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INTRODUZIONE.
Diaz-Alejandro nel 1985, a conclusione di un’analisi sulla crisi
cilena dei primi anni’80, intitolò un suo articolo così
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: “Goodbye
financial repression, hello financial crash” e Michel Camdessus,
direttore generale del Fondo monetario internazionale, 9 anni dopo,
definirà la crisi messicana “la prima crisi del ventunesimo secolo”. Ma
entrambi non avevano immaginato che le crisi da loro descritte fossero
soltanto delle “pallide” avvisaglie del terremoto finanziario che si
sarebbe scatenato durante l’estate del 1997 nel Sud-est asiatico
cominciato “ufficialmente” il 2 luglio con la decisione da parte della
Banca Centrale thailandese di lasciar fluttuare liberamente il baht e
propagatosi a tutte le valute dell’area e allo won coreano.
Questa crisi ha avuto effetti anche nel resto del mondo,
aggravando la recessione economica in Europa, provocando il
fallimento del LTCM
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nel 1998 e ha fatto nascere paure sulla tenuta
finanziaria (e non solo finanziaria) dei Paesi cosiddetti emergenti,
provocando indirettamente il crollo della Russia nel 1998 e la
svalutazione del real brasiliano durante la prima metà del 1999.
Ma andiamo con ordine. La crisi, come suscritto, scoppiò
ufficialmente il 2 luglio del 1997, quando il baht venne fatto lasciare
fluttuare liberamente e la valuta in un giorno si svalutò del 15-20%.
La svalutazione del baht ebbe effetti immediati sulle altre valute
1
Tratto da Corsetti, Roubini e Pesenti (1998a).
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dell’area, facendole crollare nel giro di pochi mesi. Il crollo colpì
anche il settore finanziario e bancario (questo perché l’indebitamento
di questo era denominato per la maggior parte in valuta), nel quale si
erano registrati fallimenti già nella prima metà del 1997, portandosi
via con sé il mercato immobiliare e azionario, nei quali le istituzioni
finanziarie asiatiche avevano investito gran parte dei loro fondi (il
resoconto della crisi verrà effettuato nel secondo capitolo). Gli effetti
della crisi si ebbero sull’economia reale nel 1998, la quale si contrasse
a livelli record.
La crisi colse un po’ tutti gli analisti di sorpresa; si credeva infatti
che la crescita del sud-est asiatico si sarebbe protratta ancora per
lungo tempo visti gli alti tassi di accumulazione di capitale fisico
[Rodrik (1996) e Fischer (1996)]. Inoltre l’ottimismo risiedeva nel
fatto che la regione sembrò immune dagli effetti della crisi messicana
del 1994.
La crisi fu ancor più sorprendente rispetto alla crescita ininterrotta
registrata negli anni precedenti, anche relativamente alla crescita avuta
dagli altri Paesi emergenti.
Per esempio in Malaysia, Indonesia e Thailandia il reddito medio è
cresciuto di quattro volte tra il 1965 e il 1995 e in Corea di sette volte.
Mentre in America latina soltanto di 0,8 volte. Tutto ciò portava a
pensare che la crescita dell’Asia fosse più solida rispetto, per esempio,
a quella messicana e dell’America latina in genere.
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Il Long Term Capital Management (LTCM) è un fondo di investimento, esattamente un hedge
fund, che crollò nel settembre del 1998.
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Nel primo capitolo si vedrà che il sud-est asiatico crebbe in modo
così rapido e duraturo grazie ad una serie di fattori concomitanti, i
quali possono essere così riassunti: livello iniziale elevato di capitale
umano, elevata intensità di risorse naturali, accesso al mare, elevati
tassi di risparmio pubblico, elevato grado di apertura dell’economia e
condizioni demografiche favorevoli [Radelet, Sachs e Lee (1997)].
Secondo la World Bank (1993) un altro fattore della crescita
asiatica risiedeva nell’intervento del governo nell’economia, che
permetteva una migliore allocazione delle risorse.
Al contrario Lincoln (1996) affermava che gli interventi
governativi erano indice di elevata corruzione, la quale era
conseguenza di improprie commistioni tra politica e affari e ciò non
faceva che aumentare una massa enorme di investimenti a carattere
prevalentemente speculativo (i quali, si scoprì successivamente, che
erano anche poco redditizi). Inoltre McKinnon e Pill (1996)
affermavano che l’elevato grado di apertura dell’economia, si
traduceva soprattutto in un elevatissimo indebitamento verso l’estero,
il quale sarebbe risultato prima o poi insostenibile, provocando una
crisi finanziaria.
Ma quei pochi analisti che insinuavano dubbi sulle future capacità
di crescita della regione non immaginavano certo che si sarebbe
scatenata una crisi di tale portata, al massimo credevano che la regione
sarebbe andata incontro ad un lenta recessione economica.
Chi credeva che sarebbe successo ciò era Krugman (1994), il quale
si basava sul fatto che l’efficienza degli investimenti era molto bassa e
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comunque, per la legge della produttività marginale decrescente, la
resa del capitale impiegato si sarebbe sempre ridotta.
L’unico forse che capì ciò cui la regione andava incontro fu Park
(1996), il quale arrivò a questa conclusione dal fatto che i deficit del
conto corrente erano coperti per la maggior parte da debiti verso
l’estero, soprattutto a breve termine, quindi maggiormente soggetto ad
un suo improvviso deflusso.
Su quale sia il modello teorico più “giusto” da applicare si è
scatenato un dibattito molto acceso tra gli economisti, anche perché a
modelli diversi risultano implicazioni differenti riguardo i modi di
intervento e, eventualmente, di prevenzione. In particolare esistono
due principali interpretazioni teoriche.
Secondo una di queste, sostenuta con maggior forza da Radelet e
Sachs (1998), la crisi fu causata dalla intrinseca instabilità del mercato
internazionale dei capitali, il quale è fortemente soggetto alle
cosiddette crisi autorealizzantisi (questa interpretazione verrà
analizzata in maniera approfondita nel capitolo 3).
La condizione necessaria affinchè si possa creare la possibilità di
una crisi, è lo stato di illiquidità del Paese debitore. Un Paese si
definisce illiquido nel momento in cui è in grado di pagare i propri
debiti nel lungo periodo, ma non la parte del debito e/o il suo servizio
nel breve periodo. In questo caso basterebbe che il Paese prendesse a
prestito la somma necessaria per rimborsare il debito nel breve
periodo. Ma il mercato potrebbe non essere in grado o essere riluttante
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a concedere nuovi prestiti, creando esso stesso il panico che voleva
evitare.
I motivi per i quali il mercato non concede prestiti possono essere
due: un problema di azione collettiva fra i creditori e l’asimmetria
informativa sempre fra questi.
Secondo il primo approccio ogni creditore non concede prestiti in
quanto si aspetta che anche gli altri facciano la stessa cosa.
In questo approccio ciò succede, in quanto i singoli creditori non
potrebbero fornire fondi sufficienti ad evitare la crisi, perché o sono
troppo piccoli, cioè non detengono abbastanza ricchezza per
fronteggiare il fabbisogno del Paese debitore [Radelet e Sachs (1998)],
o il premio per il rischio richiesto dal singolo creditore sarebbe così
alto da far rendere conveniente al Paese dichiarare default [Sachs
(1995)]. La conseguenza di tutto ciò è un ritiro in massa, da parte dei
creditori, dei capitali in precedenza forniti da questi.
Secondo l’approccio dell’asimmetria informativa, ciascun
creditore tiene maggiormente in considerazione le azioni degli altri
creditori – i quali si suppone abbiano dei segnali – rispetto alle
informazioni privatamente detenute. Di conseguenza si ha che dopo
un certo numero di azioni, tutti i creditori compiono la stessa azione
[Banerjee (1992)]. Da ciò si evince che, a differenza dell’approccio
precedente, si ha un ritiro sequenziale di fondi e non contemporaneo.
Secondo l’altra interpretazione teorica, la radice della crisi sta
nell’azzardo morale da parte sia degli operatori nazionali che esteri, i
quali si aspettavano che il governo intervenisse attraverso salvataggi a
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favore di imprese e banche in caso di crisi [Corsetti, Roubini e Pesenti
(1998a)]. Questa aspettativa causava un eccesso di investimenti
insieme ad una cattiva qualità di questi. Le eventuali perdite derivanti
da questi progetti di investimenti, venivano finanziate attraverso
l’indebitamento estero (sempre a causa dell’aspettativa di salvataggio)
e ciò causava persistenti deficit del conto corrente. Mentre non è
necessario che il deficit governativo sia alto prima della crisi,
l’eventuale rifiuto dei creditori esteri di fornire ulteriori fondi
costringe il governo ad intervenire per garantire il debito estero
contratto. Ma per garantire la solvibilità, il governo è costretto ad
utilizzare le riserve che servono per la difesa del tasso di cambio, con
il pericolo che queste crollino al di sotto del livello minimo
indispensabile per la difesa del cambio. Inoltre l’immissione di riserve
nel sistema crea aspettative inflazionistiche, rendendo ancor meno
credibile la difesa del tasso di cambio e anticipando una crisi
finanziaria (questa interpretazione verrà presentata nel capitolo 4).
Secondo altre interpretazioni alternative, che analizzeremo nel
capitolo 2, la crisi fu causata sia dai fondamentali in disordine, sia dal
panico degli investitori, mettendo l’accento sul fatto che con la
globalizzazione i capitali si spostano simultaneamente, facilitando il
contagio e aggravando la situazione, quindi “punendo”
eccessivamente le economie coinvolte [Greenspan (1998), Goldstein
(1998), Edison, Miller e Luangaram (1998)].
Altre spiegazioni puntano il dito sul comportamento giudicato
irrazionale degli investitori internazionali, i quali hanno concesso
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enormi prestiti basandosi su aspettative eccessivamente ottimistiche
[Stiglitz (1998)]. Nell’ambito di questa interpretazione verrà studiato
il ruolo degli hedge funds e dei contratti derivati nella crisi asiatica. Si
vedrà che il ruolo dei primi viene considerato marginale, mentre i
secondi contribuirono notevolmente all’instabilità dei mercati.
Secondo un’ulteriore interpretazione la causa della instabilità del
sud-est asiatico è la conquistata leadership del Giappone sull’area, il
quale esportò il proprio modello di sviluppo creando quelle debolezze
(processi decisionali non di mercato, eccessiva dipendenza dal
mercato dei esportabili, elevata corruzione e la sensazione di implicite
garanzie governative), che avrebbero portato in seguito alla crisi
[Wolf (1998)].
Nel capitolo 5 verrà analizzato il modello di Chang e Velasco
(1998a,b), il quale è un modello più generale costruito per le crisi nei
mercati emergenti e quindi applicabile anche alla crisi asiatica.
Secondo questo modello la condizione necessaria affinchè una
crisi possa accadere è la situazione di illiquidità in cui versano le
banche. Per cui il modello di Chang e Velasco è da inserire nel primo
filone di interpretazioni, secondo il quale la crisi è dovuta allo stato di
illiquidità del debitore.
In primo luogo si analizzerà il comportamento degli operatori
nazionali e il formarsi delle condizioni di illiquidità a causa delle quali
si crea la possibilità di una crisi all’interno del Paese. In seguito si
analizzeranno le implicazioni derivanti da alcuni fattori quali:
l’apertura agli afflussi di capitali provenienti dall’estero, la
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liberalizzazione del settore finanziario, il cambiamento delle
aspettative sul livello dei tassi di interesse, il prezzo delle attività
rigide dal lato dell’offerta, i sussidi agli investimenti e delle garanzie
governative, la politica di pegging sul tasso di cambio.
Nel sesto capitolo verrà analizzato il ruolo del Fondo monetario
internazionale nella crisi, in particolare i modi di intervento, le critiche
al suo operato e le risposte a queste da parte dei dirigenti del fondo. I
modi di intervento si possono così riassumere: prestiti abbondanti,
subordinati a precise politiche monetarie e fiscali, come strette
monetarie e politica fiscale restrittiva che serviva per coprire gli alti
costi di ristrutturazione del sistema finanziario.
Si vedrà che le critiche verranno suddivise in: critiche di carattere
procedurale (imposizione di condizioni ai Paesi asiatici non previste
dalle regole fissate dallo statuto del Fondo, segretezza dei suoi atti,
irresponsabilità di chi, all’interno del Fondo, predispone i piani di
salvataggio); critiche sulla validità degli interventi, i quali hanno
aumentato le disuguaglianze sociali, non hanno ridato fiducia ai
mercati, hanno aggravato la recessione economica; critiche sul ruolo
svolto come prestatore di ultima istanza, il quale di solito agisce
velocemente, creando base monetaria e salvando le istituzioni
illiquide, non quelle insolventi, mentre il Fondo avrebbe fatto tutto il
contrario. Secondo i critici ciò porta a conseguenze dannose e più
precisamente: il pericolo di azzardo morale da parte sia dei creditori
esteri, sia dei Paesi debitori; pericolo che la ristrutturazione del
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sistema finanziario venga ritardata e si mini la possibilità di soluzioni
all’interno del mercato.
I dirigenti del Fondo, al contrario, rispondono che l’unico modo
per ridare fiducia al mercato, passava attraverso la stabilizzazione dei
tassi di cambio che poteva essere ottenuta solo attraverso i modi di
intervento visti in precedenza. Inoltre le riforme strutturali del settore
finanziario erano necessarie perché erano alla radice della crisi
scatenatesi.
Inoltre il Fondo a chi lo accusa di aggravare i problemi di azzardo
morale sia nel comportamento dei creditori esteri e sia in quello dei
governi locali, risponde che anche con gli interventi del fondo i
creditori subirebbero grosse perdite e comunque i governi dei Paesi in
crisi non sopravviverebbero politicamente. Non solo, il Fondo aiuta il
mercato a trovare soluzioni al suo interno, quindi queste non vengono
escluse da un suo intervento.
Nelle conclusioni, infine, verranno messi a confronto i modelli
utilizzati si cercherà di individuare quello che, a nostro avviso, ha
interpretato e rappresentato nel migliore dei modi la crisi.
Il presente lavoro si svilupperà dunque come segue: nel capitolo 1
verrà in primo luogo analizzato il modello di sviluppo asiatico,
analizzando luci ed ombre di questo ed in particolare si approfondirà
l’analisi nel periodo che precedette immediatamente la crisi; nel
capitolo 2 si esporranno cronologicamente gli eventi principali della
crisi ed un resoconto del dibattito che si acceso sulle sue cause; nel
capitolo 3 si analizzerà l’approccio che individua la causa della crisi
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nell’instabilità del mercato internazionale del credito e vedremo che
questa può essere dovuta sia ad un problema di azione collettiva, sia di
asimmetria informativa; nel quarto capitolo 4 si analizzerà il modello
di Corsetti, Roubini e Pesenti (1998a), il quale individua nell’azzardo
morale degli operatori nazionali e internazionali la causa della crisi e
nello stesso capitolo si analizzerà brevemente l’integrazione di
Krugman (1998a) riguardo l’importante ruolo assunto dal mercato
delle attività rigide dal lato dell’offerta; nel capitolo 5 verrà
analizzato il modello di Chang e Velasco (1998a,b), il quale riporta
come molti fattori potrebbero portare ad una situazione di illiquidità
del sistema finanziario; nel capitolo 6 verrà analizzato brevemente il
ruolo del Fondo monetario internazionale durante la crisi, le critiche
poviute su di esso e le risposte a queste da parte dei suoi dirigenti;
infine nelle conclusioni, come detto in precedenza, verranno messi a
confronto i modelli utilizzati e si vedrà quale di questi è da noi
considerato quello che ha interpretato nel modo migliore la crisi.
Inoltre nella prima appendice verrà riportata, in maniera più
dettagliata, la successione cronologica degli eventi che
caratterizzarono la crisi per tutto il 1997 e nella seconda appendice
verrà riportata cronologicamente gli interventi del Fondo monetario
internazionale dal luglio 1997 fino all’agosto dell’anno successivo.
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CAPITOLO 1
UNO SGUARDO AL PERIODO CHE HA
PRECEDUTO LA CRISI.
1.1: LE BASI DELLA CRESCITA ASIATICA.
Secondo la maggior parte degli economisti, tra i quali Radelet e
Sachs (1998), la crisi dei Paesi dell’Est asiatico fu sorprendente
rispetto alla loro crescita ininterrotta registrata negli anni precedenti
3
.
In Malaysia, Indonesia e Thailandia il reddito medio è cresciuto di
quattro volte tra il 1965 e il 1995 e in Corea di sette volte.
L’aspettativa di vita, nell’area, è passata dai 57 anni nel 1970 ai 68
anni nel 1995 e il tasso di alfabetizzazione fra gli adulti è cresciuto dal
73% al 91% . Il tasso di povertà è diminuito dal 60% della
popolazione negli anni ’60 a sotto il 15% nel 1996.
Il modello di crescita dei Paesi dell’Est asiatico è stato oggetto di
molti studi, sia per i risultati da esso ottenuti, sia per vedere se questo
modello fosse esportabile ad altri Paesi in via di sviluppo.
Secondo Radelet, Sachs e Lee (1997) questa rapida crescita è
ascrivibile al gap esistente tra il livello del reddito pro-capite iniziale e
il suo livello potenziale nel lungo periodo: più grande è il suddetto
gap, più la crescita sarà rapida e prolungata, sia attraverso alti tassi di
3
Tra i pochi economisti che ritenevano possibile un brusco rallentamento della crescita fu
Krugman (1994). Addirittura c’era chi come Park (1996) riteneva altamente probabile una crisi
finanziaria ancor più devastante rispetto a quella messicana del 1994.
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accumulazione di capitale, che attraverso la diffusione di tecnologie
provenienti dai Paesi maggiormente avanzati.
Il livello potenziale del reddito nel lungo periodo dipende da
diversi fattori, quali: condizioni iniziali (livello iniziale di reddito pro-
capite e lo stock iniziale di capitale umano); risorse naturali e
geografia (intensità di risorse naturali, accesso al mare e la distanza
media dalle coste di tutti i punti del Paese); variabili politiche
(risparmio pubblico, qualità delle istituzioni e il grado di apertura
dell’economia); variabili demografiche (tasso di crescita della
popolazione totale e di quella in età lavorativa e livello iniziale
dell’aspettativa di vita alla nascita).
1. Condizioni iniziali. Nella tabella 1 si nota che il reddito
pro-capite nei Paesi asiatici nel 1965 era fra i più bassi in assoluto
e questo, insieme agli altri fattori che vedremo, giocò un ruolo
importante nella rapida crescita asiatica.
Dalla tabella 1 si può notare che il livello iniziale di capitale
umano
4
nei Paesi asiatici, soprattutto nelle cosiddette quattro tigri
(Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan), era pressochè
uguale o superiore rispetto al livello registrato nel resto del
mondo.
2. Risorse naturali e geografia. L’abbondanza di risorse
naturali è calcolata tramite il rapporto tra le esportazioni di prodotti
primari e il loro totale nel 1971. Sempre dalla tabella 1 si nota che
in special modo nei Paesi del sud-est asiatico (Indonesia, Filippine,
4
Il livello iniziale di capitale umano è dato dagli anni in media trascorsi nella scuola secondaria
dalla popolazione in età lavorativa.
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Malaysia e Thailandia), questo rapporto era molto superiore
rispetto a quello registrato nel resto del mondo.
L’accesso al mare è molto importante per avere un sentiero di
crescita rapida e duratura. Questo perché empiricamente si è visto
che i Paesi chiusi, sostengono maggiori costi di importazione e di
esportazione. Oltretutto sul trasporto delle merci gravano rischi
superiori (possibilità di incidenti, minor sicurezza delle strade e
delle ferrovie), di conseguenza il Paese sopporta costi di
assicurazione superiori. Questi problemi descritti non esistono per i
Paesi asiatici presi in considerazione, i quali hanno tutti accesso al
mare (tab.1).
La distanza media dalle coste di tutti i punti del Paese è
anch’esso un indicatore importante. Perché minore è la distanza
media, maggiore è il numero di persone che fa attività legate al
commercio internazionale. Questo fu il caso dei Paesi qui studiati
in quanto non solo hanno accesso al mare, ma, avendo una
superficie limitata, la distanza media dalle coste di tutti i punti del
Paese è bassa (tab.1).
3. Variabili politiche. La prima variabile politica che
consideriamo è il grado di apertura delle economie al commercio
internazionale. Questa variabile è molto importante, perché un
Paese aperto ha un più facile accesso alle nuove tecnologie ed a
mercati più grandi. Non solo, un Paese aperto tende ad avere
minori distorsioni, una migliore allocazione delle risorse e le
proprie aziende sono più abituate alla competizione e quindi sono
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maggiormente efficienti. Il grado di apertura di un’economia si può
misurare tramite quattro fattori: barriere tariffarie, estensione di
quote e licenze di importazione e l’importanza del mercato nero
nello scambio di valute. I Paesi qui studiati tra il 1965 e il 1990
furono tra i più aperti del mondo, in quanto le tariffe sui beni
importati, così come le tasse su quelli esportati, erano molto basse.
Non solo, i governi davano ampio accesso agli esportatori al
mercato mondiale dei fattori produttivi, anche grazie ad un politica
di stabilizzazione del tasso di cambio (non esisteva mercato nero
delle valute), e svilupparono politiche innovative quali la
predisposizione di zone in cui si trasformano beni per
l’esportazione e il rimborso dei dazi per le merci riesportate (tab.1).
Una seconda variabile politica molto importante è il tasso di
risparmio pubblico, definito come imposte meno le spese correnti
governative. L’importanza di questa variabile deriva dal fatto che:
più alto è il tasso di risparmio pubblico, maggiore è il tasso di
risparmio complessivo nazionale e, quindi, si hanno maggiori
disponibilità per finanziare gli investimenti; alti tassi di risparmio
pubblico inoltre, sono indicativi di politiche macroeconomiche
corrette, quali bassa inflazione, tassi di cambio stabili e una politica
monetaria ben guidata. Tutto questo diminuisce i rischi per gli
investitori e riduce il costo per gli investimenti a lungo termine.
Dalla tabella 1 si nota che i tassi di risparmio pubblico, sia nelle
quattro Tigri, sia nei Paesi del sud-est asiatico, erano già alti nel
1965 rispetto a quelli registrati nel resto del mondo (tab.1).