notevoli vantaggi e opportunità, le difficoltà di pochi si sono trasformate in un problema
per tutti.
La crisi finanziaria ha coinvolto banche e mercati di tutto il mondo, occupando
pagine di giornali e servizi televisivi, e le ripercussioni economiche e sociali continuano
ad affiorare in angoli finora ritenuti immuni.
L’inaspettata velocità e la determinazione con cui si sono mossi i Governi ha
evitato il fallimento di importanti istituzioni finanziarie, che avrebbe potuto travolgere
milioni di risparmiatori. Le risorse in campo sono enormi, considerate nel loro
complesso hanno permesso al termine “trilione” di passare dal dizionario alla langue
vivante.
È lecito chiedersi perché non si sia lasciata al mercato la possibilità di esercitare il
suo compito di selezionatore. Ce lo spiega un noto economista italiano:
«Diversamente da qualsiasi altra azienda, quando fallisce una banca ci rimettono
non solo gli azionisti, i dipendenti e i manager, ma anche i clienti e le altre banche che
hanno prestato a quella banca. Si produce così un effetto di contagio al resto del
sistema finanziario, tanto più forte quanto più importante è la banca che fallisce».
2
(L. Bini Smaghi)
Il tragico fallimento della banca d’affari Lehman Brothers ci ha fornito l’esempio
e le misure adottate in seguito hanno definito una certezza: le banche più grandi non
vengono lasciate fallire. Secondo il proverbiale too big to fail, se il fallimento di una
singola banca rende probabile una crisi sistemica, questa banca deve essere salvata dallo
Stato, anche a costo di gravare sui contribuenti e di possibili distorsioni sui mercati.
Questo non deve però diventare un incentivo ad assumere rischi insostenibili o a
sbizzarrirsi in invenzioni finanziarie, con l’unico obiettivo della moltiplicazione dei
guadagni. L’attività finanziaria dovrà perciò essere valutabile e i rischi ponderati.
Questo richiede trasparenza, regole, controllo e maggiore responsabilità.
Si è compreso che se il sistema finanziario collassa le ripercussioni ricadono sulla
vita di tutti, perché il passo da quel mondo virtuale al mondo reale è pericolosamente
corto.
2
Bini Smaghi, Lorenzo (2008).
4
Ci si rivolge a un futuro in cui dovrà essere stabilito un corretto equilibrio tra
regole, controlli e libertà d’agire. La crescente collaborazione tra gli Stati e l’attività
svolta dagli organismi internazionali permettono di intravedere buone prospettive in tal
senso.
Obiettivo di questa tesi è definire i tratti fondamentali della crisi finanziaria,
comprendere come si è arrivati ad essa, cosa è successo e come è stata affrontata. Data
l’ampiezza dell’argomento, la quantità di aspetti da considerare e la mole di
informazioni collegate, si è dovuto necessariamente ricorrere ad una selezione.
Naturalmente in essa si rispecchia la sensibilità dello scrivente, il cui scopo è definire
l’essenziale, argomentandolo al meglio delle proprie possibilità.
Nel primo capitolo ci si propone, analizzando diversi autori, di individuare i
fattori, i soggetti e gli strumenti che, più di altri, possono aver favorito lo scoppio della
crisi. Alcune opinioni potrebbero apparire contrapposte, ma è comprensibile, dato che,
nella scienza economica, la varietà di teorie, anche tra loro in conflitto, legittima
opinioni contrastanti. Poi, come in ogni cosa della vita, la verità sta sempre nel mezzo.
Data l’attualità dell’argomento, per il secondo capitolo, dove si ripercorrono i
momenti salienti della crisi, si sono utilizzate come fonti principalmente le notizie
riportate dai quotidiani e dalle principali istituzioni economiche internazionali. La
volontà è quella di presentare i fatti con la maggiore obiettività possibile, utilizzando
anche i contributi di economisti, commentatori e osservatori di diverse posizioni.
Nell’ultimo capitolo si presentano le misure adottate dai Governi, dalle Banche
centrali e dal Fondo monetario internazionale per ridare fiducia al sistema bancario e
stabilizzare i mercati finanziari.
Le dinamiche presentate sono accompagnate da dati e rappresentazioni grafiche,
stante la consapevolezza che sarebbe un’illusione poterne sviscerare le infinite
sfaccettature.
5
6
I
ELEMENTI CRITICI
7
Situazioni di crisi sono fenomeni ricorrenti nell’evoluzione economica e da
decenni gli economisti ne studiano cause ed effetti, cercando di evitarle, o almeno di
prolungare il tempo tra una crisi e l’altra. I fatti confermano che le crisi fanno parte di
un più ampio fenomeno, conosciuto come «Ciclo economico» e che alla loro base c’è
sempre una «bolla», causata dallo spostamento dell’interesse, talvolta irrazionale, di
consumatori o investitori per un oggetto, o un’attività, che ne fa gonfiare a dismisura il
prezzo. Nel lungo periodo i prezzi tendono a riflettere la realtà e prima o poi la bolla
scoppia, con pesanti conseguenze.
Questa crisi finanziaria si configura come un processo a cascata, la cui sorgente si
trova nello scoppio della bolla immobiliare americana, tra il 2005 e il 2006. Il crollo dei
prezzi degli immobili, molti dei quali fungevano da ipoteca per i cosiddetti mutui
subprime, si è aggiunto alle difficoltà delle famiglie americane ad onorare i propri debiti
ed ha impedito alle stesse il rifinanziamento dei mutui accesi. Le conseguenze dei
numerosi casi di insolvenza verificatisi nel corso del 2007 sono state amplificate dal
crollo del valore delle attività, scambiate tra gli istituti finanziari, il cui valore deriva
proprio da questo tipo di mutui ad alto rischio. L’utilizzo di tali strumenti finanziari
derivati e del cosiddetto “effetto leva”, hanno dilatato le perdite a dismisura e le hanno
sparpagliante in un numero ancora indefinito di soggetti.
La crisi, nel 2008, ha travolto il globo come un’enorme inondazione, trascinando
con sé istituti di credito e investitori di ogni genere, dagli aggressivi speculatori ai più
miti partecipanti ai fondi pensione. Le ripercussioni di questa ondata si sono
concretizzate nel timore delle banche che le controparti potessero fallire da un momento
all’altro, innescando la crisi di fiducia che ha congelato i prestiti interbancari. Il tasso
del mercato interbancario, cui fanno riferimento la maggior parte dei mutui a tasso
variabile, è schizzato verso l’alto, mettendo in difficoltà milioni di famiglie. Le aziende
hanno sofferto di crescenti limitazioni nell’accesso al credito che si sono aggiunte ad
una già diminuita richiesta da parte dei consumatori.
Con la trasmissione della crisi all’economia reale il vortice negativo è sembrato
inarrestabile.
In questa prima parte si ricorre ad un’analisi macroeconomica degli ultimi anni,
alla ricerca dei fattori di lungo periodo e dei principali strumenti che hanno permesso, in
particolare negli Stati Uniti e nei Paesi nordeuropei, il configurarsi di questo scenario.
8
1.1. Fattori di lungo periodo: Liberalizzazione dei mercati e
criticità.
È diffusa l’opinione che le radici della crisi siano state poste dal trionfo della
liberalizzazione del sistema creditizio e finanziario internazionale, in cui si è cercato di
svincolare il più possibile i mercati da regole pubbliche.
La progressiva liberalizzazione, avviata negli Stati Uniti dopo il crollo del sistema
di Bretton Woods, nel 1971, si è evoluta, con più forza a partire dal 1980, con
l’amministrazione del presidente Reagan ed è continuata con le amministrazioni
successive. Ha avuto il sostegno in Gran Bretagna dell’allora primo ministro Margareth
Thacher e si è diffusa successivamente al resto dei Paesi occidentali, espandendosi pian
piano in tutto il mondo.
La liberalizzazione ha avuto nel sistema economico effetti positivi, quali la
possibilità di diversificare i rischi, l’aumento della produttività e la notevole crescita
produttiva. Grazie ai dati disponibili nel database del World Economic Outlook 2008 del
Fondo Monetario Internazionale (in seguito Fmi), si può osservare, nella Figura 1,
l’andamento del Prodotto Interno Lordo reale, misura della produzione aggregata a
prezzi costanti, degli Stati Uniti e dell’Area Euro
3
. Si può notare come, dal 1980 al
2008, la produzione sia costantemente aumentata.
Figura 1 – Crescita del Pil reale dal 1980 al 2008.
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Area Euro Usa
Fonte: elaborazione su dati FMI - World Economic Outlook Database, Ottobre 2008.
3
Anno base Usa = 2000; Austria, Cipro, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lussemburgo,
Malta (dal 2000), Olanda, Portogallo = 2000; Spagna, Slovenia (dal 1992) = 1995, Belgio = 2005, Irlanda
= 2006. Per semplicità si considera il cambio euro/dollaro 1:1.
9
La liberalizzazione ha però permesso l’introduzione di diversi fattori negativi che,
considerati nel loro complesso, aiutano a spiegare la recente crisi finanziaria: la scarsa o
inefficace regolamentazione dei mercati, la mancanza di un efficace sistema di
controllo, l’influenza delle lobby sulla politica americana, l’eccessivo accesso al debito,
il gonfiarsi di bolle speculative, la creazione di strumenti finanziari tanto innovativi
quanto complessi da gestire, rischiosi sistemi di incentivi agli operatori bancari,
l’eccessivo ricorso alla leva finanziaria e la possibilità di speculazioni in Borsa nocive
per il sistema economico nel suo complesso.
Cercare un unico colpevole sarebbe un errore e praticamente impossibile. È certo
però che anche nelle visioni liberiste è previsto che, per il suo corretto funzionamento, il
mercato sia regolato e vigilato dallo Stato:
«Un risultato secolare, solido e netto, del pensiero economico è che, il mercato, o
è “regolato” o non lo è. Se lo Stato pratica un laissez faire assoluto, il libero mercato
concorrenziale non dura a lungo, finisce con l’essere soffocato dalla naturale tendenza
monopolistica dei soggetti che vi operano. È una legge di natura, una sorta di
entropia».
4
Lo Stato, in particolare quello americano, nel suo ruolo di regolatore e vigilante,
non ha visto, o non ha voluto vedere, che nel mercato qualcosa non andava.
Dominique Strauss-Kahn, direttore generale del Fmi, in un intervento su Il Sole 24
Ore del 23 settembre, ha affermato che:
«la crisi è il risultato di un’incapacità da parte delle autorità di tutelare
l’economia da una eccessiva assunzione di rischi all’interno del sistema finanziario, in
particolare negli Stati Uniti».
Anche i sostenitori della globalizzazione, da Martin Wolf a Thomas Friedman,
sottolineano come l’apertura dei mercati ponga l’esigenza non dello Stato assente ma
dello Stato intelligente. L’economista Duncan K. Foley, nel libro Il peccato di Adam.
Una guida alla teologia economica, scrive che:
4
Rossi, Salvatore (2008).
10
«la visione smithiana del laissez-faire non consiste nell’incoraggiare
unilateralmente il mercato e l’impresa privata […], ma in una comprensione
equilibrata dell’interazione tra mercato e istituzioni dello Stato per consentire
l’avanzamento del circolo virtuoso dello sviluppo».
5
1.1.A. La scarsa regolamentazione.
La creazione di un mercato finanziario globale, favorita da liberalizzazione dei
mercati, innovazione finanziaria e informatica, non è stata accompagnata da un analogo
sviluppo dei sistemi di regolamentazione e controllo, ancora attribuiti ai singoli Stati. La
situazione di concorrenza tra i diversi Stati per attrarre capitali dai mercati internazionali
ha portato ad una corsa al ribasso riguardo al loro controllo.
Seguendo questa tendenza, il sistema americano di regole e controlli si è rivelato
insufficiente, attribuito a una molteplicità poco coordinata di agenzie ed eccessivamente
basato sull’autoregolamentazione del mercato.
I controlli sulle banche d’investimento e sugli istituti di credito ipotecario sono
stati limitati, durante l’amministrazione Clinton nel 1999, dal Gramm-Leach-Bliley Act,
la più grande riforma bancaria dagli anni ’30. L’atto, tra l’altro, contrariamente a quanto
stabilito dal precedente Glass Steagall Act dell’amministrazione del presidente
Roosevelt (1935–1945), ha permesso alle banche commerciali di fondersi con quelle di
investimento, avvantaggiandosi della stabilità del grande gruppo, e di spingersi oltre i
confini nazionali, diversificando il rischio grazie alla minor influenza regionale. Gli
economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, nel recente saggio La crisi – Può la
politica salvare il mondo? spiegano che le banche di investimento, perso il monopolio
della compravendita di titoli e la rendita delle commissioni fisse, alla ricerca di profitti
iniziarono a finanziare le aziende che sfruttavano internet, anche quando ancora non
facevano nessun utile, permettendo la nascita di fenomeni come Google e Yahoo!. Da
una parte quindi la deregolamentazione ha permesso a chi aveva buone idee ma
mancanza di fondi di avviare un’attività, dall’altra ha incentivato le banche ad investire
in attività più rischiose, ma più remunerative, e ad alimentare la bolla internet del 2001.
L’accesso alle attività di investimento ha permesso alle banche, sia americane che
europee, di affiancare con quote crescenti le più remunerative attività di trading alla
5
Citato da Carruba, Salvatore (2008).
11
tradizionale attività di credito. Gli utili netti sono lievitati, generando però instabilità e
frenando lo sviluppo dell’economia reale. I ricavi dei grandi istituti bancari provengono
oggi in parte dall’attività creditizia e, per buona parte, da commissioni, in particolare
sull’intermediazione in derivati e titoli strutturati.
In primo piano su questo modello di business c’è il ruolo giocato dal tipo di
incentivi retributivi di cui godono i diversi attori in campo. Nelle grandi banche di
investimento, in particolare, raggiunge massimi livelli l’utilizzo di bonus e dei sistemi
di stock option, che induce gli operatori ad esporre le banche a rischi sempre maggiori,
con la speranza di ottenere maggiori rendimenti.
Nella legge finanziaria dell’anno successivo, il 2000, è stato inserito un
emendamento, proposto dallo stesso senatore Phil Gramm: il Commodity Futures
Modernization Act. L’atto ha deregolamentato il trading dei derivati e, in particolare,
dei Credit default swap (in seguito Cds), le speciali “polizze” che gli investitori
utilizzano per assicurarsi contro l’insolvenza delle obbligazioni. I Cds, in pratica, da
quel momento non hanno più avuto alcun controllo. Nel 2002 si sono diffuse le Asset
backed securities (in seguito Abs), titoli garantiti da altri titoli, in particolare da
cartolarizzazioni di mutui, che permettono alle banche di vendere a fondi o a privati
attività immobili nel loro bilancio, e che, grazie alla riforma, non sono più controllati.
Facendo seguito all’ondata di deregulation, nel 2004 la Security and Exchange
Commission (in seguito Sec) ha concesso alle banche di investimento l’esenzione dai
limiti sui parametri patrimoniali, ossia relativi al rapporto tra debiti e capitale netto. Le
cinque grandi case di Wall Street (Lehman Brothers, Bear Stearns, Merrill Lynch,
Morgan Stanley e Goldman Sachs) hanno potuto quindi fissare da sé la misura delle
proprie riserve di capitale e di usare in modo molto più spinto la leva finanziaria e
aumentare il proprio debito. Questi colossi della finanza internazionale hanno emesso
una quantità crescente di titoli complessi, come i derivati garantiti dalle ipoteche, per
portare i loro profitti a livelli record.
Sull’autoregolamentazione delle banche d’investimento, dati gli enormi volumi di
indebitamento raggiunti, il presidente della Sec, Christopher Cox, dopo lo scoppio della
crisi, ha ammesso che è stato
«chiaramente dimostrato che la regolamentazione volontaria non funziona».
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Citato in Il Sole 24 Ore (2008a), p. 32.
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