Combattimento, embrione del regime che per venti anni avrebbe
condotto le sorti della penisola. Questi utilizzarono quelle
metodologie di lotta tipiche dei gruppi interventisti che maggiormente
ne avevano ispirato la nascita ed il successivo sviluppo.
Uno degli intenti di questa ricerca è di evidenziare l’influenza di
questi gruppi assertori dell’intervento sullo stile di azione del
movimento fascista, soprattutto per quel che riguarda la sua prima
fase. E come gli stessi lo abbiano indirizzato verso quella concezione
che rappresentava la guerra, e quindi la violenza, come, nelle parole
del padre del futurismo Filippo Tommaso Marinetti: “la sola igiene
del mondo”.
Riferendomi all’esperienza degli Arditi e dei Futuristi, ho provato ad
evidenziare come le radici ideologiche della violenza fascista
risiedessero, per buona parte, proprio nelle concezioni di questi
gruppi.
Essi vedevano nell’Esperienza di guerra il fondamento dal quale
partire per costruire una società nuova basata su un “Uomo nuovo”,
antitetico al decadente uomo borghese che ritenevano in voga in
quegli anni.
Chiarendo i bersagli principali della polemica fascista, e le sue ragioni
più importanti, ho cercato di evidenziare il collegamento tra questa
polemica e l’uso di metodologie di lotta violenta. E, inoltre, di
indicare le caratteristiche della cultura della violenza fascista, i suoi
tratti distintivi e tutta la simbologia che contribuiva alla sublimazione
del suo mito.
Nel fare ciò mi sono servito di numerosi articoli estrapolati da diversi
quotidiani e periodici del tempo, nonché di numerosi brani estratti dai
discorsi di Benito Mussolini. Ho provato, in tal modo, a comprendere,
3
e a far comprendere, nella maniera più verosimile possibile, quale
fosse lo spirito e l’intenzione, a livello ideologico, dei seguaci del
movimento fascista; anche se, a volte, la dottrina lasciò il posto al
piacere del gesto violento in sé, senza alcuna giustificazione
ideologica.
Proprio per questo sono state analizzate le peculiarità del fenomeno
dello squadrismo, in quanto manifestazione più direttamente visibile
della violenza fascista, tramite contributi dell’epoca. Questi ultimi,
infatti, risultano di grande utilità per rendere comprensibili al lettore le
motivazioni che avevano spinto tanti uomini ad aderire al movimento,
e le direttive teoriche che ne avevano ispirato la nascita e
caratterizzato l’intera attività.
Infine, l’intento della ricerca è quello di provare a dimostrare le
direttrici del passaggio da un tipo di violenza disorganizzata,
improvvisa, estremamente dinamica, tipica di un movimento
situazionale quale il primo fascismo, ad una istituzionalizzata nella
prassi amministrativa, giudiziaria e poliziesca. Una violenza inserita
progressivamente all’interno degli organi dello Stato tramite una
graduale opera di “fascistizzazione” dello stesso e dei suoi apparati.
Ciò anche tramite l’analisi della legislazione che, dall’istituzione della
Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale a quella del Tribunale
Speciale per la Difesa dello Stato, avrebbe condotto il Paese verso la
compressione pressoché totale delle libertà. Tale legislazione
legittimava quelle metodologie di lotta tipiche dello squadrismo
fascista che, sino a quel momento, aveva vissuto nell’illegalità, e
aveva oltrepassato spesso il limite del terrorismo.
Attraverso questo percorso di ricerca ho provato a dare il mio
contributo alla comprensione delle radici della violenza fascista, che
4
sarebbe erroneo considerare nel suo aspetto meramente tecnico, al
quale ho solo velocemente accennato; da quel punto di vista, infatti,
come ogni tipo di violenza è da disapprovare in pieno.
Ho cercato, invece, di analizzare il fenomeno come espressione di
credenze, valori, culture frutto di elaborate ideologie e particolari
esperienze. A tal fine risulta fondamentale tenere sempre a mente la
particolare situazione del tempo, caratterizzata dalle atrocità della
guerra e da una diversa considerazione del valore della vita umana. E
ciò perché, guardandolo con gli occhi della società odierna, tale culto
risulterebbe, come è ragionevole che sia,totalmente incomprensibile
ed ingiustificato.
Ferma resta, comunque, la dura condanna della violenza in sé, che
deriva sempre da una visione distorta dell’esistenza, e che resta un
pratica deplorevole, da qualsiasi prospettiva la si guardi e da qualsiasi
parte venga utilizzata.
5
1. L’ITALIA E LA GRANDE GUERRA
1.1 L’INTERVENTISMO ITALIANO
Nelle dinamiche della prima guerra mondiale risalta subito la
particolarità della situazione italiana. Infatti il fervore che il conflitto
aveva scatenato in tutta Europa, nel nostro paese fu caratterizzato da
aspetti peculiari.
L’esaltazione della guerra, del combattimento, furono accentuati dalla
scarsa considerazione di cui godeva la giovane Nazione nell’ambito
della politica europea, nonché dalla grande volontà di dimostrare il
vero valore del popolo italico.
Il gruppo interventista italiano, almeno inizialmente, non era molto
numeroso ma poté contare sull’adesione di personaggi di notevole
spessore, come il Vate Gabriele D’Annunzio e il padre del futurismo
Filippo Tommaso Marinetti, che fu uno dei più intraprendenti assertori
dell’intervento. Egli descriveva la guerra come: “collaudo sanguinoso
e necessario della forza di un popolo, pienezza di vita e massima
libertà nella dedizione alla patria, velocità aggressiva+semplificazione
violenta degli sforzi verso il benessere”
1
.
Oltre ad essere numericamente esiguo, il movimento interventista
italiano era anche molto variegato nella sua composizione. I primi ad
attivarsi furono i repubblicani, ma il ruolo di propulsore spettò
inizialmente al movimento nazionalista, ed al suo massimo teorico, il
1
F. T. Marinetti, Guerra sola igiene del mondo, in Teoria e Invenzione, p. 284, cit. in E.
Gentile, La politica di Marinetti, Il Mulino, Bologna, estr. da “Storia Contemporanea”, a.
VII, 1976, n. 3, p. 422.
6
giurista Alfredo Rocco, che considerava lo Stato come comunità
nazionale da anteporre agli interessi dei singoli individui che lo
compongono
2
.
Importante anche la partecipazione di ampi settori del sindacalismo
rivoluzionario il cui massimo esponente era Arturo Labriola. Egli, tra
l’altro, già nel 1911, aveva esaltato, in un articolo apparso sul giornale
“Lucifero”, l’impresa libica come un’occasione per sviluppare
l’apparato produttivo italiano e quindi migliorare le condizioni del
proletariato.
La violenza, nell’interventismo degli anarchici, dei sindacalisti e dei
socialisti rivoluzionari, rispondeva ad una legge naturale come mezzo
per il passaggio a forme più progredite di organizzazione economica e
sociale. La guerra avrebbe dovuto, infatti, abbattere la monarchia e la
borghesia, nonché il capitalismo e il parlamentarismo, sintesi dei mali
della Nazione
3
.
Tra i diversi personaggi di spicco del movimento a favore dell’entrata
in guerra del nostro paese, grande importanza assunse la figura di
Benito Mussolini.
Nel periodo prebellico il politico romagnolo, leader del socialismo
rivoluzionario, si era schierato a favore dell’intervento, svolgendo la
sua azione di propaganda soprattutto dalle pagine del giornale che
aveva fondato nel novembre del 1914, il “Popolo d’Italia”.
Secondo Mussolini, gli italiani dovevano “affrontare il collaudo della
Storia”, e questo collaudo si chiamava guerra. Un popolo che non
faceva una guerra per dotarsi di una coscienza nazionale e “provare le
resistenze fisiche e morali della Stirpe” non meritava nulla, perché
2
Cfr. A. Ventrone, La seduzione totalitaria, Donzelli, Roma, 2003, p. 26.
3
Ibidem, p. 41.
7
privo di “fermenti d’azione, pretesto dinamico alla lotta, rovente fede
e grande solidarietà nazionale”
4
.
Audacia! recitava il primo articolo del quotidiano, di non attendere il
tempo ma di andargli incontro, perché attendere nella neutralità poteva
significare giungere in ritardo e trovarsi dinanzi al fatto compiuto.
Secondo il futuro Duce, la propaganda antibellicista era una
dimostrazione di vigliaccheria, era prerogativa dei “preti temporalisti
e gesuiti che hanno interesse materiale e spirituale alla conservazione
dell’Impero austriaco”, dei borghesi “contrabbandieri o meno che,
specie in Italia, dimostrano la loro pietosa insufficienza politica e
morale”, e dei monarchici “che non sanno rassegnarsi a stracciare la
Triplice che garantiva, oltre alla pace, l’esistenza dei troni”
5
.
Mussolini spronava i socialisti rivoluzionari, forza viva dell’Italia, ad
allontanarsi da queste correnti ormai superate, per non cadere nello
“statu quo monarchico e borghese”, e soprattutto a distaccarsi
dall’ideologia dell’ala ufficiale del partito socialista, il quale nutriva
un’avversione aprioristica verso la guerra.
Il leader romagnolo riteneva assurda questa posizione. In questo
modo, secondo Mussolini, si confondeva il Kaiser tedesco che aveva
invaso il Belgio con la figura di Giuseppe Garibaldi, padre fondatore
della nazione italiana.
Per lui era evidente che non si potessero condannare tutte le guerre,
perché tale concetto “herveista della prima maniera e quasi-tolstoiano
della passività assoluta è antisocialista”
6
. Seppur rattristato per gli
eventi, infatti, Mussolini si considerava allora ancora un socialista,
4
B. Mussolini, in Le origini e lo sviluppo del fascismo, Libreria del Littorio, Roma, 1928,
p. 4.
5
Idem, Audacia!, in “Popolo d’Italia”, 15 novembre 1914, in ibidem, p. 7.
6
Idem, Il proletariato,la nazione, la guerra, in ibidem, p. 13.
8
anche se sempre più accesa era la sua contestazione nei confronti delle
posizioni ufficiali del partito. Secondo lui, il solo modo per poter
trasformare l’Europa era un’alleanza con la Triplice Intesa, contro la
Germania che mirava ad “una Repubblica tedesca dal Reno alla
Vistola”
7
.
Il politico romagnolo riteneva che la necessità più impellente per lo
Stato italiano fosse quella di armare, militarizzare, combattere e, se
necessario, morire perché, nelle sue parole: “i neutrali non hanno mai
dominato gli eventi, ma li hanno subiti…”. “E’il sangue che dà il
movimento alla ruota sonante della storia!”
8
, soleva dire.
In sostanza, quindi, fu proprio in occasione della propaganda a favore
dell’intervento che l’ideologia di Mussolini iniziò ad evolvere verso
quella che avrebbe caratterizzato il movimento fascista. Questo,
infatti, come vedremo, nacque soprattutto dalle concezioni elaborate
in questo periodo dal politico romagnolo e da altri gruppi assertori
dell’intervento, come i futuristi e gli arditi. Furono proprio questi
movimenti, che avevano ingrossato le fila dell’esercito, a costituire,
almeno inizialmente, la base del fascismo ed a permettere il suo primo
sviluppo.
Si può ritrovare uno dei primissimi embrioni del movimento fascista
nei Fasci rivoluzionari d’azione internazionalista, nelle cui fila il
futuro Duce prestò la sua opera. Si trattava di un’organizzazione nata
essenzialmente al fine di promuovere l’intervento e anche qui erano
presenti orientamenti politici differenziati. Tuttavia il componimento
degli interessi fu necessario per il raggiungimento dello scopo,
l’entrata in guerra, favorito anche dalla comune avversione sia nei
7
Ibidem, p. 16.
8
Ibidem.
9
confronti dell’espansione tedesca in Europa, sia verso i socialisti
ufficiali e il nuovo pontefice Benedetto XV, anch’egli su spiccate
posizioni antibelliciste.
Il Manifesto dell’organizzazione si rivolgeva direttamente ai cittadini
perché condannassero l’aggressione degli Imperi Centrali verso paesi
che avevano conquistato l’indipendenza con le loro forze, e li
spronava ad una dimostrazione di solidarietà nazionale contro la
“barbarica invadenza teutonica che persegue un sogno d’imperio sul
mondo”
9
.
L’avversione verso i tedeschi era molto forte, come sottolineava
Mussolini stesso: “i popoli germanici dovranno rimanere in
quarantena prima di essere riammessi nel consorzio delle genti
civili”
10
. Ed era legata alla polemica nei confronti del PSI e di tutte “le
piccole e cartacee tirannidi interne”
11
.
Il politico romagnolo attaccava anche il Parlamento, ed il
“parecchismo”, cioè la ricerca del compromesso e del maggior
vantaggio possibile, che ne costituiva la mentalità predominante.
Con il trascorrere dei giorni e con l’Italia che rimaneva neutrale si
moltiplicarono le sue accuse nei confronti di quella che considerava
una “tribù medagliettata formalizzata da un po’ d’imparaticcio”, che
invece di porsi a capo della Nazione per rincuorarla e fortificarla
nell’ora del bisogno, si lasciava andare a fantasticherie ed esagerazioni
degne delle “repubblichette sudamericane”
12
.
9
Manifesto per il primo maggio del C.C. Fasci di azione rivoluzionaria, in ibidem, p. 20.
10
B. Mussolini, I maggio 1915, in “ Popolo d’Italia “, 1 maggio 1915, in ibidem, p. 18.
11
cit. in ibidem, p. 17.
12
B. Mussolini, La casta parlamentare contro l’ intervento, in “Popolo d’Italia”, 11
maggio 1915, in ibidem, p. 26.
10
La polemica sorta in questo periodo sarebbe stata poi ripresa dal
fascismo che avrebbe individuato proprio nella classe dirigente
liberale uno dei mali da estirpare per poter costruire uno Stato forte ed
intraprendente.
L’interventismo italiano fu abile ad attuare una mobilitazione che
puntò alla netta contrapposizione tra civiltà, tra la “scientifica barbarie
teutonica” e la razza italica, vilipesa ed umiliata; una razza che, nelle
parole di Mussolini: “ha dato due volte la civiltà all’Europa!”
13
.
L’esito degli eventi di quel periodo avrebbe costituito un motivo di
collegamento molto rilevante tra il successivo fascismo ed il “maggio
radioso” quando, grazie alle numerose e “appassionate” dimostrazioni
degli interventisti, l’Italia entrò in guerra. In questo periodo, infatti,
secondo gli interventisti stessi, la volontà del Parlamento fu scavalcata
da quella delle piazze, e fornì una prova di come la mobilitazione
violenta potesse superare le ostilità del regime liberale.
Inoltre è importante analizzare gli effetti nel nostro Paese di quello
che George L. Mosse ha definito processo di brutalizzazione della
politica.
Innanzitutto, questo fenomeno si manifestò, essenzialmente, con il
trasferimento in tempo di pace del modo di pensare e di agire proprio
del conflitto, causando una sostanziale indifferenza per la vita, (o per
la morte), umana e un’azione politica di conseguenza basata
sull’annientamento dell’avversario, visto ora come nemico ideologico.
In questo senso la particolarità del nostro Paese riguarda il fatto che la
brutalizzazione non fu solo una conseguenza del conflitto, come
successe in gran parte d’Europa, ma fu soprattutto un fattore decisivo
13
Idem, E guerra sia!, in “Popolo d’Italia”, 24 maggio 1915, in ibidem, p. 37.
11
per provocare l’intervento e manifestò, quindi, i suoi effetti già prima
del conflitto stesso
14
.
In Italia, infatti, la polemica tra chi era a favore dell’entrata in guerra e
chi era contro fu caratterizzata anche da atti di violenza nei confronti
dei neutralisti, che furono costretti anche a subire le spedizioni
punitive dei loro oppositori.
Da una parte la difesa della Patria, per gli assertori dell’intervento,
doveva attuarsi attraverso la discriminazione e l’internamento dei
cittadini tedeschi. Dall’altra, l’opera di salvataggio del Paese avrebbe
dovuto attuarsi all’interno, con la lotta ai sabotatori e ai speculatori
che i seguaci del movimento interventista ritenevano proliferassero
entro i confini della penisola.
A tal proposito, il compito di coloro che erano rimasti nelle retrovie,
secondo Mussolini, era “vigilare sempre” e “picchiare
disperatamente”, poiché l’Italia era ancora piena di “sordidi e sornioni
zelatori della Germania”, di “vecchie cariatidi nel socialismo e di una
repellente verminaia pluricolore”, nella quale si doveva irrompere
“con lo stesso impeto, con la stessa crudele e necessaria intrepidità che
guiderà le nostre baionette all’assalto delle trincee nemiche”
15
.
Questa opera di brutalizzazione sarebbe risultata ancora più marcata
alla fine del conflitto, quando si creò una distanza incolmabile tra
coloro che erano ritornati dal fronte e lo Stato, incapace, ai loro occhi,
di mantenere le promesse fatte durante la guerra.
Questi reduci furono pervasi dalla sensazione che la classe dirigente
italiana non avesse fatto nulla per evitare alla Nazione una “Vittoria
mutilata”, tradendo così i sacrifici di tutti coloro che si erano immolati
14
Cfr. A. Ventrone, La seduzione totalitaria, Donzelli, Roma, 2003, p. 82.
15
B. Mussolini, Per non disarmare, in “Popolo d’Italia”, 14 settembre 1915, in Le origini
e lo sviluppo del fascismo, Libreria del Littorio, Roma, 1928, p. 41.
12
per la Patria. Secondo loro, infatti, conclusa la guerra i governanti
italiani non erano stati capaci di far valere i diritti della vittoria, poiché
alcune rivendicazioni territoriali, come quelle riguardo Fiume e la
Dalmazia, non vennero accolte dai paesi cobelligeranti al momento
dei trattati di pace.
Inoltre l’immediato dopoguerra rimase legato a quella stagione di
sommovimenti sociali e aspre lotte politiche denominata
comunemente “biennio rosso”, dal colore delle bandiere che
sventolarono tra il 1919 e il 1920 in molte fabbriche italiane. Questo
periodo fu caratterizzato soprattutto dalle agitazioni della classe
operaia che chiedeva, con gli scioperi, ma anche mediante
manifestazioni più violente, miglioramenti economici e sociali,
suggestionata anche dal mito della Russia bolscevica.
Tale esperienza sarebbe stata uno dei fattori determinanti dello
sviluppo del fascismo squadrista, anche perché la volontà del
proletariato di “fare come in Russia” intimorì pesantemente la
borghesia, non solo quella dei grandi proprietari, ma anche il ceto
medio, che, a breve, avrebbe costituito la base di massa del regime
fascista.
Sarebbe stato proprio il timore bolscevico a spingere questi ceti verso
il movimento di Benito Mussolini, movimento che avrebbe fatto
sentire sempre di più il suo peso nella vita politica, e non solo,
dell’Italia.
13