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Capitolo 1
Le origini della EKC
1.1 La strada che portò all’Environmental Kuznets Curve
È innegabile che ad oggi l’impatto che la produzione di beni e servizi ha sull’ambiente
naturale che ci circonda, ma è forse più corretto parlare di “stile di vita”, si è imposto di
prepotenza agli occhi della pubblica opinione.
Le preoccupazioni per lo stato delle risorse naturali, includendo in questa categoria sia
le risorse rinnovabili sia quelle non rinnovabili, diventano motivo di forte
coinvolgimento e discussione per tutti ed hanno ormai ottenuto un posto di primaria
importanza nei programmi presentati dai policy maker al loro elettorato.
Fenomeni come il surriscaldamento, la deforestazione, la distruzione della biodiversità
e l’aumento vorticoso di malattie dovute ad un ambiente naturale malsano preoccupano
e spostano il baricentro dell’attenzione a favore dei danni inferti all’ambiente naturale,
oggi più che mai, oggetto di accese dispute.
Prendendo in considerazione il XX secolo, lo sviluppo economico vorticoso a cui è
arrivata l’umanità e la conseguente pressione antropica a cui è stato sottoposto tutto ciò
che la circonda, si può dire che l’attenzione alla tutela del patrimonio ambientale è nata
relativamente tardi. Questo ritardo è dovuto da un lato alla non capacità di riconoscerne
per tempo i fenomeni, e dall’altro alla primaria importanza data allo sviluppo
economico su ogni altro aspetto della realtà. La distruzione di stock naturali, di habitat,
di specie viventi, è stato perciò considerato un prezzo onesto da pagare per poter
accedere allo sviluppo.
A poco a poco però ci si è resi conto che quel prezzo, che sembrava così conveniente,
si è dimostrato esserlo sempre meno, e che mentre lo stesso si presenta di volta in volta
troppo caro, ci si ritrova ora ad un punto dove si cerca di correre ai ripari; ci si accorge
cioè che si è in ritardo rispetto all’evoluzione della situazione, e si sostiene da più parti,
un po’ sperandoci un po’ credendoci, che in fondo la situazione non è ancora troppo
compromessa.
Dal punto di vista scientifico, nel momento in cui sorge innegabile la necessità della
presa di coscienza del fenomeno, è emersa una dicotomia tra tutte le scienze che si
sono occupate dell’interazione-distruzione tra l’uomo e l’ambiente.
Questa dicotomia si fonda nel concetto di sostenibilità dove, per la stessa, si intende lo
“sviluppo che soddisfa i bisogni delle generazioni attuali senza
pregiudicare il soddisfacimento di quelli delle generazioni future”
(Commissione Brundtland, 1987).
Come è noto in letteratura il concetto di Sostenibilità assume due varianti molto
generali, che prendono il nome di sostenibilità forte e debole. La Sostenibilità forte
riconosce la necessità di mantenere costante nel tempo lo stock di capitale naturale. La
sostenibilità forte afferma pertanto l’infungibilità delle risorse naturali, poiché esse
sono parte insostituibile del patrimonio a disposizione: al loro degrado non c’è rimedio
e quindi non sono sostituibili neanche dall’incremento di altri valori, come quelli
sociali o economici. Ad essi, infatti, esse sono complementari.
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Così, se storicamente il fattore limitante lo sviluppo è stato ritenuto il capitale sociale,
oggigiorno è la risorsa naturale, che si cerca di risparmiare o di riciclare, a diventare
rapidamente il fattore limitante lo stesso sviluppo. Appare quindi lecito consumare
risorse fintanto che non si eccedano le capacità di ripristinarle.
La Sostenibilità debole, al contrario, ritiene che il capitale artificiale (ovvero creato
dall’uomo) possa eventualmente sostituire il capitale naturale grazie al progresso
scientifico e alle innovazioni tecnologiche, per cui l'attenzione viene rivolta piuttosto al
mantenimento di uno stock di capitale complessivo costante.
La sostenibilità debole ammette dunque la possibilità di sostituire le risorse naturali, se
ciò porta ad un aumento del valore totale del sistema, a patto che nel lungo periodo il
loro stock complessivo sia mantenuto almeno costante. Quindi, anche se non
all’infinito, le risorse naturali possono essere sostituite da beni e servizi, e ciò rende
necessario compararne investimenti e risparmi, costi e benefici.
In tal senso la sostenibilità debole fa riferimento alle leggi di mercato, le quali
tendenzialmente dovrebbero scoraggiare l’uso indiscriminato delle risorse naturali,
grazie all’aumento del loro prezzo che consegue alla loro crescente scarsità.
Questa diversa concezione della sostenibilità, e quindi del rapporto uomo/ambiente, ha
ispirato due diverse tesi economiche: la prima che si debba porre rimedio ai danni
ambientali hic et nunc, la seconda che comunque si sia sempre in tempo a rimediare ai
propri errori ricreando, magari anche in maniera artificiale, ciò che è andato perduto.
Il benessere economico indurrebbe cioè i paesi ad “accorgersi” del problema
ambientale e a porvi rimedio. Implicitamente questa chiave di lettura afferma che è
sempre possibile “riparare” i danni ambientali commessi o, in altri termini, che è
possibile ripristinare il capitale naturale grazie al nuovo capitale fisico frutto del
progresso tecnico. Come vedremo, il concetto appena richiamato sarà un punto fermo
per i sostenitori della cosiddetta curva di Kuznets ambientale.
Questo confronto scientifico ha avuto eco in economia, forse più che in altre discipline,
per effetto della contrapposizione tra quegli economisti fautori della corrente teorica
dei “limiti alla crescita”, portata avanti dal cosiddetto Club di Roma
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(Meadows in
primis), ed il resto della comunità scientifica rimasta piuttosto fredda, se non ostile, ai
richiami degli economisti ambientali.
I membri del Club di Roma asserivano infatti già nel 1972 (Meadows et al. 1972) che
lo stock limitato di risorse ambientali avrebbe impedito l’infinita crescita economica,
portando l’economia ad uno stato stazionario (steady state) necessario ad evitare una
catastrofe ambientale nel futuro.
A queste teorie vagamente malthusiane, nel 1971, si richiamavano personaggi di spicco
come l’allora presidente dell’American Agricoltural Economics Association Vernon
Ruttan, il quale asseriva che:
“in paesi con un alto reddito l’elasticità della domanda per beni e
servizi legati al sostentamento rispetto al reddito è bassa e declina
all’aumentare del reddito, mentre l’elasticità della domanda per un
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Il Club di Roma è una associazione non governativa, non-profit, di scienziati, economisti, uomini
d'affari, attivisti dei diritti civili, alti dirigenti pubblici internazionali e capi di stato di tutti e cinque i
continenti. Fu fondato nell'aprile del 1968 dall'italiano Aurelio Peccei e dallo scienziato scozzese
Alexander King, insieme a premi Nobel, leader politici e intellettuali.
Il nome del gruppo nasce dal fatto che la prima riunione si svolse a Roma, presso la sede dell'Accademia
dei Lincei alla Farnesina.
La sua missione è di agire come catalizzatore dei cambiamenti globali, individuando i principali
problemi che l'umanità si troverà ad affrontare, analizzandoli in un contesto mondiale e ricercando
soluzioni alternative nei diversi scenari possibili.
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maggior smaltimento degli scarti e per servizi ambientali è alta e
continuamente in crescita. Questo è in netto contrasto con la
situazione nei paesi poveri dove l’elasticità della domanda è alta per il
sostentamento e bassa per i servizi ambientali” (Ruttan 1971, pag 707-
708, traduzione nostra).
Il dibattito in questione ha avuto peraltro un blocco negli anni ottanta del novecento,
che sono stati, però, gli anni in cui si è davvero cominciato a pensare al degrado
ambientale come serio problema da affrontare ai massimi vertici.
È del 1987, infatti, la definizione di sviluppo sostenibile prima citata, concetto questo
già noto nella sostanza, ma che è stato formalizzato dalla Commissione delle Nazioni
Unite sullo sviluppo e sulla ambiente, nota come Commissione Brundtland, che ha
preparato il campo per la celebre conferenza di Rio de Janeiro del 1992.
1.2 La nascita dell’Environmental Kuznets Curve
Agli inizi degli anni ’90 due pubblicazioni hanno rivoluzionato il concetto di
interazione tra crescita economica e degrado ambientale, incorporando in determinate
semplici policy lo strumento per ottenere finalmente la sostenibilità.
Le due pubblicazioni consistono in un lavoro empirico di Grossman e Krueger del
1991, ed un lavoro di Shafik e Brandyopadhyay del 1992. Il primo è uno studio sui
potenziali impatti dell’accordo NAFTA nell’america del nord che, nella parte che
interessa in questa sede, si ricollega ad alcune misure della qualità dell’aria.
Il secondo è un lavoro preliminare al World Development Report, presentato alla
conferenza di Rio de Janeiro sull’ambiente appunto nel 1992.
Questi due lavori hanno aperto una nuova era rispetto ai passi precedentemente fatti
dall’economia dell’ambiente per due motivi. Il primo, fondamentale, è che si trattava di
lavori empirici basati su dei dati, il che significa che potevano essere confutati,
rielaborati ed anche smentiti se necessario su una base scientifica certa.
Il secondo motivo è stata l’urgenza di trovare risposte “certe” ai problemi ambientali
che stavano salendo prepotentemente alla ribalta, e che lì del resto sarebbero rimasti.
In entrambi i lavori suddetti si trova una fortissima affermazione di politica economica
che, usando le parole del World Development Report, assume quanto segue:
“Il punto di vista secondo il quale una notevole attività economica
inevitabilmente danneggi l’ambiente è basato su un’assunzione
statica riguardo alla tecnologia, i gusti e gli investimenti
sull’ambente…al crescere del reddito la domanda per un
miglioramento nella qualità ambientale crescerà, così come le
risorse disponibili per [questi] investimenti” (World Development
Report 1992, pagine 38-39, traduzione nostra).
Questa relazione era per la verità già stata accennata nel rapporto Brundtland, ma si era
fermata solo ad una supposizione teorica. Una volta che questa è stata supportata dai
dati, ed ha preso piede nella comunità scientifica, ha anche preso il nome, postogli da
Panayotou (1993), di Environmental Kuznets Curve (EKC), poiché essa ricalcava
una teoria che il premio Nobel Simon Kuznets aveva espresso alla American Economic
Association nel 1954.
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L’ipotesi avanzata da Simon Kuznetz riguardava la relazione tra crescita del reddito e
disuguaglianza nella sua distribuzione. In particolare, la sua ipotesi postulava un
aumento della disuguaglianza nelle fasi iniziali della crescita del reddito sino ad un
determinato punto, chiamato in letteratura “punto di svolta” o turning point, superato il
quale sarebbe sopravvenuta una diminuzione della stessa disuguaglianza all’aumentare
del reddito. Tale teoria spiegava secondo il suo autore perché nei paesi a basso livello
del reddito vi fosse una disuguaglianza nel reddito maggiore che nei paesi con un
reddito più elevato.
Graficamente questa relazione viene espressa come una parabola rovesciata così come
si evince dalla successiva Figura 1.1 (tratta da Yandle et al., 2002).
Figura 1.1 - La curva di Kuznets tra reddito e disuguaglianza
Questa sorta di U capovolta porta con sé una implicazione molto potente, ovvero che
per ridurre la disuguaglianza l’unica cura sia crescere e svilupparsi, senza preoccuparsi
troppo, o senza preoccuparsi per nulla, se la disuguaglianza nel frattempo aumenta,
poiché quest’effetto sarà in realtà solo temporaneo.
Questa curva ad U rovesciata esprimeva alla perfezione il pensiero espresso dal World
Development Report ed è stata da allora utilizzata appunto per esprimerne graficamente
i postulati, prendendo così il nome di Curva di Kuznets Ambientale.
Come si vede in Figura 1.2 (tratta da Yandle et al., 2002) il deterioramento ambientale
ha preso il posto della disuguaglianza del reddito nell’asse delle ordinate, mentre
rimane, sull’asse delle ascisse, la crescita del reddito pro capite.
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Figura 1.2 – La curva di Kuznets ambientale
L’accostamento tra le due teorie porta con sé una implicazione molto importante: così
come l’aumento del PIL è sia la causa sia la cura della disuguaglianza nel reddito, allo
stesso modo si deve ragionare per la risoluzione del problema ambientale.
Quindi il deterioramento ambientale, secondo i fautori della ipotesi EKC, non è altro
che una fase inevitabile nello sviluppo economico, un fenomeno meramente
temporaneo prima che si diventi abbastanza ricchi per poter attuare politiche di
riduzione dello stesso degrado ambientale.
La chiave di volta della EKC sta allora, per la maggior parte della letteratura
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,
nell’elasticità della domanda di beni ambientali rispetto al reddito. In sostanza, la
qualità ambientale diventerebbe un bene di lusso ad alti livelli del reddito o, in termini
più formali, l’elasticità della domanda di beni ambientali rispetto al reddito varia con il
livello del reddito, ed in particolare esisterà una soglia, il turning point, in cui questa
elasticità sarà maggiore di uno.
Come avremo modo di riflettere più dettagliatamente nel prosieguo del presente lavoro,
le spiegazioni teoriche riguardo alla EKC stanno comunque sullo sfondo poiché essa
rimane essenzialmente una teoria risultante da lavori ed evidenze empiriche.
La nascita della EKC ha formato dunque uno sbocco naturale per quanti, economisti e
policy makers, basavano e basano il loro pensiero di sviluppo nel concetto di “going-
for-growth”, contrapposto a quello visto prima del limits to growth, facendolo confluire
in una teoria economica definita, corroborata alla sua nascita da dati, ed elaborata da
economisti di grosso calibro.
Ricollegandosi alla recente storia economica ed internazionale si può allora leggere in
questa chiave sia l’affermazione del presidente americano Gorge W. Bush che nella
campagna elettorale del suo primo mandato affermava:
2
In particolare, questa spiegazione è proposta da Panayotou (1993), parte della letteratura invece,
specialmente nei primi anni ’90, punta il dito su un argomento leggermente diverso, l’aumento dei prezzi
relativi delle risorse. Questo punto di vista è stato presto abbandonato perché troppo legato ad una
visuale meramente produttiva in cui hanno notevole peso le materie prime.
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“che [lui] non ha intenzione di onorare la sua campagna
promettendo di regolare l’emissione di anidride carbonica” (The
Economist 17/03/01 p. 122, preso da Webber Allen 2004, traduzione
nostra)
o le resistenze, durate anche anni per alcuni paesi, alla ratifica del protocollo di Kyoto,
senza dimenticare che due paesi responsabili dell’emissione di oltre il 25% dei gas
serra tutt’ora non l’hanno ratificato.
Rimane sullo sfondo di tutto ciò una diatriba che dura da più di cinque lustri sulla reale,
o supposta tale, esistenza della curva di Kuznets ambientale, che sta lentamente
portando la comunità scientifica ad ammettere quantomeno grosse perplessità
sull’esistenza di questa relazione. Una diatriba che non interessa oramai solo gli
economisti, ma tutta la società, ed in particolar modo i policy makers.
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Capitolo 2
La letteratura di riferimento sulla EKC
Introduzione
La letteratura riguardo alla EKC si può dividere in maniera abbastanza ovvia tra coloro
che hanno trovato evidenza della sua esistenza, o meglio tra quelli che ne hanno trovato
traccia, e quelli che invece non sono arrivati a questa conclusione.
Oltre questa immediata dicotomia però si può fare una ulteriore distinzione analizzando
i lavori in ordine cronologico; infatti dai primi lavori di Grossman e Krueger (1991)
sino alla fine del secolo scorso circa sono identificabili sostanzialmente due
metodologie di analisi, la metodologia cross section e la metodologia panel.
Va detto però che molti lavori sono stati eseguiti concentrandosi su un singolo paese, e
creando una corrente separata che ha preso in letteratura il nome di single country time
series. A prima vista, potrebbe sembrare allora che ci sia in effetti anche questa terza
metodologia, ma in realtà non è così. Pur dietro un nome differente, infatti, si tratta
semplicemente di lavori composti da cross section infraregionali, e quindi ricollegabili
alla metodologia cross section almeno da un punto di vista pratico. La principale
differenza tra le normali cross section e le single country time series in sostanza è che
cambiano alcune assunzioni iniziali, una su tutte la ricerca della validità universale
della teoria (in inglese, fit-for-all-theory), per concentrarsi invece sull’esistenza o meno
della EKC per un determinato paese. Negli ultimi anni del resto, in seguito a forti
critiche sulla rigorosità e validità della metodologia cross section, la comunità
scientifica si è spostata sull’utilizzo di una metodologia prevalentemente panel. Va
detto che questa metodologia è stata impiegata negli studi sulla EKC sin dal lavoro di
Selden e Song (1994), benché tale analisi abbia comunque impiegato diversi anni per
raggiungere, ed in seguito sostituire, la precedente metodologia cross section.
In questo capitolo si elencheranno i lavori che maggiormente hanno contribuito allo
sviluppo della letteratura sul tema in esame. Una parte predominante di questi sono
legati ad una metodologia panel, non mancheranno tuttavia alcuni lavori in cross
section particolarmente importanti. Una breve parte iniziale inoltre tratterà dei lavori
sviluppati per elaborare una base teorica alla curva ambientale di Kuznets. A questo
proposito va detto che i lavori teorici nascono successivamente ai primi lavori empirici
e rappresentano quindi una sorta di corroborazione a posteriori di un qualcosa già
presente in letteratura. Questo vuol dire che la teoria non nasce, come normalmente
accade, antecedentemente alle analisi che dovrebbero testarla, ma solo
successivamente, in una sorta di beneplacito o giustificazione teorica all’utilizzo della
stessa.
I lavori teorici del resto non sono privi di importanza in quanto suggeriscono chiavi di
lettura e interrelazioni che aiutano a cogliere i possibili meccanismi della EKC,
permettendo quindi di analizzare e testare la teoria e i meccanismi sottostanti.
D’altronde è per lo più vero anche che molti di questi lavori, specialmente negli ultimi
anni, si sono trasformati in meri virtuosismi matematici che poco o nulla hanno
aggiunto all’intuizione economica sottostante.