LA DECRESCITA ECONOMICA
Introduzione
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dominante, indicando una prospettiva alternativa rispetto ai diversi modelli di
sviluppo esistenti che sposti l’obiettivo dalla crescita quantitativa allo sviluppo
qualitativo.
I fenomeni del degrado ambientale e dell’esaurimento delle risorse
dimostrano questa insostenibilità, e si ricollegano alla duplice funzione svolta
dalla natura nei confronti dell’attività economica: fattore produttivo in termini
di risorse naturali che da essa si possono estrarre e, allo stesso tempo,
destinazione finale degli scarti e dei rifiuti della produzione. La produzione
crescente di beni e servizi implica l’utilizzo anch’esso crescente di materia ed
energia le quali, a loro volta, conducono a un impatto crescente sugli
ecosistemi; ogni attività produttiva comporta inoltre una degradazione
irreversibile di quantità crescenti di materia ed energia, il che rende la crescita
illimitata della produzione, basata sullo sfruttamento di risorse finite non
rinnovabili, vincolata dai limiti fisici della biosfera.
La “provocazione” della decrescita economica va oltre la dimensione
fisica del processo economico. E’ opportuno rilevare, infatti, come questa
teoria si sia sviluppata a partire dalla critica al “prodotto interno lordo” quale
misura imperfetta del benessere e all’opinione comune secondo cui il
benessere sia misurabile attraverso il consumo e la quantità di beni
acquistabili. Il PIL è un flusso puramente mercantile che non solo considera
positiva ogni produzione (e ogni spesa) a prescindere dalla sua natura e dal
suo contributo effettivo al reale benessere individuale e collettivo, ma che,
inoltre, non comprende tutte quelle attività e risorse che pur non essendo di
natura mercantile, incidono in maniera determinate sul benessere, come ad
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esempio la disponibilità di “beni relazionali”. La prosperità economica è il
risultato dell’accumulazione di continui deficit ecologici e di costi che pur non
essendo “conteggiati” ricadono – e ricadranno – necessariamente sulla
collettività nel suo insieme. Il PIL risulterebbe molto più basso se fossero
internalizzati i costi sociali dei danni provocati dalle attività di produzione e
consumo e se venisse tenuto conto del fatto che materie prime ed energie
naturali consumate oggi sono necessariamente perdute per le generazioni
future (sono, cioè, consumo di capitale).
Il paradigma della decrescita economica ha fatto suo l’imperativo di
scindere il miglioramento del benessere dei singoli individui dall’aumento
quantitativo della produzione materiale, con l’obiettivo di promuovere la
riduzione del PIL: una riduzione del “ben-avere” misurato dagli indicatori
economici che si accompagna all’aumento del “ben-essere” realmente vissuto.
In questo modo si richiama la necessità e l’urgenza di “scollegare” il
benessere individuale e sociale dall’uso e dallo sfruttamento delle risorse
naturali presenti in quantità fisiche limitate e necessarie al sostentamento
della vita stessa. In questo contesto, la rilevanza economica della decrescita si
sostanzia in una riduzione complessiva delle quantità fisiche prodotte, di
quelle consumate, e delle risorse impiegate, attraverso una trasformazione
complessiva della struttura socio-economica, politica, e dell’immaginario
collettivo verso assetti sostenibili, nella prospettiva di un significativo aumento
del benessere sociale.
Contrariamente a quanto gli stessi “obiettori di crescita” sostengono,
tra cui lo stesso “teorico della decrescita”, Serge Latouche, il carattere
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“rivoluzionario” ed innovativo del paradigma in questione non risiede nella
rottura rispetto all’ideologia dominante della crescita economica illimitata. Pur
riconoscendo la radicalità di una proposta che va a minare le fondamenta
dell’immaginario dominante, questa rottura è abbastanza relativa. Gli impianti
concettuali e le fondamenta scientifiche del paradigma della decrescita sono
già stati prodotti e formulati in maniera più che pertinente nel corso degli
ultimi cinquanta anni. Il paradigma della decrescita va inquadrato, infatti,
come il risultato di un processo di maturazione scientifica che ha ripreso
tematiche ed approcci “antichi”, seppure a lungo ritenuti marginali ed
eterodossi. In effetti, l’economia è stata una tra le prime scienze sociali ad
affrontare le questioni relative al benessere individuale, alle interdipendenze
tra sistema socio-economico e ambiente naturale, al degrado ambientale e
alla finitezza delle risorse.
La tendenza ad esaltare le differenze e le peculiarità tra questa
posizione e tutto ciò che “è stato” rischia di non riconoscere la rilevanza di
tutti quei filoni scientifici che avevano già mosso sostanzialmente le stesse
critiche e sostenuto analoghe soluzioni, seppure forse in maniera più
frammentata. Il “paradigma della decrescita economica” è, però, senza dubbio
quello che più di ogni altro ha fatto propria l’eredità storica ed ideologica di
tutti quei contributi e quelle posizioni che hanno individuato nella crescita
economica illimitata la causa principale della insostenibilità ecologica e sociale.
La decrescita economica non può però esaurire qui il suo ruolo nella
proposta di “natura messianica” e nel suo “carattere rivoluzionario”. Invece
deve necessariamente chiarire e puntualizzare in maniera analitica un
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impianto concettuale che, per la sua natura multidimensionale, rischia di
rimanere avvolto da una confusione metodologica. Non solo, il paradigma
della decrescita deve concretizzare la sua proposta di trasformazione sociale e
definire una “matrice di alternative”. E ciò per non cadere in una marginalità
settaria, quanto per assumere il più possibile serietà e legittimità.
Concentrarsi su tutte le “variabili di input” e le “variabili di output”,
fondamentali per il processo economico, è la strada per indagare a fondo ed
affrontare in maniera diretta le questioni relative alle attività di produzione e
di consumo. Se questo costituisce il suo reale campo di analisi e di azione,
dematerializzazione e cambiamento di preferenze e meta-preferenze
rappresentano i reali fondamenti teorici della decrescita economica, la cui
reale novità è rappresentata dal tentativo di costruire la nuova società
attraverso micro-cambiamenti, piccole ma diffuse deviazioni nelle traiettorie
tecnologiche, le quali sarebbero in grado di produrre in futuro nuove
dimensioni e nuovi quadri comportamentali nelle relazioni sociali, nelle
relazioni economiche e nei modelli di produzione e consumo. Inserirsi quindi
nel processo di modificazione delle preferenze e impegnarsi a mostrare,
attraverso “micro-azioni”, “micro-innovazioni” e traiettorie tecnologiche
trascurate, come la consapevolezza individuale e sociale possa mutare senza
che siano le modificazioni nei prezzi relativi a governare l’allocazione delle
risorse, sia collettive che individuali, oltre che la non corrispondenza tra
benessere ed uso crescente di materia ed energia, necessario alla crescita
della produzione e del consumo materiale.
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L’effettiva riduzione in termini assoluti e globali dell’impronta ecologica
e dello sfruttamento delle risorse naturali sino a livelli compatibili con la
capacità accertata dei limiti del pianeta – in una parola: dematerializzazione –
è lo strumento necessario a mostrare come sia possibile aumentare il “ben-
essere” a scapito del “ben-avere” e innescare un “circolo virtuoso” di
cambiamento delle preferenze a partire da traiettorie tecnologiche inesplorate
o marginalizzate. Un cambiamento che, come detto, non si sostanzia in un
adattamento ad una variazione dei prezzi relativi, ma in una trasformazione
che non guarda a questi come motore dell’agire sociale. Non solo questa
rappresenta la reale “uscita dall’economico” di cui i sostenitori della decrescita
si fanno portavoce, ma rappresenta la sfida di questo paradigma.
L’imperativo della decrescita economica va concretizzato attraverso
questo inserimento nel processo circolare tra preferenze, società e tecnologia,
nella consapevolezza di come dalla valutazione delle alternative e delle loro
conseguenze nascano nuove preferenze, modifiche nelle aspirazioni e
cambiamenti negli stili di vita, nei modelli di consumo e nei modi di
produzione. E se la questione centrale è rappresentata dalla co-evoluzione di
preferenze e dematerializzazione, allora non può essere sottovalutato il ruolo
svolto dall’innovazione tecnologica, dove per tecnologia viene inteso non solo
l’aspetto semplicemente tecnico, ma più in generale il livello di conoscenza e
di organizzazione della società, nonché la complessiva intensità d’uso delle
risorse ambientali. Un’innovazione tecnologica che, vincolata dal controllo
sociale, deve essere finalizzata alla difesa, alla preservazione e alla
rigenerazione del capitale naturale, abbandonando la falsa concezione
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secondo cui questo possa essere sostituito dal capitale artificiale prodotto
dall’uomo.
I limiti naturali non devono essere superati o “spostati” attraverso i
progressi tecnologici, ma è all’interno del loro riconoscimento che le “vecchie
tecnologie” devono essere vagliate non tanto alla luce della loro produttività
economica privata, quanto alla luce dei loro benefici e costi sociali. Per questa
ragione occorre sviluppare e potenziare “tecnologie intelligenti” guidate da
considerazioni ed esigenze ecologiche; un’intelligenza che non a caso è
possibile chiamare “intelligenza naturale”. Il fatto che queste direzioni e
queste traiettorie tecnologiche “alternative” siano già state intraprese, non
solo dal mondo scientifico ma anche da quello economico ed industriale, rende
concretizzabile oggi come non mai una decrescita economica, anche sullo
sfondo di uno scenario istituzionale che, almeno a livello ideale, ha raggiunto
un grado di accordo senza precedenti sul rapporto tra esseri umani e
ambiente naturale.
A mancare non sono oggi le soluzioni o le possibilità, bensì piuttosto
una volontà politica tesa a tutelare una nuova coscienza ed una nuova
responsabilità ambientale, tanto scientifica quanto civile, ancora troppo
marginalizzate all’interno dell’odierna società.
Il primo capitolo di questo lavoro espone l’evoluzione storica della
“questione ambientale”, evidenziando le tappe fondamentali di un processo di
maturazione scientifica ed istituzionale, necessario a collocare il paradigma
della decrescita economica in una prospettiva storico-critica. Il secondo
capitolo illustra il pensiero di colui che viene identificato come il “teorico della
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decrescita”, soffermandosi tanto sugli aspetti rilevanti e le tematiche
innovative, quanto sui limiti e le superficialità del suo approccio. Nel terzo
capitolo vengono analizzati in maniera analitica i reali fondamenti teorici della
decrescita economica, operando un cambio di prospettiva teso a superare la
confusione che spesso caratterizza questo paradigma e a coglierne la reale
novità. L’innovazione tecnologica ed i rapporti che la legano alla decrescita
economica sono al centro del quarto capitolo, nel quale viene descritto il ruolo
della tecnologia all’interno della “questione ambientale” e gli elementi che
caratterizzano una “tecnologia intelligente”. Il capitolo successivo, il quinto,
conclude questo lavoro, evidenziando non solo la serietà e la legittimità del
paradigma della decrescita ma dimostrandone anche la concreta possibilità di
realizzazione.
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Capitolo 1 – La questione ambientale: una prospettiva storico-critica
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Capitolo 1 – LA QUESTIONE AMBIENTALE: UNA PROSPETTIVA
STORICO-CRITICA
1.1 Premessa
Il “paradigma della decrescita” è il risultato di un processo di
maturazione che ha riguardato tanto il mondo scientifico quanto quello
istituzionale. Nonostante le differenze e le peculiarità che contraddistinguono
questi due sviluppi, e le seppur marginali concretizzazioni che questi sono
riusciti ad operare a livello sostanziale, non è possibile non riconoscere la
collocazione storica di una proposta radicale che supera la dimensione di una
critica alla crescita economica illimitata, e arriva a disegnare una traiettoria
alternativa a quella dominante.
I fenomeni del degrado ambientale e dell’esaurimento di risorse
naturali finite sono questioni che hanno acquisito una rilevanza ed
un’attenzione via via crescente nel corso della storia e che sono state oggetto
di studio e dibattito da più di un secolo a questa parte. Importanti indagini
scientifiche, in particolare l’analisi economica eterodossa e l’analisi ecologica,
hanno contribuito in maniera fondamentale a questo percorso, focalizzandosi
non solo sulle evidenze empiriche e le cause dei fenomeni suddetti ma anche
sulle soluzioni e le possibili vie di uscita da un sistema socio-economico che
minaccia la sopravvivenza delle generazioni presenti e future. Il “paradigma
della decrescita” è il frutto e la convergenza di questi contributi che, pur nella
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Capitolo 1 – La questione ambientale: una prospettiva storico-critica
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loro diversità analitica e metodologica – e accomunati dalla dissidenza rispetto
l’ideologia dominante – costituiscono punti di riferimento necessari per
comprendere come e perchè la scarsità delle risorse provenienti dall’ambiente
costituisce il limite naturale alla crescita economica. L’errore di non guardare il
proprio percorso evolutivo, seppur eterodosso, non solo crea il rischio di una
caduta in una dimensione “a-temporale”, ma allo stesso tempo non permette
al “paradigma della decrescita” di superare la marginalità che ha
contraddistinto questo fluire storico, critico verso un immaginario socio-
economico consolidato, di cui il ritardo sostanziale – rispetto a quello ideale –
del sistema politico-istituzionale ne è una dimostrazione.
1.2 Le radici classiche del problema ecologico
Nonostante la rilevanza via via crescente che la “questione ambientale”
ha assunto nel corso dell’ultimo cinquantennio e i vari tentativi che si sono
susseguiti nel cercare di datare l’inizio dello studio sulle interconnessioni tra
economia e ambiente, risulta fondamentale essere a conoscenza non solo di
come la disciplina ambientale si sia evoluta nel tempo ma anche di quali siano
le radici e le fondamenta teoriche che hanno dato luogo alle riflessioni sul
rapporto tra scienza economica e scienza ecologica.
Malgrado la parola ecologia sia stata inventata nel 1866 dal biologo
tedesco Ernst Haeckel che “nel divulgare le scoperte di Darwin, aveva
suggerito la necessità di una disciplina autonoma rivolta alla descrizione
dell’influenza che l’ambiente esercita sugli esseri viventi”, una disciplina che
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Capitolo 1 – La questione ambientale: una prospettiva storico-critica
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“avrebbe dovuto descrivere sia gli scambi di materia e di energia fra gli esseri
viventi e l’atmosfera, l’acqua, il mare, il terreno, sia gli scambi degli esseri
viventi tra di loro, uniti da catene alimentari” (Nebbia 1986), sono stati gli
economisti, e non i biologi, ad iniziare la riflessione sul rapporto fra l’uomo e
l’ambiente, in particolare su ciò che costituisce la base stessa della questione
ambientale: il rapporto tra il genere umano e le risorse di cui necessita per
vivere. “Furono infatti gli economisti classici a teorizzare che l’incremento
demografico avrebbe portato ad una diminuzione della produttività media
della terra coltivata e il contributo originale di Malthus a questa teoria fu
principalmente la riflessione sull’origine dell’incremento demografico e
sull’andamento della curva che ne esprime la tendenza” (Conti 1987).
Thomas Malthus quindi, ma anche altri importanti esponenti di quella
che può essere definita “economia classica” come Adam Smith, John S. Mill e
David Ricardo, mostrano già alla fine del diciottesimo secolo un’evidente
consapevolezza delle tematiche ambientali, in relazione alla capacità – e alla
possibilità – dello sviluppo economico di permettere un miglioramento
continuo delle condizioni di vita materiali nel lungo periodo. Uno sviluppo
economico che, iniziato dalla rivoluzione industriale, aveva indotto alla
riflessione su quanto questo potesse essere o meno duraturo nel tempo. E lo
scetticismo che accompagnava la risposta dei classici è da ricercare nella
legge dei rendimenti decrescenti secondo cui all’aumentare dell’impiego di un
fattore produttivo variabile con altri la cui offerta è fissa si ottiene un
ammontare addizionale di produzione via via decrescente. E’ evidente come la
legge – e pertanto l’approccio classico – malgrado abbia un’origine
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Capitolo 1 – La questione ambientale: una prospettiva storico-critica
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prettamente agricola per le caratteristiche del sistema economico dell’epoca,
sia strettamente connessa con la problematica della scarsità delle risorse
naturali, che l’incremento della popolazione avrebbe contribuito ad aumentare
drasticamente. La conseguenza di questo processo non può che essere
l’arresto del processo stesso di crescita economica.
Malgrado i limiti che l’impostazione classica presenta, non si può non
riconoscere come sia Malthus che Ricardo prefigurino già il concetto di
capacità di carico del suolo e pertanto della Terra: la finitezza delle risorse
naturali e le limitate possibilità di farne uso che ne derivano, costituiscono il
limite tanto alla crescita demografica quanto a quella economica. Sia pure con
una diversa accezione – assoluta per il primo e relativa per il secondo – il
vincolo di scarsità delle risorse risulta centrale nei loro studi al fine di una
corretta interpretazione dello sviluppo. Centrale quanto lo è oggi alla luce
della moderna dinamica economica. “The studies are mainly mono-
disciplinary, are in need of a policy reference, often include no political
statements, and are mainly of a scientific nature. But they are fundamental to
modern environmental studies in the sense that the issues and statements
they introduced are still topics of current policy” (Nelissen, Van Der Straaten e
Klinkers 1997).1 Uno schema di riferimento, quello malthusiano, che verrà
arricchito molti anni dopo – dai cosiddetti “neo-malthusiani” – di un ulteriore
elemento di “miseria” causato dal sovra-popolamento: il degrado della qualità
ambientale a causa dell’inquinamento, associato alla progressiva espansione
dell’attività economica prodotta dalla ricerca di elevati livelli di benessere da
parte di un sempre maggior numero di individui.
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Capitolo 1 – La questione ambientale: una prospettiva storico-critica
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Più di un secolo dopo il lavoro di Malthus – An Essay on the Principle of
Population (1798) – sarà l’economista inglese Arthur C. Pigou ad introdurre
quella che sarà una questione centrale all’interno del paradigma della
decrescita: la critica al PIL. “Pigou asks himself: is the Gross National Product
the right measure to calculate welfare and how does this measure include
negative external effects such as the depletion of natural resources, the
influence of pollution and contamination to the public health, etc.?” (Nelissen,
Van Der Straaten e Klinkers 1997).2 Professore di Economia Politica
all’Università di Cambridge dal 1908 al 1943, con la pubblicazione di The
Economics of Welfare nel 1920 Pigou evidenziava già allora come esistessero
dei casi in cui il meccanismo di mercato non conducesse ad un’allocazione
efficiente delle risorse per via di quelle che in economia vengono chiamate
esternalità negative: effetti negativi che scaturiscono dalle conseguenze che
un’azione di un soggetto ha su altri soggetti, senza che avvenga una
compensazione in termini monetari, ossia senza che il sistema dei prezzi di
mercato ne tenga conto. La realtà socio-economica osservata da Pigou – e
pertanto la sua impostazione – è naturalmente diversa da quella
prevalentemente agricola di Malthus e Ricardo. La rapida industrializzazione di
massa rendeva evidente come i benefici da essa prodotti non fossero
estendibili a tutta la società nel suo complesso. Lo sfruttamento capitalistico,
il degrado sociale, il lavoro minorile e le condizioni dei lavoratori – che
guideranno ad esempio le analisi di Marx – stimolarono Pigou ad un’ulteriore
riflessione riguardo il rapporto tra social and private net product: “the essence
of the matter is that one person A, in the course of rendering some service,
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for which payment is made, to a second person B, incidentally also renders
services or disservices to other persons (not producers of like services) of
such a sort that payment cannot be exacted from the benefited parties or
compensation enforced on behalf of the injured parties. […] we may set out
first a number of instances in which marginal private net product falls short of
marginal social net product, because incidental services are performed to
third parties from whom it is technically difficult to exact payment. […]
Corresponding to the above investments in which marginal private net
product falls short of marginal social net product, there are a number of
others, in which, owing to the technical difficulty of enforcing compensation
for incidental disservices, marginal private net product is greater than
marginal social net product” (Pigou 1920).3 Una chiara anticipazione di quelli
che K. William Kapp individuerà nei costi sociali dell’attività economica e per i
quali Pigou propone la soluzione di tasse compensative a carico dell’industria
– note come tasse pigouviane – con l’obiettivo di riportare in equilibrio i costi
privati del produttore e i costi sociali dell’intera collettività. “In the Pigovian
approach, negative external effects have to be defined by authorities which
allows them to monetarise these effects. An economic tax should be used to
shift the burden of these social costs to the polluting industry, restoring the
optimal allocation of production factors” (Nelissen, Van Der Straaten e
Klinkers 1997).4
Nonostante la rilevanza delle intuizioni sugli effetti sociali, sarà poi lo
stesso Kapp ad affrontare i limiti di tale approccio – più in generale i limiti
dell’approccio neoclassico – secondo cui è possibile valutare ed affrontare le