assetti politici, in particolare nell’Est europeo, e le conseguenti crisi
economiche, sociali e culturali.
A queste cause – che comunque non vanno intese in senso
rigidamente deterministico poiché le spinte migratorie sono anche il
prodotto della somma di istanze, strategie e progetti individuali – va
aggiunta la peculiarità della struttura economica europea, e di quella
italiana in particolare: la presenza di un doppio mercato del lavoro,
l’uno ufficiale e garantito, l’altro sotterraneo, mobile, non protetto e
retto dall’arbitrio assoluto, rappresenta un indubbio fattore di
attrazione per i migranti. In questo sistema gioca un ruolo importante
la manodopera immigrata, a basso costo, illegale, tenuta in condizioni
di perenne clandestinità.
Per ciò che riguarda l’Italia, già caratterizzata da una forte
emigrazione, solo negli ultimi decenni si è trasformata in un paese di
accoglienza, zona di transito e/o di arrivo per flussi migratori di
notevoli dimensioni.
Tale mutamento ha provocato non pochi problemi ed una situazione
anomala rispetto agli altri stati europei: mentre infatti si contano a
centinai di migliaia i connazionali emigrati in tutto il mondo ancora
nei primi decenni del secondo dopoguerra, continua a crescere nel
nostro paese la presenza di stranieri in cerca di lavoro.
La natura relativamente recente del fenomeno, ha fatto si che l’Italia
risulti rispetto alla maggior parte dei paesi sviluppati assai più carente
sul piano legislativo, delle politiche, delle strutture amministrative
della cultura necessari a governare una realtà così complessa, anche se
la nostra nazione ha potenzialmente il vantaggio di valutare
criticamente le esperienze compiute dai paesi di più lunga tradizione
immigratoria, utilizzando con le necessarie modifiche e le dovute
cautele soluzioni già sperimentate altrove.
Gli stati europei industrializzati, da tempo interessati al fenomeno,
hanno adottato in un primo momento una politica di utilizzo della
manodopera allogena vista come funzionale all’espansione industriale,
per irrigidirsi successivamente in un atteggiamento di chiusura, con il
blocco delle frontiere o il contingentamento dei nuovi ingressi o,
anche, ponendo in atto misure protezionistiche di varia natura.
I due modi di porsi rispetto al problema hanno comunque
rappresentato un fallimento per quanto riguarda la regolarizzazione ed
il controllo del fenomeno. Nel primo caso perché si è consentito di
impiegare, o meglio di sfruttare, i lavoratori secondo i bisogni e le
necessità dell’economia nazionale, accogliendoli o rinviandoli al
Paese d’origine sulla base dell’andamento del mercato del lavoro,
senza tenere conto delle conseguenze psico-sociali dell’immigrazione
sui singoli e sulle collettività interessate.
Non si è considerato che si trattava di persone che, una volta inserite
nelle attività economiche, integrandosi così nella società di
accoglimento, si sarebbero, in larga misura, costruite una famiglia e
una rete di rapporti amicali e sociali con la prospettiva di divenire essi
stessi o almeno i loro figli, cittadini a tutti gli effetti dello Stato
ospitante.
La seconda misura, di carattere ancor più illiberale e repressivo, ha
avuto come conseguenza immediata quella di alimentare soggiorni
illegali e ingressi clandestini; il risultato a medio termine, è stato
invece quello di creare nuove e più diffuse sacche di marginalità e di
povertà nel tessuto sociale.
Le politiche di chiusura hanno raggiunto solo in parte il loro obiettivo
e hanno avuto una serie di effetti secondari, che in una certa misura
hanno riguardato anche il nostro paese.
In primo luogo, esse hanno sì rappresentato un argine nei confronti del
nuovo flusso di immigrati dal Terzo mondo, ma non sono riuscite a
bloccarlo del tutto, con il risultato complessivo di un aumento
significativo dell’immigrazione clandestina.
In secondo luogo, queste politiche hanno avuto l’effetto di dirottare
parzialmente il flusso migratorio. Alla chiusura che caratterizzava altri
paesi europei corrispondeva una sostanziale apertura dell’Italia, o
meglio una mancata applicazione della legislazione restrittiva nel
nostro paese. I nuovi immigrati hanno trovato in Italia frontiere meno
chiuse che in Germania, Svizzera e Francia e ciò ha probabilmente
spinto alcuni di loro verso questa destinazione.
Come è ormai noto anche in Italia, non è sufficiente chiudere le
frontiere per arginare le correnti migratorie, né, dall’altra parte, si
vuole che gli ingressi diventino una variabile indipendente rispetto
alle caratteristiche socio-economiche del Paese. È auspicabile, però,
una politica di programmazione e, soprattutto, di cooperazione
internazionale mirata allo sviluppo dei Paesi del Sud del mondo.
In ogni caso, in attesa di ottenere risultati da politiche di intervento e
cooperazione per lo sviluppo dei Paesi del Terzo mondo, si deve fare
il possibile per gestire al meglio le immigrazioni in Europa e in
particolare in Italia.
Il nostro paese, se da un lato appare allineato con le altre nazioni
europee su una linea di securatization, che si esprime sia attraverso il
controllo dei nuovi ingressi sia attraverso l’enfatizzazione delle
esigenze di “ordine pubblico”, dall’altro ha lungamente ritardato
l’adozione di un quadro normativo organico che definisse modalità,
risorse ed esiti auspicabili del processo di integrazione dei migranti e
più in generale della convivenza interetnica: la nuova legge
n.40/1998
1
, costituisce il primo intervento legislativo orientato in tal
senso.
Con questa legge l’Italia è uscita da una lunga fase di gestione
sostanzialmente emergenziale del fenomeno migratorio. Il nuovo
quadro normativo trova il suo fondamento nelle seguenti tre idee
guida o obiettivi che debbono caratterizzare e qualificare la nuova
politica dell’immigrazione: una programmazione degli ingressi legali
nell’ambito delle quote stabilite annualmente; un più puntuale ed
efficace contrasto dell’immigrazione clandestina e dello sfruttamento
criminale dei flussi migratori; un maggiore e più concreto sostegno ai
percorsi di integrazione per gli immigrati regolarmente soggiornanti in
Italia. Si tratta di obiettivi fortemente connessi, poiché la possibilità di
realizzare efficaci politiche di integrazione dipende dalla capacità di
governare i flussi di ingresso e quindi di programmare la presenza
straniera nel nostro Paese. Naturalmente dovranno passare alcuni anni
per verificare quali effetti tale legge produce e quali modifiche
correttive essa richiede.
Negli anni più recenti, antecedenti alla legge n.40/98, sul piano
istituzionale e legislativo la preoccupazione dominante è stata quella
del contenimento, del controllo, delle espulsioni, mentre sono passati
del tutto in secondo piano i temi dell’accoglienza, dell’integrazione e
dei diritti degli stranieri.
In particolare i mezzi di comunicazione hanno contribuito in maniera
determinante ad alimentare nell’opinione pubblica rifiuto ed ostilità
nei confronti degli immigrati contribuendo così a coltivare la
sindrome dell’invasione e la tendenza a fare dell’immigrazione una
questione d’ordine pubblico, se non addirittura ad assimilarla alla
questione criminale.
1
Disciplina sull’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.
Negli ultimi anni, anche nel nostro Paese, gli immigrati suscitano
diffidenza, preoccupazioni e paure tra la popolazione autoctona. Si
teme che sottraggano risorse agli italiani, entrino in concorrenza con
loro per la casa e il lavoro, mettano in crisi lo stato sociale, minaccino
lo stato di vita della popolazione, producano un aumento della
criminalità.
Il presente lavoro si occuperà principalmente di quest’ultima
preoccupazione degli autoctoni, ovvero del fenomeno della devianza
tra gli stranieri con un’attenzione particolare alla condizione del
minore straniero.
Non vi è dubbio, infatti, che un fertile terreno di “coltura” dove
reclutare lavoratori in modo irregolare o manovalanza per il crimine è
quello da essi costituito.
Quello della devianza degli immigrati è un tema affrontato solo
recentemente nel nostro Paese da personaggi pubblici, istituti di
ricerca e studiosi.
In una pubblicazione del 1994 l’ISTAT ha osservato che vi è stato in
Italia un “inserimento progressivo di stranieri nell’area criminale”
sostenendo che una “considerevole quota di immigrati provenienti per
lo più dai paesi extracomunitari, non trovando quelle opportunità di
inserimento sperate, ha finito per costituire un serbatoio inesauribile
per l’arruolamento di manovalanza criminale a basso costo”
2
. A
distanza di quattro anni, l’ISTAT è ritornata su questo problema,
attribuendo l’elevata presenza straniera nell’area criminale “a fattori
connessi alle particolari disagiate condizioni economiche… alle
situazioni di clandestinità, ai conflitti culturali, all’assenza di legami
familiari”
3
.
2
ISTAT, La criminalità attraverso le statistiche, Roma, 19994, p.14.
3
ISTAT, La presenza straniera in Italia. Anni 1991-95, Roma, 1998, p. 104.
Gli immigrati, quindi, costituiscono un’area molto estesa di povertà,
non soltanto per le difficoltà di integrazione nel contesto italiano, ma
soprattutto per la posizione di irregolarità in cui si spesso si trovano,
priva di garanzie giuridiche che li esclude dall’accesso ai servizi
sociali, assistenziali, previdenziali, ecc.
L’adeguamento dell’Italia alle politiche di stop già adottate da altri
paesi europei, le difficoltà di immigrazione legale hanno favorito la
nascita di organizzazioni criminali specializzate nell’immigrazione
clandestina, nel lavoro nero, nel mercato degli alloggi e dei permessi
di soggiorno. I nuovi mercanti di schiavi si servono talvolta di piccola
manovalanza costituita da immigrati, ultimo anello di una catena di
sfruttamento del quale vittime sono gli immigrati stessi. Costretti ad
indebitarsi per somme considerevoli, alcuni di coloro che sono entrati
tramite canali clandestini diventano ostaggio nelle mani dei loro
creditori che talvolta li inducono alla prostituzione, nel caso delle
donne, o a piccole attività criminali.
A tutto ciò va aggiunta l’immagine corrente che l’opinione pubblica
ha dell’immigrato come emarginato e pericoloso, che ne determina le
difficoltà di inserimento lavorativo, di reperimento di alloggi decenti e
di conduzione di una vita decorosa: da tutto ciò può derivare una reale
emarginazione.
È necessario, quindi, a parere di chi scrive, valutare, attraverso i dati
statistici disponibili, quanto sia effettivo e reale il pericolo sociale
costituito dagli stranieri e quanto, invece, sia frutto dell’emarginazione
in cui sono costretti a vivere e “dell’etichetta” negativa a loro
attribuita. In particolare nel primo capitolo verrà considerato il
rapporto tra immigrazione straniera e criminalità in Italia in
riferimento agli adulti. Verrà analizzato in quale misura il fenomeno
immigrazione straniera ha inciso sull’aumento della criminalità nel
nostro Paese, quali tipi di reati commettono maggiormente gli
stranieri, ponendo a confronto le caratteristiche della criminalità
straniera con quella italiana. Verranno poi prese in considerazione
quali differenze vi sono sul piano della giustizia penale tra italiani e
stranieri imputati di reato. Infine verranno riprese tre teorie
sociologiche che cercano di spiegare quali sono le cause della
devianza tra gli stranieri.
La scelta di introdurre il presente lavoro con un’attenzione particolare
agli adulti stranieri deriva dal fatto che sono essi e in particolare gli
uomini che hanno caratterizzato il fenomeno dell’immigrazione sin
dall’inizio. Fino a pochi anni fa, infatti, gli stranieri che arrivavano nel
nostro paese erano quasi esclusivamente uomini soli che lasciavano le
loro famiglie nei paesi di origine.
Il fenomeno dei ricongiungimenti familiari, che ha visto l’arrivo in
Italia di donne e bambini, sembra svilupparsi in questi ultimi anni.
Nonostante ciò, sono già molti i problemi incontrati dai minori
stranieri in Italia: in particolare quello della devianza assume una
posizione rilevante.
Fenomeno complesso e di difficile analisi, la devianza minorile
suscita grande attenzione, non solo in sede scientifica e tecnica, ma
anche da parte dell’opinione pubblica. Ciò è testimonianza sia di
interesse sia di preoccupazione per i rischi e i pericoli a cui sono
esposti i minori nella nostra società. Questo sembra valere per i minori
italiani, ma non per quelli stranieri; infatti la gravità della condizione
dei minori sembra essere sottovalutata, eppure questi sono i soggetti
potenzialmente più a rischio. Per questo motivo ho deciso di
occuparmi di questa tematica, perché credo che sia necessaria una
maggiore attenzione al fenomeno della devianza dei minori stranieri.
I rischi psicologici e fisici connessi all’emigrazione riguardano meno
l’adulto, che dovrebbe essere fisicamente e psicologicamente più
solido, mentre toccano soprattutto il minore.
Venendo in Italia, il minore è sradicato dal contesto di relazioni
umane e dai modelli sociali del suo Paese. Egli perde
progressivamente la sua cultura e, in particolare, non sente più quel
sistema di controlli e di regole che la cultura d’origine comunque
rappresentava e nel contempo non recepisce ancora come proprie le
leggi e la cultura del paese di accoglienza, né ha capacità di integrarle.
In sostanza il minore straniero viene a trovarsi in una situazione di
anomia, al di fuori dei sistemi di tutela e di sicurezza sia collettivi sia
familiari.
Contemporaneamente a tutto ciò, il minore entra a far parte in Italia
dello strato sociale ed economico più basso, ma ha di fronte a sé dei
modelli di consumismo che esercitano su di lui una forte attrazione.
La mancanza di stimoli familiari, la povertà nel vocabolario della
lingua del paese di arrivo, l’impiego del tempo libero nei lavori di
sussistenza utili alla famiglia, la precarietà della situazione abitativa,
costituiscono le precondizioni delle manifestazioni di disadattamento
se non di devianza.
La questione della criminalità dei minori stranieri non può essere
affrontata a mio parere esclusivamente sotto l’aspetto penale; è bene
prima chiarire quali sono i diritti riconosciuti al minore straniero in
Italia, per poter poi verificare a livello di trattamento giudiziario in che
modo tali diritti vengono realmente applicati. Una particolare
attenzione a questa tematica sarà dedicata nel capitolo secondo.
Non vi è dubbio che la questione degli immigrati stranieri in Italia sia
stata posta politicamente, soprattutto negli ultimi anni, come un
problema più di ordine pubblico che economico; sentita dall’opinione
pubblica più sotto il profilo dell’allarme sociale che dell’accoglienza.
È nella modalità di presentazione da parte stampa e dei partiti politici
del fenomeno dell’immigrazione, che i bambini e gli adolescenti
stranieri in Italia hanno avuto un ruolo rilevante, basti pensare ai
numerosi servizi giornalistici sui minori spacciatori, sui bambini
accattoni e borseggiatori. Si può anzi dire che, nel caso dei bambini
stranieri, sullo stereotipo del bambino, come personaggio buono,
positivo, da proteggere e aiutare, ha prevalso quello dello straniero,
personaggio da cui diffidare, clandestino, violento, spesso
delinquente.
Questa premessa è necessaria per meglio comprendere alcuni aspetti
della criminalità fra i minori stranieri e del trattamento giudiziario a
loro riservato; in particolare, sarà il terzo capitolo ad occuparsi di
questi due aspetti.
Il quarto capitolo, invece, andrà ad analizzare attraverso i dati statistici
disponibili quali soluzioni, tra i vari servizi dell’area penale, vengono
più frequentemente adottate nei confronti dei minori stranieri imputati
di reato. Inoltre verranno prese in considerazione quali difficoltà e
limiti gli operatori sociali incontrano nella relazione con il minore
straniero. Quest’ultimo aspetto verrà ripreso nel quinto capitolo,
attraverso l’impiego di interviste che verranno rivolte direttamente
agli operatori sociali che operano a stretto contatto con i minori
stranieri. Si potranno così raccogliere informazioni direttamente
vissute e opinioni di chi attraverso l’esperienza conosce in maniera più
approfondita le problematiche e i bisogni più diffusi fra i minori
stranieri.
Il capitolo quarto comprenderà anche l’analisi delle iniziative pensate
in Italia per favorire l’integrazione del minore straniero, e per
prevenire i fenomeni di devianza.
L’indagine ha lo scopo di appurare, attraverso lo studio delle
statistiche disponibili, la reale dimensione delle manifestazioni
devianti commesse da immigrati, di descriverne le caratteristiche
qualitative, di accertare i risultati del controllo sociale realizzato nei
loro confronti. Si tratta di definire, nei limiti del possibile, se i
comportamenti antisociali degli stranieri, e in particolare dei minori,
incidano sulla pacifica convivenza nel nostro Paese, o non siano
piuttosto la inevitabile conseguenza di una inadeguata politica sociale
e di una carente solidarietà da parte degli autoctoni.
Gli studiosi che si sono occupati del fenomeno della devianza degli
stranieri concordano sul fatto che sia un errore cercare di occultare il
fenomeno della devianza degli immigrati, nel timore che il parlarne
finisca col favorire la diffusione del pregiudizio negativo;
personalmente concordo con questa posizione, poiché credo che sia la
non conoscenza a suscitare paure e allarmismi molte volte
ingiustificati.
Tuttavia le conclusioni a cui questi studiosi sono giunti si collocano su
posizioni contrapposte. Alcuni pensano che gli immigrati siano oggi
nel nostro Paese coinvolti più spesso in episodi di criminalità dei
cittadini italiani.
Altri sostengono una tesi opposta e considerano il numero degli
stranieri denunciati, condannati o incarcerati, come un indicatore non
tanto delle attività illecite che svolgono, quanto piuttosto delle
discriminazioni che subiscono da parte della Magistratura, delle forze
dell’ordine e dell’opinione pubblica.
Il presente lavoro ha l’obiettivo di verificare quale delle due posizioni
sopra indicate trovi un corrispettivo nella realtà. In altre parole, lo
straniero è un deviante e perciò pericoloso per la società italiana o è
l’atteggiamento di diffidenza di una parte della popolazione che,
proponendone un’immagine negativa, concorre ad emarginarlo e a
determinarne i comportamenti devianti? E, ancora, il sovraffollamento
nelle carceri italiani da parte di stranieri, adulti e minori, è indice del
fatto che essi sono più inclini ad attività criminali degli italiani, oppure
vi sono ragioni diverse?
L’intento di tale indagine è quello di trovare delle risposte a tali
domande.
CAPITOLO I
IMMIGRAZIONE STRANIERA E
CRIMINALITA’ IN ITALIA
1.1 IMMIGRAZIONE IN ITALIA DAL 1950 AD OGGI:
UN QUADRO GENERALE
Per mettere a fuoco la specificità dell’immigrazione straniera in
Italia, sarà opportuno inquadrarla nell’ambito delle migrazioni
internazionali avvenute nell’Europa di questo dopoguerra.
Umberto Melotti
1
da tempo si è occupato di questa problematica e ha
proposto una suddivisione del fenomeno migratorio in tre fasi
nettamente distinte.
La prima di queste fasi che va dal 1950 al 1967, corrisponde al
periodo della ricostruzione e dell’espansione economica e strutturale.
L’Italia durante questo periodo si caratterizza esclusivamente come
Paese d’emigrazione, sia verso l’esterno sia all’interno del Paese, con
flussi migratori per lo più dal sud verso il nord.
In questa prima fase le migrazioni internazionali nei Paesi dell’Europa
centrosettentrionale e le migrazioni interne italiane presentano una
caratteristica comune: entrambe sono motivate dalla forte domanda di
lavoro delle aree a maggior sviluppo industriale e presentano un
elevato tasso di attività.
Inoltre, durante questa fase il lavoro degli immigrati riveste un ruolo
fondamentale, nel senso che rappresenta un elemento di cui la
struttura economica non può fare a meno.
La differenza principale tra l’Italia e gli altri Paesi dell’Europa
centrosettentrionale sta nel fatto che mentre le migrazioni interne
italiane (dal sud verso il nord) tendono a diventare presto definitive, le
1
U. MELOTTI, Specificità e tendenze dell’immigrazione straniera in Italia, in Per una società
multiculturale, M.I. MACIOTI (a cura di), ed. Liguori, Napoli , 1991.
migrazioni internazionali nei Paesi dell’Europa centrosettentrionale
conservano a lungo il carattere della temporaneità.
Una seconda fase, compresa tra il 1967 e il 1980, viene definita “della
crisi strutturale e della nuova divisione internazionale del lavoro”
2
.
In questo periodo, in tutti i paesi del Nord Europa tradizionalmente
importatori di manodopera, le migrazioni internazionali subiscono il
contraccolpo della crisi economica, inoltre a partire dal 1973-74 tali
migrazioni vengono apertamente contrastate dalle così dette “politiche
degli stop”.
Durante questa fase si assiste a una progressiva trasformazione dei
paesi del Sud Europa che, da esportatori di manodopera diventano
mèta di flussi migratori provenienti soprattutto dai paesi extraeuropei.
Sin dal 1973 l’Italia cessa di essere uno dei maggiori paesi di forte
emigrazione e diviene paese di immigrazione. Melotti ricorda che in
Italia giungono in questo periodo soprattutto esuli, profughi politici di
origine extraeuropea. Nel corso degli anni ’70 e all’inizio degli anni
’80, in Italia, quattro furono i più importanti processi migratori: un
flusso di tunisini si indirizzò verso la Sicilia, dove trovarono lavoro
nel settore della pesca o in agricoltura come braccianti avventizi. Per
fare le domestiche presso le famiglie delle grandi città, arrivano le
prime donne immigrate: filippine ed eritree, capoverdiane e srilankesi,
somale e latino-americane. Dall’allora Jugoslavia si riversarono nel
Friuli gruppi di manovali che vennero occupati nei cantieri edili. Per
tutti l’inserimento economico avvenne, nel migliore dei casi, nel basso
terziario. L’Italia infatti fino al 1989 riconosce come rifugiati politici
soltanto coloro che provengono dall’ambito europeo. Quindi i
profughi politici “di fatto”- vale a dire arrivati in Italia per motivi
politici, ma senza la possibilità di un riconoscimento della qualifica di
2
Ibidem,pp.71.
rifugiato, data la provenienza extracomunitaria- si vengono a trovare
in una situazione di indubbio svantaggio non potendo usufruire delle
forme di aiuto garantite ai profughi di provenienza europea che
coprono il vitto, l’alloggio, l’assistenza sanitaria, etc.
Infine con l’inizio degli anni ’80 si apre la terza fase che possiamo
definire “della crisi globale dei Paesi sottosviluppati e della ripresa
delle economie capitalistiche”
3
che è tuttora in corso.
In questo periodo le migrazioni sono sempre meno motivate dalla
domanda di manodopera nei paesi di approdo, e dipendono in maniera
quasi esclusiva dalla forza espulsiva dei paesi di esodo.
I Paesi dell’Europa centrosettentrionale, che fino agli anni ’80
rappresentavano le aree d’inserimento privilegiate, chiudono le
frontiere, restano aperti soltanto i Paesi dell’Europa mediterranea, ma
più per la loro incapacità di far rispettare le norme restrittive anche in
essi vigenti che per un’effettiva scelta in tal senso.
Da tutto ciò dipendono, secondo Melotti, gli arrivi in Italia dai paesi
del Terzo Mondo nei paesi dell’Europa mediterranea.
Numerosi sono anche gli arrivi dall’Europa orientale, colpiti da crisi
economiche profonde. Arrivano dalla ex-Jugoslavia, già presente fra i
principali Paesi d’emigrazione sino agli anni ’50, dalla Bulgaria, dalla
Romania e dalla stessa Unione Sovietica.
L’immigrazione tende anche da noi a configurarsi ormai come realtà
consolidata e non reversibile, affiancando quindi il nostro paese agli
altri paesi occidentali sviluppati.
Si tratta di un’immigrazione indotta da fattori di espulsione “Push
factors”
4
, e di natura politica e economico-sociale, ovvero sospinto da
3
ibidem, pp.72.
4
CASACCHIA O., DIANA P. e STRAZZA S, La distribuzione di alcune collettività straniere
immigrate in Italia: caratteristiche determinanti, in BRUSA C. (a cura di) , Immigrazione e
multicultura nell’Italia di oggi. La cittadinanza e l’esclusione, la “frontiera adriatica” e gli altri
luoghi dell’immigrazione, la società e la scuola, Franco Angeli, Volume II, 1999, pp.75.
mere ragioni di sopravvivenza, più che non da fattori d’attrazione dei
paesi di arrivo “Pull factors”
5
, come un mercato del lavoro in
espansione. Il paradosso dei flussi d’immigrazione elevati in presenza
di altrettanti elevati tassi di disoccupazione in vaste arre dell’Italia, in
realtà è soltanto apparente e si giustifica con la disponibilità di molti
immigrati a svolgere mansioni e ad accettare condizioni di lavoro
rifiutate dagli italiani (perché disagevoli, poco remunerate o precarie).
In questa fase le migrazioni internazionali cominciano ad assumere
quindi la forma di una “fuga verso la sopravvivenza”
6
.
Questo fondamentale bisogno di sopravvivenza fa di questi immigrati
delle facili prede per anomale forme di sfruttamento; e nel peggiore
dei casi , della manovalanza per attività di tipo illecito.
Tale stato di cose alimenta fra la popolazione dei Paesi di approdo un
atteggiamento d’insofferenza e di ostilità verso gli immigrati, che in
realtà altro non sono che vittime, costretti ad immigrare non per libera
scelta, ma perché costretti dall’esigenza, comune a tutti gli uomini del
mondo, di soddisfare “semplici” bisogni primari (mezzi di sussistenza,
scampo alla fame, alla miseria, alla guerra…), sono queste necessità
che spingono giovani di tanti paesi a cercare un futuro lontano dalla
terra in cui sono nati, cresciuti, e dove hanno vissuto con le loro
famiglie.
5
ibidem, pp.75.
6
CENSIS,1979, p.132.