4
dell’Alleanza Atlantica, motivo d’irritazione per i leader del Cremlino, condussero ad
una sospensione delle ostilità tra le forze di sicurezza di Belgrado e i guerriglieri
kosovari dell’UÇK. La violazione del cessate il fuoco e la recrudescenza della crisi,
simboleggiata dalla strage di Racak, spinsero il Gruppo di Contatto a convocare le
conferenze di Rambouillet e Parigi, il cui fallimento costituì il preludio dell’azione
militare della NATO contro la Federazione Yugoslava.
Nel secondo capitolo, saranno analizzate le profonde tensioni tra Mosca e
Washington durante le prime settimane della guerra del Kosovo. In particolare, sarà
esaminata l’acrimoniosa reazione del Cremlino al lancio della campagna aerea della
NATO, prendendo in considerazione i principali motivi di contrasto tra Russia e Stati
Uniti. Saranno valutate attentamente anche alcune manovre militari di Mosca, fonte
d’apprensione e malcontento per l’amministrazione Clinton. L’apertura di un dialogo
russo-statunitense, per la soluzione politica della crisi in Kosovo, costituirà l’oggetto di
studio del terzo capitolo. L’incontro di Oslo, fra il segretario di Stato Albright e il
ministro degli esteri russo Ivanov, segnò l’inizio di una difficoltosa collaborazione
diplomatica tra Mosca e Washington, che portò all’adozione dei principi fondamentali
per la soluzione del conflitto.
Nella parte finale del presente studio, saranno ricostruiti gli estenuanti negoziati
trilaterali- tra Russia, Stati Uniti e Unione Europea- per la definizione delle clausole
effettive di un accordo finale sul Kosovo. Saranno esaminati, inoltre, i diversi eventi che
condussero alla conclusione del conflitto militare, a partire dall’accettazione del piano
di pace da parte delle autorità di Belgrado. A tale proposito, sarà riservata particolare
attenzione allo scontro sulla forza di pace tra Mosca e Washington, esacerbato
dall’incidente di Pristina e risolto soltanto al termine di trattative snervanti.
5
Capitolo primo. La crisi in Kosovo: dalle origini alla
conferenza di Rambouillet (1989-1999)
1.1 La questione del Kosovo e la comunità internazionale
Sin dagli anni immediatamente successivi alla scomparsa di Tito, la Provincia
Autonoma del Kosovo, parte della Repubblica Federale di Serbia, aveva conosciuto uno
stato di crescente tensione, determinato dal contrasto tra la maggioranza della
popolazione d’etnia albanese e la minoranza serba. Le origini di questo contrasto
risiedevano in un complesso intreccio di fattori storici, culturali, etnici e geostrategici,
che facevano del Kosovo l’ennesima potenziale polveriera nella penisola balcanica.
Fu proprio sfruttando il problema del Kosovo che Slobodan Milosevic, giovane
funzionario del partito comunista serbo, si trasformò rapidamente in un leader
nazionale. L’ascesa politica di Milosevic, culminata con l’elezione alla presidenza
prima della Serbia e poi della RFY1, si caratterizzò per il sapiente uso di due preziose
fonti di sostegno, vale a dire i mass media e l’attivismo nazionalista intransigente2.
I temi centrali del risorgimento nazionalista serbo furono sviluppati durante una
serie di raduni quasi quotidiani, detti mitinsi, aventi come oggetto la questione del
Kosovo. Questi raduni assunsero la forma di una mobilitazione di massa del popolo
serbo: furono presentati come adunate assolutamente spontanee, benché fossero in realtà
organizzati dalle strutture del partito comunista, con il compiacente appoggio della
polizia e dell’esercito. Ben presto, i mitinsi divennero il principale strumento politico
per la realizzazione del programma di Slobodan Milosevic 3.
Di conseguenza, a partire dal 1989, la Serbia ridusse progressivamente
l’autonomia del Kosovo, finendo poi per abolirla completamente. In pratica, ciò
determinò la totale sottomissione di tutti gli aspetti della vita nella provincia alla legge
serba, che era applicata in maniera gravemente discriminatoria. L’esito di questa
politica fu il verificarsi di numerosi casi di violazione dei diritti umani, ai danni di
cittadini yugoslavi di etnia albanese4.
1
L’acronimo RFY indica la Repubblica Federale di Yugoslavia, uno degli stati nati in seguito alla
dissoluzione della Repubblica Socialista Federale di Yugoslavia, avvenuta nel 1991-92. Lo stato della
RFY, proclamato il 27 aprile del 1992, è costituito dalla Serbia e dal Montenegro.
2
Malcolm, N., op. cit., pp. 379-380.
3
Benedikter, T., Il Dramma del Kosovo. Dall’origine del conflitto tra serbi e albanesi agli scontri di
oggi, DATANEWS Editrice, Roma 1998, pp. 69-72.
4
Vedi ad esempio: Remarks by Representative Lantos, February 27, 1990. In The Kosovo Conflict, cap.
1, n. 20.
6
Quasi in risposta all’azione di repressione posta in atto dalle autorità di Belgrado,
alla fine del 1989, fu ufficialmente fondato quello che sarebbe rapidamente diventato il
partito d’identificazione etnica degli albanesi5: la LDK6, di cui divenne leader
l’intellettuale Ibrahim Rugova. La politica perseguita da Rugova e dalla LDK, per
tentare di risolvere la questione del Kosovo, poggiava le proprie basi su una duplice
linea d’azione. All’interno, si doveva attuare una strategia di resistenza non-violenta nei
confronti della repressione serba, negando sistematicamente la legittimità del governo di
Belgrado. All’esterno, invece, era necessario internazionalizzare il problema kosovaro,
vale a dire cercare diverse forme di coinvolgimento politico internazionale, che
conducessero, infine, al riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo.
Il 19 ottobre del 1991, infatti, era stato proclamato lo Stato sovrano e indipendente
della “Repubblica del Kosova”7, alla cui presidenza fu designato lo stesso Rugova. Il
nuovo stato, tuttavia, fu successivamente riconosciuto soltanto dall’Albania. Il resto
della comunità internazionale, invece, concentrò la propria attenzione su altre due
questioni. Innanzitutto, la necessità di porre fine alle gravi violazioni dei diritti
dell’uomo da parte delle autorità serbe. In secondo luogo, fu sottolineata l’importanza di
ristabilire una rilevante sfera d’autonomia per la provincia, beninteso entro i confini
della Repubblica Serba8.
Il primo tentativo, volto a restaurare una forma d’autogoverno per il Kosovo, fu
realizzato nell’ambito della conferenza sulla crisi yugoslava dell’ottobre 1991. Una
delegazione kosovara, guidata da Rugova, fu poi invitata a presenziare alla conferenza
di Londra sulla ex-Yugoslavia dell’agosto 1992. In tale sede, tuttavia, non vi fu alcun
significativo progresso in relazione alla questione del Kosovo. D’altra parte, appena un
mese prima a Ginevra, la RFY aveva rifiutato la proposta, avanzata da Lord Carrington,
presidente della conferenza sulla ex-Yugoslavia, di aprire un negoziato sulla crisi. Nel
corso degli ultimi mesi del 1992, la comunità internazionale si attivò nuovamente al fine
di cercare una soluzione alla questione kosovara. Innanzitutto, la allora CSCE9 inviò in
Kosovo degli osservatori, appartenenti alla cosiddetta Mission of Long Duration10.
5
Bozzo, L. & Simon-Belli, C., La “Questione Illirica”. La politica estera italiana in un’area di
instabilità: scenari di crisi e metodi di risoluzione, Franco Angeli, Milano 1997, p. 91.
6
Lidhjes Demokratike te Kosovës: Lega Democratica del Kosovo.
7
Kosova, o anche Kosova dhe Rrafshi i Dukagjinit, è il nome della provincia in albanese. La
denominazione ufficiale serba è invece Kosovo-Metohija, abbreviato in Kosmet.
8
Vedi ad esempio: Statement by the NATO Foreign Ministers, December 17, 1992. In The Kosovo
Conflict, cap. 1, n. 40.
9
La CSCE (Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa) mutò la propria denominazione in
OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) il 1 gennaio del 1995.
10
La Mission of Long Duration (Missione di Lunga Durata) fu inviata in Kosovo nel novembre del 1992:
il suo incarico principale era quello di monitorare il rispetto dei diritti dell’uomo nella provincia. Missioni
analoghe furono contemporaneamente schierate dalla CSCE nelle regioni della Sandjak e della
7
Quest’ultima, in realtà, ebbe vita piuttosto breve. Nell’estate del 1993, infatti, Belgrado
si rifiutò di rinnovarne il mandato, se non in cambio della riammissione della RFY alla
CSCE medesima, da cui era stata esclusa all’inizio dell’anno11.
Il più eloquente segnale d’interessamento alla crisi in Kosovo venne comunque
dagli Stati Uniti, e fu rappresentato dal Christmas Warning del 24 dicembre 1992. Su
disposizione del presidente americano George Bush, il segretario di Stato, Lawrence
Eagleburger, inviò all’ambasciata statunitense a Belgrado un telegramma riservato di
una sola frase, specificando che l’ambasciatore incaricato doveva leggerlo parola per
parola, e faccia a faccia, al presidente della Repubblica Serba Slobodan Milosevic. Col
Christmas Warning l’amministrazione Bush rivolgeva un severo monito alle autorità di
Belgrado: “Nel caso di un conflitto in Kosovo causato dalla politica serba, gli Stati Uniti
saranno pronti ad utilizzare la propria forza militare contro i serbi, sia in Kosovo che
nella Serbia propriamente detta”12.
Durante i primi mesi del 1993, la neo-insediata amministrazione democratica,
guidata da Bill Clinton, reiterò per ben due volte tale avvertimento. In gennaio, fu lo
stesso presidente statunitense a ripeterlo. In febbraio, invece, fu il segretario di Stato
Warren Christopher a riproporlo, esprimendo al contempo il timore che una guerra in
Kosovo avrebbe potuto avere conseguenze destabilizzanti per l’intera area dei Balcani
meridionali13. Il Christmas Warning rifletteva assai bene l’opinione, ampiamente
diffusa a Washington, che l’origine del conflitto che stava dilaniando la ex-Yugoslavia
risiedesse nella politica espansionista di Belgrado14. Nel maggio del 1992, infatti, la
Serbia aveva scatenato una guerra d’aggressione territoriale contro la Bosnia-
Erzegovina.
La cessazione delle ostilità in Bosnia-Erzegovina, tuttavia, non portò alla
soluzione della crisi in Kosovo. Infatti, gli accordi di pace siglati con la mediazione
degli Stati Uniti a Dayton, Ohio, il 21 novembre del 199515, non presero minimamente
in considerazione il problema kosovaro. Ciò inferse un colpo durissimo al prestigio e
Vojvodina, anch’esse facenti parte della Repubblica Federale di Yugoslavia. Vedi in proposito: Troebst,
S., Conflict in Kosovo: Failure of Prevention? An Analytical Documentation, 1992-1998, ECMI Working
Paper # 1, European Centre for Minority Issues (ECMI), Flensburg 1998, pp. 26-29.
11
Bozzo, L. & Simon-Belli, C., op. cit., p. 141.
12
“Christmas Warning” Cable from President Bush to Serbian President Milosevic, December 24, 1992.
In The Kosovo Conflict, cap. 1, n. 41.
13
Nel febbraio del 1993, nel corso di una visita negli Stati Uniti, il leader politico kosovaro Ibrahim
Rugova manifestò la medesima preoccupazione del segretario di Stato Christopher: “Gli esperti
internazionali prevedono che se la Serbia continuerà la sua campagna di genocidio in Kosova, il conflitto
nei Balcani si estenderà probabilmente a Macedonia, Albania, Bulgaria, Grecia, e forse Turchia. Ne
seguirebbe una più vasta e insidiosa guerra balcanica”. Excerpts from Statement by Kosovar Albanian
Leader Rugova, February 16, 1993. Ivi, cap. 1, n. 42.
14
MccGwire, M., “Why did we bomb Belgrade?”, International Affairs, Vol. 76 (2000), No. 1, p. 5.
15
Gli Accordi di Pace furono formalmente firmati a Parigi il 14 dicembre 1995.
8
alla credibilità di Rugova16. Egli fu accusato, in sostanza, di non essere riuscito ad
ottenere una soluzione finale per la ex-Yugoslavia che soddisfacesse anche le istanze
kosovare.
La politica di internazionalizzazione della crisi perseguita da Rugova, in effetti,
aveva prodotto tre soli risultati di rilievo. Il primo rappresentato dall’ennesima
risoluzione delle Nazioni Unite sul rispetto dei diritti umani in Kosovo: si trattava della
risoluzione 50/190 del 22 dicembre 1995, approvata dall’Assemblea Generale con i soli
voti contrari di Federazione Russa ed India17. Il secondo costituito dalla decisione del
Consiglio di Sicurezza di proseguire nelle sanzioni di natura economica contro la
Federazione Yugoslava18, al fine di indurla ad affrontare il problema del Kosovo.
L’ultimo, invece, si era concretizzato nel tentativo dell’OSCE di subordinare la
riammissione della RFY alla soluzione del medesimo problema19.
In seguito, la leadership di Rugova fu ulteriormente intaccata da altri due fattori.
Il primo fu la crisi politica in Albania nella primavera del 1997, quando scoppiò
un’insurrezione con l’intento di rovesciare il presidente Sali Berisha, il cui governo era
stato l’unico a riconoscere la “Repubblica del Kosova”. L’altro fattore, di gran lunga più
rilevante, fu rappresentato dal compimento da parte dell’UÇK20 di attività di natura
terroristica contro istituzioni e funzionari serbi. L’UÇK definì ben presto la propria
fisionomia di movimento di resistenza locale, avente come precipue finalità la
protezione della popolazione di etnia albanese dagli attacchi serbi, l’unità nazionale e la
liberazione del Kosovo.
L’entrata in scena dell’UÇK, manifestatosi completamente solo dopo la
conclusione degli Accordi di Dayton, mise definitivamente in crisi la strategia della
resistenza passiva adottata dalla LDK21. L’atteggiamento di Rugova nei confronti
dell’Esercito di Liberazione del Kosovo fu inizialmente caratterizzato da una certa dose
di diffidenza. Egli era convinto, infatti, che, dietro gli attentati rivendicati dall’UÇK, vi
fossero degli agenti provocatori, appartenenti ai servizi segreti di Belgrado. Per gli
oppositori del leader albanese, questo non fu che l’ennesimo segnale della sua ormai
evidente incapacità di interpretare la realtà in costante divenire del Kosovo. Nonostante
ciò, il 22 marzo 1998, Rugova fu rieletto presidente della “Repubblica del Kosova”.
16
Sullo “shock di Dayton”, vedi: Troebst, S., op. cit., pp. 9-10.
17
United Nations General Assembly Resolution 50/190, December 22, 1995. In The Kosovo Conflict, cap.
1, n. 49.
18
Le sanzioni a carico della Repubblica Federale di Yugoslavia erano state imposte, come conseguenza
della guerra in Bosnia-Erzegovina, dalla risoluzione 757 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite,
approvata il 30 maggio 1992.
19
Bozzo, L. & Simon-Belli, C., op. cit., p. 100.
20
Ushtria Çlirimtare e Kosovës: Esercito di Liberazione del Kosovo.
21
MccGwire, M., art. cit., p. 4.
9
1.2 L’azione del Gruppo di Contatto e la contrapposizione fra Russia e
Stati Uniti
All’inizio del 1998, si registrò in Kosovo una notevole intensificazione delle
ostilità tra le forze della RFY e le formazioni paramilitari dell’UÇK. In effetti, la polizia
serba e l’esercito yugoslavo cercarono di neutralizzare la minaccia costituita dai
guerriglieri kosovari con una serie di violenti attacchi contro diversi villaggi,
provocando in tal modo numerose vittime tra i civili. L’UÇK rispose alle operazioni
militari di Belgrado attraverso atti terroristici sempre più frequenti. Questi sviluppi
fecero convergere, ancora una volta, l’attenzione della comunità internazionale sul
Kosovo. Pertanto, in occasione dell’incontro di Washington dell’8 gennaio, il Gruppo di
Contatto per la ex-Yugoslavia (composto da Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia,
Russia e Stati Uniti) dichiarò che “avrebbe continuato ad interessarsi del Kosovo in
quanto questione di grande importanza”22.
Il 25 febbraio, il Gruppo di Contatto si riunì a Mosca, definendo la propria
posizione in relazione alla questione del Kosovo. In una dichiarazione congiunta, fu
espressa “la condanna sia della violenta repressione delle espressioni non violente di
opinioni politiche, incluse le manifestazioni pacifiche, sia degli atti di terrorismo,
compresi quelli del cosiddetto Esercito di Liberazione del Kosovo”. Il Gruppo di
Contatto chiarì, inoltre, di “non essere favorevole né all’indipendenza né al
mantenimento dello status quo”, e che “la soluzione del problema del Kosovo doveva
rispettare l’integrità territoriale della Repubblica Federale di Yugoslavia”23. In pratica,
si appoggiò la concessione di un’ampia autonomia amministrativa alla provincia
kosovara, ma sempre entro i confini della Federazione Yugoslava.
Tra il 28 febbraio e il 7 marzo, le unità antiterrorismo del ministero degli interni
serbo risposero all’assassinio di alcuni poliziotti, scatenando una brutale rappresaglia
contro le roccaforti dell’UÇK nella regione di Drenica24. Molti commentatori ritennero
che Milosevic fosse stato, di fatto, incoraggiato a realizzare questa dura campagna
militare dalle affermazioni di Robert Gelbard, il rappresentante straordinario degli Stati
Uniti per i Balcani. Il 23 febbraio, Gelbard si era recato a Pristina, dove aveva dichiarato
che “l’UÇK era senza alcun dubbio un gruppo terrorista”, e che gli Stati Uniti
“condannavano duramente le attività terroristiche in Kosovo”25. Il 4 marzo, lo stesso
22
Statement by the Contact Group, January 8, 1998. In The Kosovo Conflict, cap. 2, n. 1.
23
Statement by the Contact Group, February 25, 1998. Ivi, cap. 2, n. 2.
24
Per una dettagliata descrizione degli eventi di Drenica, vedi: Troebst, S., op. cit., pp. 2-4.
25
Citato in Crawford, Timothy W., “Pivotal Deterrence and the Kosovo War: Why the Holbrooke
Agreement Failed”, Brookings Working Paper, February 26, 2001, p. 10;
http://www.brookings.edu/dybdocroot/views/articles/fellows/2001crawford_psq.pdf.
10
Gelbard deplorò, d’altro canto, la violenza e l’uso eccessivo della forza da parte della
polizia serba. Egli confermò, inoltre, che il Christmas Warning del 1992 era ancora
valido: “La politica degli Stati Uniti non è cambiata…abbiamo avvisato Milosevic in
modo appropriato”26.
In seguito ai tragici eventi di Drenica, il Gruppo di Contatto si riunì il 9 marzo a
Londra, in una sessione speciale convocata dal ministro degli esteri britannico, Robin
Cook. In tale occasione, i sei stati membri decisero di imporre delle sanzioni alla RFY,
adottando specificamente le seguenti misure: la richiesta, rivolta al Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite, di imporre un embargo totale sulle armi contro la
Federazione Yugoslava, compreso il Kosovo; il rifiuto di vendere alla RFY delle armi
che potevano essere utilizzate per la repressione interna, o per attività terroristiche; il
diniego dei visti agli alti funzionari che si erano resi responsabili dell’azione repressiva
in Kosovo; e infine, l’imposizione di una moratoria sul credito alle esportazioni
finanziate dal governo yugoslavo. Affinché tali sanzioni fossero attenuate, Milosevic
avrebbe dovuto ritirare le unità della polizia speciale e interrompere le operazioni delle
forze di sicurezza contro la popolazione civile; consentire l’accesso in Kosovo alle
organizzazioni umanitarie, come pure ai rappresentanti del Gruppo di Contatto e di altre
ambasciate; impegnarsi pubblicamente ad iniziare dei negoziati con i leader kosovari27.
In realtà, le misure adottate contro la Federazione Yugoslava rappresentarono una
sorta di compromesso tra gli stati membri del Gruppo di Contatto. I sei governi
interessati, infatti, manifestarono opinioni molto diverse sugli sviluppi della crisi in
Kosovo.
La Russia adottò “una posizione inflessibilmente pro-serba”28, accusando
pubblicamente l’UÇK di essere il responsabile dell’aggravarsi della situazione nella
provincia29. Il governo di Mosca, inoltre, non si associò alle ultime due delle sopracitate
sanzioni, ma s’impegnò a considerarne l’adozione nel caso in cui, dopo due settimane,
Belgrado non si fosse attenuta alle richieste del Gruppo di Contatto. Infine, il 12 marzo,
Gennady Tarasov, portavoce del ministero degli esteri russo, spense le speranze
occidentali in una possibile mediazione del proprio governo. Tarasov dichiarò, infatti,
che la Russia considerava la crisi in Kosovo una questione interna della Serbia30, e che
pertanto “non avrebbe fatto da intermediario nella soluzione del conflitto”31.
26
Citato in International Crisis Group, “Kosovo Spring”, ICG Report, March 20, 1998, p. 41;
http://www.intl-crisis -group.org/projects/showreport.cfm?reportid=178.
27
Statement by the Contact Group, March 9, 1998. In The Kosovo Conflict, cap. 2, n. 10.
28
International Crisis Group, op. cit., p. 40.
29
Statement by the Spokesman of the Ministry of Foreign Affairs of the Russian Federation, March 2,
1998. In The Kosovo Conflict, cap. 2, n. 4.
30
L’11 marzo, il governo di Belgrado dichiarò che “non accettava alcun tentativo di internazionalizzare
qualsiasi questione interna della Repubblica Federale di Yugoslavia e della Repubblica di Serbia”, e che
11
Gli Stati Uniti, invece, pur condannando gli atti di terrorismo dell’UÇK,
affermarono che la responsabilità per la violenza in Kosovo ricadeva esclusivamente sul
governo di Milosevic. Quest’ultimo, secondo il segretario di Stato Madeleine Albright,
era il responsabile dell’internazionalizzazione della crisi, che non poteva certo
considerarsi un affare interno della Federazione Yugoslava32. L’amministrazione
Clinton, infine, non escluse il ricorso ad un intervento militare nella provincia kosovara.
Durante una conferenza stampa tenuta a Roma, Albright dichiarò che “[gli Stati Uniti]
non rimarranno a guardare le autorità serbe fare in Kosovo ciò che non possono più fare
in Bosnia”, sottolineando poi che Washington aveva un’ampia gamma d’alternative e
non ne avrebbe escluso neanche una33.
All’interno del Gruppo di Contatto vi furono poi alcuni stati, come l’Italia e la
Germania, che si dichiararono favorevoli ad una soluzione della crisi per vie
esclusivamente diplomatiche. Il 7 marzo, il ministro degli esteri italiano, Lamberto Dini,
affermò che la comunità internazionale “doveva fare ogni sforzo per indirizzare la
situazione entro i confini della diplomazia”34. Il giorno dopo, il suo omologo tedesco,
Klaus Kinkel, sottolineò che il dialogo e il compromesso erano le uniche vie da
percorrere per riportare la pace in Kosovo35.
Dopo l’incontro di Londra, il Gruppo di Contatto si riunì il 25 marzo a Bonn, in
Germania. Gli stati membri furono concordi nel rilevare che, nonostante alle
organizzazioni umanitarie fosse stato garantito l’accesso in Kosovo, la RFY si rifiutava
di ritirare le forze di sicurezza e di iniziare le trattative con i rappresentanti albanesi. Di
conseguenza, gli Stati Uniti definirono la politica di Belgrado “o l’inizio
dell’acquiescenza o un tentativo di dividere il Gruppo di Contatto”36. Alla luce di tale
ambiguità, si decise di mantenere le sanzioni esistenti e di valutare nuovamente la
situazione dopo quattro settimane.
Il 31 marzo, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottò la risoluzione
1160, che condannava l’uso eccessivo della forza da parte della polizia serba e tutti gli
atti di terrorismo; imponeva un embargo sulle armi contro la RFY; richiedeva, infine,
tale tentativo costituiva “un’interferenza negli affari interni di uno stato sovrano e indipendente”.
Statement by the Government of the Federal Republic of Yugoslavia, March 11, 1998. Ivi, cap. 2, n. 11.
31
Citato in International Crisis Group, op. cit., p. 40.
32
Statement by Secretary of State Albright, March 9, 1998. In The Kosovo Conflict, cap. 2, n. 8.
33
Excerpts from Press Briefing by Secretary of State Albright and Italian Foreign Minister Dini, March
7, 1998. Ivi, cap. 2, n. 6.
34
Excerpts from Press Briefing by Secretary of State Albright and Italian Foreign Minister Dini, March
7, 1998. In The Kosovo Conflict, cap. 2, n. 6.
35
Excerpts from Press Conference by Secretary Albright and German Foreign Minister Kinkel, March 8,
1998. Ivi, cap. 2, n. 7.
36
Ivi, p. 92.
12
una soluzione politica della crisi che rispettasse l’integrità territoriale della Federazione
Yugoslava e garantisse, allo stesso tempo, un significativo grado di autonomia al
Kosovo37. Benché il Consiglio di Sicurezza avesse confermato che la crisi in Kosovo
costituiva una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, Belgrado continuò a
definirla una questione esclusivamente interna. Di conseguenza, il governo serbo, su
proposta di Milosevic, decise di indire un referendum sul quesito se accettare o no “la
partecipazione dei rappresentanti stranieri nella soluzione del problema del Kosovo e
Metohija”38. Il referendum, svoltosi il 23 Aprile 1998, escluse per acclamazione ogni
forma d’ingerenza negli affari interni della Serbia.
Tali sviluppi, naturalmente, non impedirono al Gruppo di Contatto di riunirsi a
Roma il 29 aprile. I sei stati membri raccomandarono, in primo luogo, l’adozione di un
pacchetto di misure di stabilizzazione per il Kosovo. Esse includevano: la cessazione
della repressione da parte delle autorità di Belgrado e una dura condanna del terrorismo
da parte dei leader politici kosovari; la riapertura delle missioni dell’OSCE nella RFY,
compreso il Kosovo; e infine, il coinvolgimento internazionale nelle trattative tra il
governo yugoslavo e i kosovari. Il Gruppo di Contatto decise, inoltre, di disporre il
blocco dei fondi detenuti all’estero dalla Federazione Yugoslava e dalla Serbia. Anche
in questo caso la Russia rifiutò di associarsi alle misure deliberate39.
In maggio, sembrò che i negoziati per una soluzione pacifica della crisi fossero
stati finalmente avviati. A metà mese, infatti, si svolse a Belgrado il primo colloquio tra
il presidente yugoslavo Milosevic e il leader albanese Rugova. L’esito dell’incontro,
tuttavia, fu assolutamente fallimentare, a dispetto dell’instancabile opera di mediazione
dei diplomatici statunitensi Robert Gelbard e Richard Holbrooke.
Pochi giorni dopo, le forze della RFY lanciarono una nuova offensiva contro
l’UÇK lungo il confine albanese. Di conseguenza, i kosovari moderati si attestarono su
posizioni decisamente radicali, che furono rese palesi dalle richieste avanzate durante
una visita negli Stati Uniti. In occasione dei colloqui di Washington del 29 maggio,
Rugova e la sua delegazione annunciarono al presidente americano Bill Clinton che, a
causa della recente campagna militare yugoslava, essi si erano rifiutati di proseguire le
trattative con le autorità di Belgrado. I rappresentanti albanesi, inoltre, comunicarono a
Clinton che l’unica soluzione accettabile della crisi sarebbe stata la concessione della
piena indipendenza al Kosovo40.
37
United Nations Security Council Resolution 1160, March 31, 1998. Ivi, cap. 2, n. 23.
38
Report of the Organization for Security and Cooperation in Europe, April 20, 1998. Ivi, cap. 2, n. 27.
39
Statement by the Contact Group, April 29, 1998. In The Kosovo Conflict, cap. 2, n. 30.
40
Crawford, Timothy W., op. cit., pp. 11-12.
13
La nuova escalation di violenza nei Balcani costituì l’oggetto principale del
meeting del NAC41, che si svolse il 28 maggio a Città del Lussemburgo. Nella
dichiarazione finale fu evidenziato che “la violenza e l’associata instabilità rischiano di
minacciare gli Accordi di Pace in Bosnia-Erzegovina, e di mettere in pericolo la
sicurezza e la stabilità in Albania e nella ex-Repubblica Yugoslava di Macedonia”42. La
NATO, pertanto, annunciò che, fra agosto e settembre, avrebbe condotto delle
esercitazioni aeree e terrestri in Albania e Macedonia. L’Alleanza Atlantica, inoltre,
iniziò a pianificare il possibile spiegamento preventivo di forze nei due paesi, anche al
fine di sostenere l’attività delle missioni dell’OSCE e dell’ONU presenti nella regione43.
Mentre la situazione nella provincia serba continuava ad aggravarsi, ci fu
l’ennesima riunione del Gruppo di Contatto. A quest’incontro, tenutosi il 12 giugno a
Londra, parteciparono anche i rappresentanti di Canada e Giappone. La dichiarazione
finale definiva la crisi in Kosovo “una significativa minaccia per la sicurezza e la pace
nella regione”, e condannava ancora una volta “l’uso massiccio e sproporzionato della
forza” da parte delle milizie di Belgrado. Di conseguenza, gli otto stati chiesero alla
RFY di ritirare le forze di sicurezza; garantire l’accesso in Kosovo agli operatori
umanitari; consentire ai rifugiati e ai profughi di far ritorno alle loro abitazioni; e infine,
compiere dei rapidi progressi nel dialogo con la parte albanese. A Londra, tra l’altro,
furono stabilite nuove sanzioni contro Belgrado, vale a dire il blocco degli investimenti
in Serbia e l’interdizione di tutti i voli internazionali compiuti dall’aviazione civile
yugoslava44.
Come già avvenuto in precedenza, queste misure non furono approvate dalla
Russia, che decise di non aderire all’azione comune degli altri membri del Gruppo di
Contatto. Gli Stati Uniti, invece, affermarono che la comunità internazionale doveva
prendere in considerazione un intervento militare, non limitandosi esclusivamente alle
sanzioni di natura economica. A questo proposito, Albright dichiarò che il mandato del
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sarebbe stato desiderabile, ma non
necessario, per autorizzare l’uso della forza in Kosovo. Infatti, proseguì il segretario di
Stato, “il preoccupante deterioramento della situazione…rappresenta una significativa
minaccia per la sicurezza e la pace nella regione, e ciò normalmente giustifica la
capacità della comunità internazionale di prendere, in un modo o nell’altro, dei
provvedimenti”45.
41
North Atlantic Council: Consiglio dell’Atlantico del Nord o anche Consiglio Atlantico.
42
North Atlantic Council (NAC) Statement, May 28, 1998. In The Kosovo Conflict, cap. 2, n. 39.
43
Ibidem.
44
Statement by the Contact Group and the Foreign Ministers of Canada and Japan, June 12, 1998. In
The Kosovo Conflict, cap. 2, n. 46.
45
Excerpts from Remarks by Secretary of State Albright, June 12, 1998. Ivi, cap. 2, n. 47.
14
Non tutti i membri del Gruppo di Contatto condivisero la posizione assunta dagli
Stati Uniti. La Federazione Russa e la Francia, ad esempio, sostennero che un intervento
militare avrebbe richiesto l’approvazione unanime del Gruppo di Contatto, nonché una
risoluzione del Consiglio di Sicurezza. In tal modo, l’opzione dell’uso della forza era
praticamente esclusa, in quanto la Russia, membro permanente del Consiglio di
Sicurezza, avrebbe sicuramente posto il veto ad un’eventuale autorizzazione in
proposito. Nonostante questi dissensi, fra il 13 e il 15 giugno, la NATO condusse delle
esercitazioni aeree lungo il confine fra Kosovo, Albania e Macedonia.
Il 16 giugno, il presidente russo, Boris Yeltsin, e il suo omologo yugoslavo,
Slobodan Milosevic, s’incontrarono a Mosca. Al termine dei colloqui, fu annunciato che
le autorità di Belgrado s’impegnavano a: riprendere i negoziati con la parte albanese;
porre fine alla repressione contro i civili; garantire il libero accesso in Kosovo ai
diplomatici e alle organizzazioni internazionali, comprese quelle umanitarie; ritirare,
infine, le forze di sicurezza, compatibilmente all’intensità delle attività terroristiche46.
Nei mesi successivi, tuttavia, questi impegni furono in gran parte disattesi dal governo
yugoslavo.
46
Joint Statement by President Milosevic of the Federal Republic of Yugoslavia and Russian President
Yeltsin, June 16, 1998. In The Kosovo Conflict, cap. 2, n. 49.
15
1.3 La mediazione diplomatica russo-statunitense e l’opzione militare
della NATO
Mentre la crisi in Kosovo si aggravava durante l’estate, gli Stati Uniti, agendo con
il coinvolgimento e il sostegno del Gruppo di Contatto, diedero inizio ad un processo di
negoziati indiretti tra il governo di Belgrado e la LDK. Tale azione diplomatica si svolse
principalmente sotto la direzione di Christopher Hill, l’ambasciatore statunitense in
Macedonia, e Jim O’Brian, un alto funzionario del dipartimento di Stato che aveva
avuto un ruolo preminente nella stesura degli Accordi di Dayton47.
Fu così che, fra il 4 e il 6 luglio, Richard Holbrooke e il viceministro degli esteri
russo, Aleksandr Avdeyev, fecero la spola fra Milosevic e la LDK, esercitando forti
pressioni affinché le due parti raggiungessero un accordo. Questo tentativo fallì perché i
kosovari, come dichiarò Holbrooke, “non andavano d’accordo tra loro”48. Il portavoce
di Rugova, invece, affermò che le loro discordie erano dovute alla mancanza di una
coerente strategia del Gruppo di Contatto, e, più in generale, all’assenza di una chiara
agenda internazionale49. In realtà, il Gruppo di Contatto aveva chiarito, fin dall’inizio,
che il Kosovo non avrebbe potuto rendersi indipendente dalla Repubblica di Serbia.
Questo fatto, evidentemente, provocava il risentimento dei rappresentanti politici
albanesi.
Il 6 luglio, l’incaricato d’affari degli Stati Uniti a Belgrado, Richard Miles, e il
suo omologo russo annunciarono la formazione della cosiddetta Kosovo Diplomatic
Observer Mission (KDOM)50. La KDOM era formata da diplomatici disarmati, aventi il
compito di stendere delle relazioni sulla libertà di movimento e le condizioni di
sicurezza in tutto il Kosovo51. L’attività degli osservatori della KDOM era coordinata
dal Gruppo di Contatto, che si riunì alcuni giorni dopo a Bonn. In occasione di questo
incontro, si evidenziò che Belgrado avrebbe dovuto prendere ulteriori provvedimenti,
per adempiere sia agli impegni assunti da Milosevic a Mosca, sia alle precedenti
richieste del Gruppo di Contatto52.
L’8 luglio, quattro navi da guerra dell’Alleanza Atlantica attraccarono nel porto di
Durres, in Albania. Il generale americano Wesley Clark, comandante supremo delle
47
Weller, M., “The Rambouillet conference on Kosovo”, International Affairs, Vol. 75 (1999), No. 2, p.
219.
48
Citato in Crawford, Timothy W., op. cit., p. 12.
49
Ibidem.
50
Missione Diplomatica di Osservazione in Kosovo.
51
Department of State Fact Sheet, July 8, 1998. In The Kosovo Conflict, cap. 3, n. 2.
52
Contact Group Statement, July 8, 1998. Ivi, cap. 3, n. 1.
16
forze NATO in Europa53, definì tale evento “una dimostrazione della determinazione
della NATO a contribuire alla soluzione del conflitto in Kosovo”. Clark adottò toni
minacciosi nei confronti dell’UÇK, dichiarando che “tutti coloro che partecipano a
questa guerra devono…tener conto delle considerevoli capacità della NATO”. Il
comandante alleato, infine, inasprì il già severo monito, accennando ad alcune
operazioni che l’Alleanza Atlantica avrebbe potuto realizzare contro i guerriglieri
kosovari54.
Il rapido rafforzamento militare, e l’assoluta intransigenza politica, dell’Esercito
di Liberazione del Kosovo rappresentavano, infatti, uno dei maggiori ostacoli al
conseguimento di una soluzione negoziata della crisi. Nel marzo 1998, in seguito ai
massacri compiuti dalla polizia serba nella regione di Drenica, l’UÇK aveva scatenato
una grande offensiva: a luglio, esso controllava più di un terzo della provincia.
Imbaldanzito dai successi militari, l’UÇK proclamò che il proprio fine era la
costituzione di una “Grande Albania”, mise all’indice tutti i partiti politici nel territorio
controllato, e denunciò Rugova e la LDK55. Alla fine di luglio, tuttavia, le forze serbe
lanciarono una controffensiva, respingendo i guerriglieri kosovari e costringendo
migliaia di civili a rifugiarsi sulle colline. In tal modo, la Serbia riguadagnò il controllo
di gran parte del Kosovo.
Nel frattempo, l’amministrazione Clinton aveva maturato l’idea che le sanzioni e
gli osservatori della KDOM, per quanto importanti, non mettessero sufficiente pressione
sulle autorità di Belgrado. La posizione del governo statunitense fu chiaramente
delineata, il 23 luglio, dall’ambasciatore Robert Gelbard, responsabile per l’attuazione
degli Accordi di Dayton e per le questioni relative alla ex-Yugoslavia.
In apertura del proprio discorso, Gelbard definì la crisi in Kosovo “una priorità
assoluta della politica estera” statunitense, e notò che le autorità yugoslave non avevano
ancora ottemperato alle richieste del Gruppo di Contatto. Allo stesso modo, proseguì
Gelbard, Milosevic non aveva rispettato i pur limitati impegni presi a Mosca con
Yeltsin. A questo proposito, l’ambasciatore statunitense ammise che “il nostro punto di
vista è, in tutta onestà, molto diverso da quello del governo russo”. Gelbard, inoltre,
rinnovò la minaccia dell’uso della forza, dichiarando che la pianificazione di una
possibile azione della NATO era pressoché completa, e che “tutte le opzioni, compreso
un duro intervento militare in Kosovo”, rimanevano in discussione.
Gelbard, infine, non trascurò di menzionare l’UÇK e l’opera di mediazione
dell’ambasciatore Hill. In effetti, uno degli aspetti cruciali della missione di Hill era
53
SACEUR: Supreme Allied Commander Europe.
54
Citato in Crawford, Timothy W., op. cit., p. 13.
55
MccGwire, M. art. cit., p. 4.
17
quello di promuovere la formazione di un autorevole gruppo di negoziatori kosovari,
che avrebbero dovuto rappresentare “la gamma completa delle opinioni
politiche…compresi gli elementi estremisti”. Questo perché, spiegò Gelbard, “l’UÇK è
una realtà…e dovrà partecipare a qualsiasi cessazione delle ostilità o a qualsiasi
accordo”. Tuttavia, ammonì il rappresentante statunitense, “il disgusto per le azioni
delle forze di sicurezza serbe in Kosovo, non comporta che agli estremisti albanesi sarà
data carta bianca”
56
.
Il 30 luglio, Milosevic annunciò alla delegazione dell’Unione Europea, in visita a
Belgrado, che l’offensiva serba in Kosovo era finita. Il presidente yugoslavo, inoltre,
assicurò all’ambasciatore Hill che il proprio governo stava garantendo il libero accesso
nella provincia agli osservatori della KDOM
57
. Le affermazioni di Milosevic furono ben
presto confutate da alcuni documenti dell’ONU, secondo cui la situazione in Kosovo era
ulteriormente peggiorata. Tali rapporti evidenziavano, in modo particolare, che alla
KDOM non era consentito entrare nelle zone dei combattimenti e che le forze yugoslave
proseguivano nella loro offensiva, facendo spesso terra bruciata
58
. Le autorità di
Belgrado respinsero tali accuse, sostenendo che le proprie truppe avevano
semplicemente risposto agli attacchi terroristici dell’UÇK.
Nonostante le smentite yugoslave, la comunità internazionale aumentò le
pressioni, militari e diplomatiche, per giungere ad una soluzione negoziata della crisi.
Per quanto riguardava il fronte militare, il 12 agosto, la NATO annunciò di aver rivisto i
propri piani per l’esecuzione di operazioni congiunte, aeree e terrestri, in Kosovo,
inclusa “in particolare, un’ampia gamma di opzioni per l’uso della sola forza aerea”
59
.
Alcuni giorni dopo, l’Alleanza Atlantica condusse nuove esercitazioni militari in
Albania. Il 3 settembre, il segretario di Stato Albright reiterò la posizione
dell’amministrazione Clinton su un possibile intervento in Kosovo: “Dobbiamo
mantenere una minaccia credibile [dell’uso] della forza militare…[e] se la forza si
dimostrerà necessaria, le nazioni che acconsentono non devono esitare ad agire”
60
.
56
Excerpts from the Hearing on Kosovo by the House Committee on International Relations, July 23,
1998. In The Kosovo Conflict, cap. 3, n. 4.
57
Department of State Press Statement, July 31, 1998. Ivi, cap. 3, n. 5.
58
Vedi: Report of U.N. Secretary-General Annan to the Security Council, August 5, 1998; Statement by
the Spokesman for the U.N. Secretary-General Annan, August 11, 1998. Ivi, cap. 3, nn. 6-7.
59
Statement by NATO Secretary General Solana, August 12, 1998. In The Kosovo Conflict, cap. 3, n. 8.
60
Excerpts from Remarks by Secretary of State Albright, September 3, 1998. Ivi, cap. 3, n. 13.