INTRODUZIONE
«La decrescita è elogio [...] della lentezza e della durata; rispetto del passato; consapevolezza che non c’è progresso
senza conservazione; indifferenza alle mode e all’effimero; attingere al sapere della tradizione; non identificare il nuovo
col meglio, il vecchio col sorpassato, il progresso con una sequenza di cesure, la conservazione con la chiusura
mentale; non chiamare consumatori gli acquirenti, perché lo scopo dell’acquistare non è il consumo ma l’uso;
distinguere la qualità dalla quantità; desiderare la gioia e non il divertimento; valorizzare la dimensione spirituale e
affettiva; collaborare invece di competere; sostituire il fare finalizzato a fare sempre di più con un fare bene finalizzato
alla contemplazione. La decrescita è la possibilità di realizzare un nuovo Rinascimento, che liberi le persone dal ruolo di
strumenti della crescita economica e ri-collochi l’economia nel suo ruolo di gestione della casa comune a tutte le
specie viventi in modo che tutti i suoi inquilini possano viverci al meglio».
Maurizio Pallante, www.decrescitafelice.it
Questa breve tesi espone le caratteristiche principali del movimento della decrescita.
Ho scelto di sviluppare questo argomento per diversi motivi. Il primo è che lo ritengo
di importanza fondamentale per il futuro del nostro Pianeta e quindi di ognuno di noi.
Secondariamente, si tratta di una teoria che non è stata trattata in alcun corso di
studio, di cui non ho mai sentito parlare né tra le mura universitarie né ad incontri o
dibattiti a cui ho partecipato all'esterno e ha da subito stimolato la mia curiosità.
Inoltre in essa si incontrano diversi tipi di conoscenze, che, intersecandosi, si
completano. In questo modo, documentandomi, ho anche potuto approfondire
tematiche che riguardano discipline che mi piacciono molto come l'ecologia, la
sociologia e la politica.
«Dove andiamo? Dritti contro un muro. Siamo a bordo di un bolide senza pilota,
senza marcia indietro e senza freni, che sta andando a fracassarsi contro i limiti del
pianeta.»
Latouche S., Breve trattato sulla decrescita serena
Questa è una delle frasi che si trovano nell'introduzione di uno dei libri più importanti
sull'argomento, che prenderò come punto di partenza per la mia analisi.
Si analizzerà l'argomento suddividendolo in tre parti principali, o per meglio dire, tre
tappe analitiche.
Nella prima si cercherà di quantificare ciò che secondo questo filone di pensiero sta
portando il mondo verso un declino inesorabile.
Nella seconda si analizzerà la proposta alternativa alla società della crescita ovvero la
cosiddetta utopia concreta della decrescita.
Nella terza, si preciseranno gli strumenti per la sua realizzazione in un programma
politico.
PRIMA PARTE
«Se la bellezza che la Terra deve alle cose venisse distrutta dall'aumento illimitato della ricchezza e della popolazione
[…] allora io spero sinceramente, per amore della posterità, che questa sarà contenta di rimanere stazionaria, molto
tempo prima di esservi costretta dalla necessità.»
John Stuart Mill
In Occidente consumiamo, mangiamo troppo. Nel Sud del mondo, invece, milioni di
persone muoiono di fame. Viviamo in una società la cui economia ha l'unica finalità
della crescita fine a sé stessa. In questo contesto la decrescita è l'abbandono
dell'obiettivo della crescita illimitata, abbandono del produttivismo, il cui unico
obiettivo è quello del conseguimento del profitto, con conseguenze disastrose per
l'ambiente e quindi per l'umanità. La ricerca del guadagno a tutti il costi si sviluppa
attraverso l'espansione del binomio produzione-consumo e la compressione dei costi; i
manager cosiddetti cost-killers sono contesi dalle società con contratti stratosferici. Lo
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strumento di cui si servono è soprattutto quello di esternalizzare i costi in modo tale
da farli ricadere su terzi, come natura, generazioni future, dipendenti, Stati e servizi
pubblici, sui paesi del Sud e sui clienti, con conseguenze perverse.
«Fin dai suoi inizi la società “termoindustriale” ha prodotto sofferenze e ingiustizie da
non apparire desiderabile a molti»
«Non soltanto la società è ridotta a mero strumento e mezzo della meccanica
produttiva, ma l'uomo stesso tende a diventare lo scarto di un sistema che punta a
renderlo inutile e farne a meno»
Latouche S., Breve trattato sulla decrescita serena
La decrescita è “doposviluppo”, non è crescita negativa: un tasso di crescita tale,
quando presente, sprofonda la società d'oggi nella paura e nell'ansia più totali; ma ciò
si può capire facilmente: sarebbe una società della crescita senza la sua ragion
d'essere! Proprio per questo la decrescita va concepita in una società della decrescita.
Si deve inoltre sottolineare il fatto che non stiamo parlando di crescita sostenibile,
concetto fortemente avversato da coloro che hanno a cuore la decrescita. Si tratta
infatti di un termine confuso ed impostore. Confuso perché non è ben chiaro il suo
significato e i suoi obiettivi, impostore perché inventato al fine di dare un'immagine di
cambiamento ad un qualcosa che in realtà fa solo finta di modificare la propria rotta.
E' oramai uno slogan molto di moda, utilizzato a fini ingannevoli dalla maggior parte
degli imprenditori e agenti economici in genere; tristemente famosa al riguardo la
frase di Michel-Edouard Leclerc, imprenditore della grande distribuzione: «Il termine è
talmente ampio e condito in tutte le salse che chiunque può rivendicarlo. E poi, è vero,
è un concetto alla moda. Sia nel mondo delle imprese che in tutti i dibattiti sulle
questioni sociali. E allora? I mercanti hanno sempre saputo fare propri i buoni slogan».
Dobbiamo ricordare oltretutto che per i teorici della decrescita lo sviluppo non è né
sostenibile né durevole; secondo il WWF, infatti (rapporto 2006) solo un paese nel
mondo adotta il cosiddetto sviluppo sostenibile (Cuba).
La decrescita è un'idea che storicamente parte già dagli anni '60. Tuttavia solamente a
partire dagli anni '70 la questione dell'ecologia all'interno dell'economia comincia ad
essere attentamente analizzata soprattutto grazie al lavoro di Nicholas Georgescu-
Roegen. L'economista rumeno notò che l'economia, utilizzando il modello newtoniano
della meccanica classica, esclude l'irreversibilità del tempo, ignora quindi il fatto che le
trasformazioni dell'energia e della materia siano irreversibili. Per fare un esempio, i
rifiuti e l'inquinamento prodotti dall'attività economica non rientrano direttamente nel
processo produttivo per come questo è classicamente strutturato.
La produzione economica, per come è generalmente concepita dalla teoria
neoclassica, non sottostà a limiti ecologici (molti economisti continuano ad affermare
che «finché il sole brillerà, sulla Terra non esistono limiti “scientifici” insuperabili allo
sviluppo dell'attività economica»); ciò ha portato ad uno sfruttamento smisurato delle
risorse esauribili e alla sottoutilizzazione di quelle rinnovabili. L'eccesso dell'uomo
come padrone unico della natura, ha completamente soppiantato l'antica saggezza
dell'uomo che viveva immerso in un ambiente traendone beneficio in modo
ragionevole. La deduzione di Georgescu-Roegen è l'impossibilità di una crescita infinita
in un mondo finito e la necessità di sostituire l'economia classica con la bioeconomia,
cioè pensare l'economia all'interno della biosfera. Latouche nel suo libro mostra dei
numeri che a mio parere hanno un'importanza fondamentale nello spiegare il
problema della crescita illimitata: «Con un aumento del PIL pro capite del 3,5% annuo
si ha un fattore di moltiplicazione 31 in un secolo e 961 in due secoli! E con un tasso di
crescita del 10%, che è quello attuale della Cina, si ottiene un fattore di
moltiplicazione 736 in un secolo!». A questo punto la conclusione dell'autore è: «Se la
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crescita producesse automaticamente il benessere, dovremmo vivere in un vero
paradiso da tempi immemorabili». Dato che il pagamento delle pensioni, l'occupazione
e la spesa pubblica nella civiltà della crescita sono garantite dall'aumento costante del
PIL, il lavoratore diventa un «biodigestore che metabolizza il salario con le merci e le
merci con il salario, transitando dalla fabbrica all'ipermercato e dall'ipermercato alla
fabbrica» (Cacciari, Pensare la decrescita). La capacità di rigenerazione della Terra non
riesce più a seguire la domanda: le risorse naturali vengono trasformate dall'uomo in
spazzatura più velocemente di quanto la natura riesca a convertire quest'ultima in
nuove risorse. Un modo per misurare quanto le nostre abitudini pesano sull'ambiente,
è l' ”impronta ecologica” che esse hanno in termini di superficie o spazio
bioproduttivo. Ciò che risulta è insostenibile sia dal punto di vista della capacità di
carico della biosfera sia da quello della parità dei diritti di estrazione delle risorse. Lo
spazio bioproduttivo è quello utile per riproduzione della nostra specie; diviso per la
popolazione attuale dà circa 1,8 ettari per persona. Dalle ricerche dell'istituto
californiano Redifining Progress e del WWF (World Wide Foundation) la media di
consumo a testa è oggi di 2,2 ettari; ma questa è solo la media, all'interno della quale
si notano differenze imbarazzanti. Se ognuno vivesse come i francesi, per esempio,
avremmo bisogno di tre pianeti, ma se ci comportassimo come gli americani, ve ne
servirebbero addirittura sei! Come è possibile una situazione tale? Per due
motivi principali: il primo è che in alcuni decenni abbiamo bruciato quello che il
pianeta ha lentamente sviluppato in milioni di anni! Il secondo è che l'estrema povertà
del Sud del mondo ci permette questo stile di vita.
Urge quindi riscoprire la saggezza della chiocciola che, oltre a ricordarci la lentezza
ormai dimenticata (anche se movimenti come quello di Slow Food la stanno
riscoprendo), impartisce una lezione fondamentale per il fatto che smette di ingrandire
il proprio guscio quando un'ulteriore crescita di questo avrebbe un peso troppo grave
da trasportare.
Una delle soluzioni proposte per il problema dell'equazione della sostenibilità da parte
dei geopolitici conservatori è quella di ridurre la dimensione del denominatore, cioè
ridurre la popolazione. Nel rapporto di Henry Kissinger del 10 dicembre 1974 dal titolo
«Incidenze della crescita della popolazione mondiale sulla sicurezza degli Stati Uniti e
sui loro interessi all'estero» si legge: «Per perpetuare l'egemonia americana nel mondo
e assicurare agli americani un libero accesso ai minerali strategici in tutto il pianeta, è
necessario contenere, o addirittura ridurre, la popolazione di tredici Paesi del Terzo
Mondo (India, Bangladesh, Nigeria...) il cui semplice peso demografico li condanna, per
così dire, a svolgere un ruolo di primo piano nella politica internazionale». Come lui la
pensavano anche molti altri autori, come il dottor M. King, David Nicholson-Lord e
William Vogt. Essi ritenevano che si sarebbero dovute effettuare manovre persuasive
nei confronti dei paesi sopracitati, ma senza “interferire troppo”; se queste non fossero
andate a buon fine si sarebbe dovuto intervenire con le maniere forti, anche con una
guerra batteriologica se necessario!
Questa soluzione non inquadra, a parere di Latouche, il problema fondamentale,
individuato da lui nella prassi della dismisura del sistema economico vigente. La
questione demografica potrà essere affrontata solo una volta effettuato il cambio di
paradigma. I limiti sono, sempre secondo l'economista e filosofo francese, elastici. Egli
propone invece come almeno parziale soluzione, la riduzione del consumo di carne, da
parte dei paesi ricchi. Ciò porterebbe indubbi miglioramenti a livello di salute delle
popolazione e del bestiame in seconda battuta, a livello di emissioni di biossido di
carbonio e a livello di spazio dedicato alla coltivazione per uso umano invece che per i
foraggi. La sfida propria della decrescita è ben evidenziata da una frase di Frans de
Waal «Il problema posto da una demografia mondiale galoppante è di capire non tanto
se saremo o meno capaci di gestire la sovrappopolazione quanto se sapremo ripartire
le risorse con onestà ed equità».
Una domanda fondamentale che dobbiamo porci è: come fa la società dei consumi ad
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