sicurezza. La selezione del luogo dove collocare
il confine, riferibile a elementi del paesaggio fisico e culturale, di solito era intrapreso
solamente quando la zona di confine aveva un valore economico ed intrinseco, o se gli
interessi o gli antagonismi dei due stati richiedessero una domanda rigida di funzioni
statali lungo quella specifica linea.