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Tutti questi fattori, comuni peraltro a molte aziende di successo, hanno
costituito il tessuto connettivo di tutta l’organizzazione aziendale de La
Rinascente, dalla fondazione alla fine degli anni ’60.
Ho cercato di evidenziare quelle che sono state le spinte motivazionali
del management che ne ha determinato l’ascesa ed il successo dalla
fondazione agli anni ’70, pur attraverso conflitti e difficoltà di varia natura -
basti pensare al primo dopoguerra, alla crisi del ’29 e al secondo dopoguerra -
e che non solo è diventata la più importante azienda di distribuzione in Italia,
ma si è distinta dalle altre per quella funzione sociale intrinseca all’azienda e
che si è esplicata nel modo di porsi rispettoso, euristico verso i consumatori, i
fornitori, i professionisti, verso il management e la distribuzione italiana; per
aver captato il variare degli interessi collettivi, per aver proiettato fuori dal
recinto aziendale quella “cultura” frutto di un insieme di culture individuali.
Quando parlo di “cultura” aziendale, mi riferisco in particolare a
quell’insieme di valori, di umanità, di atteggiamenti, di responsabilità, di
guida degli uomini, di concezione organizzativa che i Bocconi, i Borletti, i
Brustio, esprimevano nel loro modo concreto di fare “azienda”.
Essi hanno rappresentato, nelle loro epoche, quella continuità storica,
quella trasmissione di valori che in sintonia con i desideri dei consumatori
sono poi la chiave di lettura dell’ascesa e del successo de La Rinascente.
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Certamente, lavorare in rapporto con l’esterno, con i rapporti variabili dei
consumatori, con le continue esigenze di sperimentare il nuovo è stato
all’epoca un modo creativo, ma soprattutto rivoluzionario.
Come creative e rivoluzionarie erano state le idee di Aristide Boucicaut
nel 1810 di aprire a Parigi il Bon Marchè, dove si poteva entrare senza
l’obbligo di comprare, e dove erano ben visibili i prezzi su ogni articolo, e di
Ferdinando Bocconi di vendere abiti già confezionati.
Ispirazione culturale di fondo che si esprime non solo all’interno
dell’azienda, ma anche nei confronti della realtà circostante: sono gli uomini
di cultura, di arte, la città intera che viene coinvolta nel processo
comunicazionale de La Rinascente.
L’azienda ha saputo muoversi ed operare in un contesto socio -
culturale in profonda trasformazione in cui le classi sociali si confondono
perché la classe media si allarga creando sempre più nuovi e specifici
bisogni.
E’ stata anticipatrice della società post - industriale i cui valori portanti
sarebbero stati: l’estetica, l’immagine e le comunicazioni; centro propulsore
di personalità culturali di primo piano, osservatori e trasformatori di quei
valori portanti che riuscivano a convertire in politiche di acquisto, di vendite,
di comunicazione.
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Professionisti di diverse discipline: architetti, ingegneri, sociologi,
psicologi, disegner, fotografi, matematici, chimici, maghi delle vetrine ed
esperti del packaging ed in altri settori che hanno lavorato in modo
interdisciplinare, attenti all’evoluzione del mercato, ai prodotti, alle tecniche
distributive, alla clientela in evoluzione, convogliando le loro competenze
specifiche in una efficace e produttiva sintesi finale.
Si pensi, per esempio, allo studio condotto da Bruno Munari, esperto in
packacing, sulle “forme delle visioni e sulle possibilità percettive” da cui è
scaturito un nuovo concetto di vetrina: l’esposizione di merci non era fine a
se stessa, ma un mezzo d’insegnamento per il pubblico che doveva ricevere
da essa il massimo dell’informazione.
E che dire delle grandi mostre tematiche, esempio emblematico della
politica culturale rivolta al consumatore e non solo. La prima, “del prodotto
italiano” a New York, a cui partecipò l’ufficio acquisti de La Rinascente,
organizzata nel 1951 da Leo Martinuzzi, direttore merci del Macy’s, il più
grande magazzino degli USA, in cui vennero presentati ai newyorkesi per la
prima volta le paste alimentari, i tessuti, le scarpe del “ciabattino” Ferragamo
e le valigie del “sellaio” Gucci, con lo scopo di far conoscere, attraverso i
prodotti del paese, il livello culturale del nostro Paese.
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E quella del 1952, “Saggio delle qualità italiane”, organizzata
dall’architetto Carlo Pagani in occasione del convegno promosso dal Groupe
Intercontinental des Grands Magazins, in cui furono presentati i mitragliatori
della Breda e le ceramiche dalla Richard Ginori.
E ancora nel 1953, “L’Estetica del prodotto”, organizzata sempre dal
Pagani, presso la filiale di piazza Duomo, il cui simbolo, il metro del
muratore, fu disegnato da Albe Steiner, e da cui nacque l’idea del “Compasso
d’oro”, grande evento nella storia del design italiano unitamente alla
esposizione dell’Industrial Design alla X triennale, al congresso
internazionale che ne è derivato e all’inizio delle pubblicazioni di “Stile e
Industria ”che segnò l’avvio della collaborazione fra artisti e industriali, fino
a quel momento solo occasionale.
E poi in successione le mostre: in Spagna nel 1955, in Giappone nel
1956, in America nel 1958, in India e in Thainlandia nel 1959, in Gran
Bretagna e Scozia nel 1961.
Come non ricordare, poi, le manifestazioni locali e nazionali: “la casa”,
il “campeggio”, “i giovani”, dalle quali sono nati atteggiamenti e modus
vivendi, tendenze che hanno influenzato il campo della moda,
dell’arredamento e della stessa stampa.
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Un modo di “far capire agli altri come eravamo noi e a noi come erano
gli altri”.
La politica de La Rinascente, volta ad offrire sempre il meglio ai
consumatori, è stata un veicolo di trasmissione di “valori”, per il modo di
collocarsi nella vita milanese prima e italiana poi, partecipando ai suoi eventi
e creando nel pubblico, il piacere dell’acquisto.
Ad hoc, l’iniziativa nel 1954 di un gemellaggio fra la filiale di piazza
Duomo e il Museo di Brera, allora poco frequentato dai milanesi. Una scelta
che definirei pedagogica: nella vetrina della filiale Duomo venne esposta una
tela, data dal Museo, del pittore Andrea Appiani e, per quindici giorni Brera
venne addobbata di fiori per conto de La Rinascente e furono aperte al
pubblico le porte del Museo.
Fu un’occasione di grande valenza culturale testimoniata dall’afflusso
dei visitatori milanesi che, finalmente, scoprirono il loro Museo e, di
conseguenza, le filiali “Rinascente”.
A differenza delle altre aziende dove prevalgono le macchine, La
Rinascente, fin dalla sua fondazione, ha investito sul patrimonio umano che
rappresentava il capitale dell’azienda. La formazione quadri e dirigenti è stato
un importante obiettivo: formare i giovani a cogliere le esigenze che
l’evoluzione della società imponeva. E per farlo ha dovuto inventarsi quelle
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strutture che in Italia non esistevano ancora: scuola di manager, ufficio studi
di mercato, tecniche di selezione con l’apporto di psicanalisti e psichiatri e
quant’altro.
Ne è nata una scuola in cui si sono formati uomini accomunati da
affinità culturali e attenti a cogliere le occasioni ed a reperire
tempestivamente le risorse per mettere in atto le loro idee; professionisti,
nello stesso tempo, capaci di interscambi di ruoli e funzioni per il
raggiungimento degli obiettivi.
Si può, senza ombra di dubbio, affermare che La Rinascente in tutte le
manifestazioni sia esterne all’azienda, sia interne, attraverso la politica della
sua leadership, non solo è stata governata dai “valori della cultura aperta”, ma
ne è stata convinta divulgatrice.
E oggi, è possibile trasmettere cultura attraverso un’azienda? E’ una
domanda legittima che molti si sono posti e a cui si può rispondere con
Andrea Lantier, grande conoscitore de La Rinascente, il quale afferma che
non è facile trasmettere da una generazione all’altra la stessa immagine
culturale, in quanto, come la vita dell’azienda è evolutiva, così la società
economica è in piena evoluzione.
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INTRODUZIONE
La tesi qui presentata, è la storia di una grande azienda: La Rinascente,
nel suo sviluppo storico e nella sua evoluzione attraverso la conduzione
intelligente e lungimirante del management che ha guidato i suoi passi dalla
fondazione avvenuta nel 1917, fino agli anni ’70.
L’attenzione è focalizzata in particolare sulla leadership “illuminata” di
quegli anni che - come sostiene Francesco Calegiuri - era convinta che
l’obiettivo da perseguire non fosse solo quello di soddisfare un bisogno, ma
quello di stimolare nuovi modi di vivere, usando la merce come elemento di
comunicazione culturale.
Il lavoro segue le seguenti scansioni: una prima parte in cui si esamina
l’avvento di una nuova forma di commercio al dettaglio favorita da un
insieme di fattori positivi: lo sviluppo di una industria capace di fornire
prodotti a buon prezzo e in modo continuativo; il nuovo sistema di
comunicazione e trasporto: il telegrafo e la rete ferrata; l’incremento
demografico, l’abbandono delle campagne e l’inurbamento delle città; il
miglioramento dei trasporti urbani che hanno contribuito all’affermarsi del
grande magazzino.
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Un accenno al pioniere, il parigino Aristide Boucicaut e al suo negozio,
il Bon Marchè, sito sulla “riva sinistra” in Parigi; alla successiva espansione,
sul suo esempio, di altri magazzini nella stessa Parigi e alla evoluzione, con i
department stores, negli Stati Uniti nel 1880 e in altri paesi europei dal 1890.
Una seconda fase, che vede La Rinascente districarsi tra le difficoltà e
le turbolenze del dopoguerra, dal 1919 al 1921, senza lasciar tracce di
pessimismo e scoramento negli uomini guida, fiduciosi nello “sviluppo delle
energie nazionali” resistenti a qualsiasi ostacolo.
Una terza fase che analizza le strategie usate dall’azienda per il
brillante superamento della crisi fino al grande risultato nel 1927 di 17 filiali
Rinascente e nel 1928 all’apertura della Upim; e alla sua ascesa fino
all’entrata in guerra dell’Italia.
Una quarta fase che vede l’economia italiana sconvolta dalla seconda
guerra mondiale e la Rinascente colpita in maniera grave con la distruzione di
diverse filiali; alla sfida per Umberto Brustio, di portata certamente non
inferiore a quella della fine degli anni ’20, che conta ancora una volta sulla
validità del “sistema uomini”: Luporini, Cesare e Giorgio Brustio, Vigorelli,
Brovelli, in grado di governare bene la complessa organizzazione aziendale e
non solo. Dal 1946, anno in cui è stata siglata la collaborazione con la
Jelmoli, “formidabile risultato”, al 1957, anno del congedo di U. Brustio.
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Una quinta fase: il cambio e la continuità generazionale; quella che
aveva fatto le cose e quella che doveva cambiarle, ma senza stravolgerne i
valori; la figura e l’opera di Cesare Brustio, grande e instancabile divulgatore
di quella cultura che ha reso unica nel suo genere La Rinascente; la nuova
struttura organizzativa resasi necessaria dall’evolversi del modello di
consumo, dalla fine degli anni ’50 alla fine degli anni ’60; la morte di Aldo
Borletti e l’uscita dall’azienda dei fratelli Brustio e, infine, l’avvicendarsi dei
nuovi dirigenti e dei nuovi azionisti degli anni ’70 e ’80.
Una sesta ed ultima fase: la situazione finanziaria del Gruppo
Rinascente per l’anno 1998, in cui si evidenzia l’entrata del gruppo francese
Auchan, con il quale si prevede un’alleanza di lungo periodo nel settore della
grande distribuzione in Italia.
Si conclude il lavoro con un mio breve commento.
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1. “AUX VILLE D’ITALIE”, IL PRIMO GRANDE MAGAZZINO
D’ITALIA, 1877
La nascita in Italia del grande magazzino, è legata ai fratelli
Ferdinando e Luigi Bocconi che esercitavano in Milano, nella metà del
secolo scorso, il commercio di tessuti e capi di abbigliamento e nel 1881, si
vantavano di aver costituito l’organizzazione di vendita al dettaglio più
importante d’Europa.
Il riferimento riguarda un florido negozio di tessuti e di abbigliamento
ubicato in Parigi sulla rive gauche, il Bon Marché, rilevato da Aristide
Boucicaut e che amplia con la vendita di abiti pronti per signore, calzature e
cappelli, ed introduce nuovi elementi nelle vendite: permette al cliente di
entrare nel negozio senza sentirsi obbligato ad acquistare, rifiuta di
contrattare il prezzo dell’articolo con il cliente, il prezzo è fisso, ma gli
concede di restituirlo se non è di suo gradimento; inoltre abbassa i prezzi,
accontentandosi di un guadagno inferiore per vendere di più.
Il suo obiettivo era quello di vendere il più possibile grandi quantità di
merci, ad un maggior numero di clienti a prezzi notevolmente inferiori a
quelli praticati dalla concorrenza; per cui tutto era finalizzato al
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raggiungimento dello scopo, addirittura fin dalla costruzione del magazzino
per la cui realizzazione aveva incaricato l’architetto Boileau e l’ingegnere
Eiffel, pionieri nell’utilizzare il ferro e il vetro, elementi che permettevano di
creare ambienti ampi e luminosi e davano nello stesso tempo l’impressione di
solidità e leggerezza.
1
L’ingresso libero, l’ambiente attraente e confortevole, le merci disposte
in modo da sembrare casuale, ma attentamente studiato per suscitare
curiosità, il prezzo fisso, si rivelano quindi vincenti: la clientela, percorrendo
gli ampi spazi, può vedere bene tutta la merce messa in vista e dedicarsi
tranquillamente allo shopping.
Sull’esempio del Bon Marché, a Parigi vengono aperti altri magazzini:
il Magazzino Louvre, il Printemps, la Samaritaine, mentre negli Stati Uniti
fra il 1860 e il 1880, sorgono i Department Stores: a New York, a Chicago,
Baltimora, Detroit, Boston, Filadelfia.
Dopo il 1890, anche in Gran Bretagna, Scandinavia, Paesi Bassi,
Svizzera, si diffonde questo tipo nuovo di magazzino. Tutti, comunque,
hanno origine o dall’ingrandimento di un negozio specializzato, o dalla
divisione di un emporio.
1
M. B. Miller, The Bon Marchè, p.42.
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Il grande magazzino offre un’ampia gamma di prodotti, partendo dalle
stoffe e dal vestiario, via via si diversifica inserendo prodotti per la casa, per
la cartoleria, per la gioielleria e anche i giocattoli.
Un altro obiettivo, oltre a quello di vendere grandi quantità di merci a
molti clienti ed a un prezzo inferiore a quello dei negozi, è quello di
trattenere per il minor tempo possibile, la merce nel magazzino. L’indicatore
per stabilire il successo è dato dal rapporto tra il volume annuale di vendita e
il valore finale o il valore medio.
D’altronde, il grande magazzino offrendo prodotti di ottima qualità a
prezzi vantaggiosi, può invogliare il cliente ad acquistare altri prodotti a
prezzi normali, ma i pionieri sanno bene come far presa sul pubblico
femminile.
Un altro indubbio vantaggio è il giro di denaro che circola in quanto,
vendendo a prezzo fisso e senza far credito, può essere accantonato in banca
per un periodo sufficiente a far lucrare discreti interessi prima di saldare i
fornitori e, soprattutto, evita l’entrata di finanziatori esterni.
Certamente il grande magazzino si rivela fin da subito, per i
consumatori, una forma di distribuzione molto economica, e anche se suscita
la protesta, ed era ovvio, dei grossisti loro fornitori e di altri dettaglianti, si
caratterizza rispetto ad altre forme di vendita per la superiorità organizzativa
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“che si manifesta nell’intreccio fra diversificazione dell’offerta e unità
gestionale, ampia applicazione del principio della divisione del lavoro e
concentrazione dei servizi di supporto alla vendita, oltre che nell’integrazione
fra impresa al dettaglio, impresa all’ingrosso e, a volte, impresa industriale”.
2
Altro aspetto rilevante è il “funzionamento meccanizzato” come lo
definisce Chandler jr., inerente la mobilitazione delle risorse che operano
all’interno del grande magazzino per farlo funzionare: dalle operazioni di
scarico delle merci alla loro verifica, il trasporto sui banchi di vendita,
l’interazione tra commesso e cliente durante la vendita e l’attenta
registrazione dei vari passaggi; tutto questo previsto da una gerarchia
manageriale che preventivamente deve pianificare, coordinare e controllare.
Comunque, fino agli inizi del nostro secolo, erano i proprietari, fondatori essi
stessi dell’azienda, a detenere il potere decisionale, anche se coadiuvati dai
capi sezione, grazie ad una autonomia finanziaria che permetteva di non
includere capitale esterno. Dopo la prima guerra mondiale questo disegno
organizzativo cambia: dal decentramento si passa ad una struttura
centralizzata che fa capo ad intere funzioni aziendali: il capo del servizio
commerciale, si interessa dell’acquisto e della vendita, controlla i risultati
delle sezioni e, a sua volta, viene assistito da un ufficio statistica che lo
informa della situazione dei reparti, mentre i dirigenti si concentrano sulla
2
S. De Vio, I grandi magazzini ed i magazzini a prezzo unico in Italia, Feltrinelli, Mi., 1960, pp.17-19.
17
vendita. Al di là di qualsiasi forma organizzativa, comunque, c’è la vendita:
quel faccia a faccia tra cliente e commesso che differenzia nettamente
l’impresa di distribuzione dall’impresa industriale.
3
In Italia, come già detto, il primo grande magazzino sorge a Milano, ad
opera dei fratelli Ferdinando e Luigi Bocconi, i quali, in un “Album di
Novità”, pubblicato nel 1881, sostenevano che i loro magazzini erano i più
importanti d’Europa e che, se a Parigi esistevano gli Empori più grandi, i loro
magazzini erano superiori per importanza industriale. Rivendicavano il fatto
di aver organizzato appositi stabilimenti per la produzione di articoli da porre
in commercio a prezzi decisamente inferiori a quelli francesi, ma a parità di
merito e con indubbio vantaggio per i clienti.
4
Tuttavia, non fu senza difficoltà il loro cammino; l’anno 1853 fu molto
nero per la famiglia e, mentre il padre Roberto viene incarcerato per debiti, i
fratelli, chiuso il negozio, cominciano ad andare nelle fiere e nei mercati delle
città lombarde; subito si distinguono dagli altri ambulanti per la vendita di
vestiti già pronti.
Nel 1865, aprono una bottega in via Santa Radegonda. Intanto, nel
ventennio seguente l’unità d’Italia, Milano diventa la capitale economica del
Paese.
3
F. Amatori, Proprietà e direzione. La Rinascente 1917-1969, Franco Angeli, pp.18-19.
4
Album Illustrato delle Novità dei Grandi Magazzini. “Alle Città d’Italia” dei Fratelli Bocconi, anno 11,
ottobre 1881, in Archivio Famiglia Brustio, cart.19, f.III e CDR. In F. Amatori, op. cit. p.24.