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Introduzione
Nella mia tesi vorrei esaminare diverse letture femministe di Freud facendo riferimento in
particolar modo a Judith Butler e Simone de Beauvoir. Vorrei incentrare la mia trattazione su
temi riguardanti l’orientamento sessuale e il rapporto sesso/genere che stanno alla base di
diversi dibattiti filosofici affrontati nel corso della storia e che si ricollegano alla dicotomia
natura/cultura che fa riferimento alla contrapposizione tra la cieca necessità e il meccanismo
(determinismo) e il ruolo della libera scelta e della costruzione (costruttivismo). In
«Comprendere la differenza: verso una pedagogia dell’identità sessuale», Batini afferma che
l’identità sessuale di ciascun soggetto è costituita da quattro componenti: sesso, identità di
genere, ruoli di genere e orientamento sessuale. Mi è sembrato interessante notare come queste
componenti si intreccino a volte, ma allo stesso tempo si distanzino tra loro. Mantenendo saldo
il filo conduttore della costruttività del genere fornito dal pensiero di Butler vorrei mettere in
luce alcune contraddizioni freudiane inerenti al tema dell’identità sessuale. Vorrei articolare la
mia trattazione in tre capitoli che poi a loro volta suddividerò in paragrafi.
In un primo capitolo, dopo aver chiarito l’importanza della dicotomia natura/cultura e
aver trattato le componenti dell’identità sessuale, introducendo dapprima la nozione
tradizionale di genere, sarei portata a sostenere la prospettiva di Judith Butler che in numerosi
testi ma soprattutto in «Fare e disfare il genere» confuta Freud affermando che il suo punto di
vista psicoanalitico era soltanto uno strumento politico per perpetuare un paradigma
eterosessuale ed eteronormativo. Butler, infatti, sostiene che bisogna sganciare il complesso di
Edipo dalla tesi dell'eterosessualità primaria. Vorrei, quindi, incentrare la mia tesi sul punto di
vista di Judith Butler che va oltre il binarismo di genere e la prospettiva eterosessista che
afferma che l'eterosessualità sia l'unico orientamento naturale. Ella, infatti, critica Freud nel
momento in cui egli afferma che la lesbica deriverebbe il suo comportamento da un complesso
non esplicato bene o non superato totalmente e da un modello maschile percepito come norma.
L’obiettivo principale è quello di criticare gli assunti psicoanalitici del processo edipico e della
complementarietà dei generi maschile e femminile che condannano ogni forma di unione non
eterosessuale. Anche in «Questione di genere: il femminismo e la sovversione dell’identità»,
Judith Butler afferma che non è necessario possedere un organo maschile o femminile per
performare la mascolinità o la femminilità poiché se il sesso biologico è qualcosa di innato che
non possiamo scegliere, il genere, invece, è una costruzione che deriva da una libera scelta e
non sempre coincide con il proprio sesso biologico poichè il genere svincolato dal sesso si
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incentra sulla coscienza e sulla percezione che ogni soggetto ha di sé come uomo o come donna.
Il genere, quindi, non è mai fisso ma è sempre in continuo divenire; è un fare e un prodursi
sempre nuovo e in questo è anche racchiusa la nozione di fluidità di genere. A questo proposito,
vorrei addentrarmi nel dibattito che vede contrapposte la tesi della costruzione sociale cioè
quella della psicoanalisi freudiana secondo cui l’orientamento sessuale deriverebbe
dall’educazione, dalla cultura e da fattori esterni o psicosociali e la tesi di Butler che invece non
limita la normalità e la naturalezza del proprio orientamento, come invece sembra fare Freud
quando descrive le aberrazioni sessuali in «Sessualità e vita amorosa» dove sono raccolti i suoi
famosi tre saggi sulla sessualità (1905). Butler, quindi, non parla di inversioni o deviazioni e
non fa riferimento a traumi o complessi ma in parte a una predisposizione biologica e a delle
inclinazioni che determinano la naturale “normalità” dell’essere “diversi”. Ella, infatti, esplora
le innumerevoli possibilità della propria auto-espressione e le libera dalle maglie oppressive e
normalizzatrici del ruolo sociale o della pseudo normalità biologica. Tutto ciò che si allontana
dall’eteronormatività non è anormale o patologico come invece affermava Freud. Per Butler, la
dualità sessuale, il binarismo di genere, l’eterosessualità e tutte le nozioni di normalità
codificate dalla cultura dominante sarebbero, dunque, costruiti da fattori esterni e
principalmente da un femminismo “tossico” che nel corso del tempo ha solamente fortificato e
rinforzato l’idea che esistono un sistema binario e dei ruoli di genere propri di uno o di un altro
sesso. Quello che comunemente viene definito normale o naturale in realtà non esiste se non
come frutto di un processo perpetuato da tradizione e convenzioni sociali. Ma ciò che realmente
preoccupa Butler, nei suoi testi, non è l’amore eterosessuale o l’eterosessualità come pratica
erotica o sentimentale bensì la normatività eterosessuale ed è proprio quest’ultima che
costituisce il fulcro principale della sua critica.
In secondo luogo, vorrei esaminare il pensiero femminista di Simone de Beauvoir che
nella sua opera più famosa «Il secondo sesso» libera la figura della donna tradizionale che la
vede relegata al focolare domestico e utile soltanto alla procreazione e alla perpetuazione della
specie. Prima di esaminare i vari punti focali del pensiero di Simone de Beauvoir bisogna, però,
descrivere e mostrare il filo conduttore da cui era partito Freud nei suoi scritti. In particolar
modo negli «Scritti sulla sessualità femminile» Freud ci dice che ci sono tre fasi della sessualità
nel bambino (orale, anale e genitale) e in seguito al complesso di Edipo subentra la fase di
latenza. Per Freud, la bambina prova un’invidia per il pene poiché risente del complesso di
virilità e di un forte senso di inferiorità nei confronti del bambino che può giocare con il suo
organo esterno che si ritrova fin dalla nascita. Nel momento in cui la bambina non riesce a
superare il complesso, Freud sostiene che ella, non riuscendo ad accettare questa mancanza,
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non diventerebbe una vera e propria donna ma provando ancora invidia per il pene e nutrendo
sentimenti di ostilità nei confronti del padre, si identificherebbe in lui diventando di fatto una
donna omosessuale e quindi per Freud una donna non autentica. Questa riflessione freudiana,
però, rimane per alcune correnti del femminismo lesbico un pensiero maschilista e obsoleto che
pretende di dimostrare, a partire dagli organi sessuali maschili e femminili, che esiste una
gerarchia e che la donna per essere considerata tale deve abbandonare il piacere clitorideo e
lasciarsi andare all’orgasmo vaginale: solo così essa potrà diventare una vera donna. È chiaro
che la riflessione freudiana non ha termine qui poiché si spinge, come già accennato
precedentemente, ad affermare l’esistenza di un orgasmo vaginale privo di basi scientifiche e
finalizzato semplicemente alla perpetuazione di una parentela eterosessuale. Quest’opinione è,
però, stata confutata da filosofe del femminismo lesbico come Anne Koedt che afferma che
l’orgasmo clitorideo è stato nascosto e occultato poiché l’esistenza unica di un piacere clitorideo
minaccerebbe l’istituzione eterosessuale e tutti gli schemi già definiti e volti alla procreazione.
L’orgasmo vaginale sarebbe, dunque, soltanto un mito maschilista inventato nel 1905 da Freud
e sostenuto in parte da coloro che temono che gli uomini possano diventare o sentirsi inutili al
raggiungimento dell’orgasmo femminile. Avendo chiarito questi punti del pensiero freudiano e
volendo ritornare alla riflessione su Simone de Beauvoir, è comunque senza dubbio vero che
ella è stata in grado di superare lo stereotipo della donna come “femmina” e come “ovaia”
poiché aveva confutato il pregiudizio culturale retrogrado e maschilista, fornito da Aristotele e
da Hegel ma soprattutto da Freud, che vedeva la donna nella sua funzione passiva e l’uomo
invece in quella attiva. Ella, infatti, aveva affermato che donne non si nasce ma lo si diventa ed
è proprio in questa celebre e famosa frase che è racchiuso il suo pensiero che libera le donne
dal cosiddetto “secondo” sesso e dalla sottospecie destinata alla mera riproduzione sessuale. In
questa celebre frase si potrebbe notare anche un grande parallelismo con Butler nel momento
in cui entrambe concordano con l’opinione che la condizione passiva della donna è stata
imposta dalla società e dalla cultura del pensiero dominante. Dopo aver trattato del ruolo della
donna in generale, anche Simone de Beauvoir, come Freud e Judith Butler, dedica alla figura
della lesbica un capitolo all’interno della sua opera principale. È chiaro che è semplice notare
un contrasto tra la concezione di donna omosessuale che descrive Simone de Beauvoir e
l’opinione che ha Judith Butler quando, descrivendo la figura della lesbica, supera lo stereotipo
della lesbica mascolina o della lesbica femminile. È limitante e anche riduttivo pensare che in
una coppia costituita da due donne siano proprio le donne stesse a tentare di riprodurre una
coppia bisessuata in cui viene a crearsi una commedia sociale dove una interpreta l’uomo e
l’altra fa la donna. Sicuramente per Butler, in certi aspetti, il pensiero di Simone de Beauvoir
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rimane un po’ troppo ancorato a una concezione freudiana della lesbica. Se da una parte, infatti,
afferma che la lesbica non è una donna mancata, dall’altra afferma che ella paventa la
penetrazione e sente sempre la mancanza di un organo virile tanto che è costretta a deflorare la
sua “amica” con la mano o con un pene artificiale. L’interpretazione butleriana della lesbica,
per certi versi, è differente da quella di Simone de Beauvoir rimasta forse ancora un po’ troppo
attaccata alla concezione della lesbica come vuoto e mancanza. Inoltre, in certi aspetti possiamo
notare anche delle contraddizioni all’interno del suo stesso pensiero. Nel momento in cui ella
afferma che ci sia un certo parallelismo tra la figura della madre e quella della lesbica, e che
nell’amore tra donne non ci sia né lotta né vittoria, sembra cadere in una contraddizione poiché
ancora una volta l’amore tra due donne è visto semplicemente nella veste di un amore paritario
in cui due entità passive che si incontrano aboliscono il distacco tra il pieno e il vuoto.
Dopo aver trattato il pensiero di Butler, in contrapposizione a quello freudiano, e le teorie
femministe di Simone de Beauvoir, mettendo in luce pregi e difetti, vorrei concludere la mia
trattazione con un ultimo capitolo in cui ribadisco l’importanza che ha per Butler l’abbandono
della tesi dell’eterosessualità primaria e soprattutto dell’eterosessismo. Mi sembra interessante
notare come nel testo di Butler «Parole che provocano» l’autrice, riagganciandosi ai suoi testi
principali sulla performatività del genere, voglia sottolineare che l’eteronormatività oltre a
essere un’imposizione forzata sia qualcosa che discrimina e taglia fuori tutte le altre realtà che
si discostano o si allontanano da questa. È quindi il caso di citare i soggetti queer o tutte quelle
categorie che vengono discriminate solo perché non rientrano nella frequenza statistica e
dunque nella grande categoria della maggioranza. Omosessuali, bisessuali, transessuali,
pansessuali, intersessuali, etc… verrebbero quindi sviliti e sminuiti da un pensiero dominante
che colloca in due insiemi distinti e separati i “normali” e i “diversi”. Il termine «omosessuale»,
ad esempio, finisce per descrivere una categoria di persone a cui viene attribuita un’etichetta
sociale dall’esterno. Sono gli altri a definire e non si è mai liberi di definirsi, ci dice Butler. A
questo proposito, mi sembra anche inerente chiamare in causa il pensiero di altre filosofe
femministe come Adriana Cavarero e Luce Irigaray che contestano l’idea maschilista radicata
nel tempo e nella storia secondo cui la donna sarebbe il vuoto e la polarità passiva e l’uomo
invece il pieno e l’attività. Ancora una volta quest’idea, nata fin dall’età antica con Aristotele,
e rafforzata in tempi moderni dall’avvento e dalla nascita della psicoanalisi, si dimostra il frutto
di una prospettiva eterocentrica e di un fallogocentrismo estremo che si erge sul piedistallo
edificante della tesi dell’eterosessualità primaria. Bisogna, dunque, spostare il fulcro
dell’attenzione da questa prospettiva poiché non esiste ciò che quotidianamente chiamiamo o
consideriamo normale. La normalità è un concetto relativo e la norma è soltanto il frutto di una
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determinata cultura e di una determinata società. È anche da questo assunto che dobbiamo
ricavare la tesi di Butler secondo cui il paradigma eterosessuale è qualcosa di costruito. Anche
nel testo di Adriana Cavarero sulle filosofie femministe vengono raccolti diversi saggi
significativi in cui si afferma la tesi che ciò che è dominante non è sinonimo di giusto o corretto.
La psicoanalisi sarebbe, quindi, la trascrizione di un fallogocentrismo che pone l’orientamento
eterosessuale non come un’opzione bensì come un assoluto e, dunque, rischia di farci cadere
nell’imposizione di un’eterosessualità forzata. Quest’ultima, che come abbiamo visto è sempre
chiamata in causa in primo luogo da Butler, rischierebbe di modificare anche il concetto di
«famiglia», basato sulla nozione di parentela eterosessuale, ed escluderebbe in modo
discriminatorio tutte quelle realtà familiari che si discostano da questo modello portante. Mi è
sembrato interessante, a tal proposito, il punto di vista di Butler circa la nozione di famiglia che
ci fornisce, ancora una volta, nella sua opera «Fare e disfare il genere». L’autrice ci dice che i
rapporti di parentela eccedono i confini tra comunità e famiglia e non sono solamente i legami
di sangue a creare una famiglia ma esistono diverse modalità di associazione personale che
definiscono la famiglia come formazione sociale. Sarebbe molto riduttivo e limitante concepire
una famiglia come un’unione di più soggetti in cui prevale un ordine binario, non naturale e
non necessario, che determina la nozione di paternità o maternità. Possedere un pene non è
sinonimo di paternità così come avere una vagina non vuol dire essere madri. Il concetto di
genitorialità va oltre questi meri schemi riduttivi e non è contraddistinto dagli organi sessuali
che possediamo. A causa di questa concezione, data dalla differenza sessuale, si rischierebbe di
ricadere in un binarismo di genere intriso di stereotipi di genere. Una famiglia “naturale” o
“normale”, come spesso sentiamo dire nell’opinione o nell’immaginario comune, non esiste se
non come invenzione costruita al fine di conservare la specie. Possiamo anche nominare la
nozione di famiglia “naturale” ma non dobbiamo cadere nel pregiudizio che vede la famiglia
come l’unione tra uomo e donna. Anche Alexander Schuster che tratta la questione della
genitorialità da un punto di vista giuridico e sociale ci dice, nella sua opera «Omogenitorialità:
filiazione, orientamento sessuale e diritto», che vivere la propria sessualità liberamente non
significa essere corpi destinati al concepimento. Inoltre, ci dice anche che bisogna concepire la
genitorialità come genitorialità sociale liquidando il mero vincolo genetico tra genitore e prole.
Ciò che permette la crescita ottimale dei figli non sarebbe il genere del genitore, il suo
orientamento sessuale o il suo sesso ma la qualità delle relazioni all’interno della famiglia e
soprattutto egli ci dice che è l’amore che crea una famiglia. Riportando l’articolo 29 della
Costituzione italiana egli ribadisce che la famiglia è naturale in quanto aggregazione affettivo-
solidale di due persone al di là della mera distinzione biologica del sesso dei due partner.
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Bisogna, quindi, superare le vecchie determinazioni secondo cui la nozione di famiglia si
basava sulla diversità di sesso dei genitori.
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1. LA COSTRUZIONE E LA DECOSTRUZIONE DEL GENERE
NELL’INTERPRETAZIONE COSTRUTTIVISTA DI JUDITH BUTLER
1.1 Brevi cenni circa la dicotomia natura/cultura nel dibattito filosofico
Quello del binomio natura/cultura è sicuramente un dibattito molto interessante e suggestivo
ma che, allo stesso tempo, riguarda uno spettro molto ampio e vasto di questioni, dal momento
che esso può abbracciare diversi temi e problemi. Questa dicotomia, infatti, può riferirsi a
diversi campi e aspetti non soltanto filosofici ma anche sociali, antropologici, politici,
psicologici e quindi inerenti e comuni a tutte le scienze umane. È possibile pensare ai dati
naturali o culturali come a due elementi che fanno parte di due insiemi distinti e separati, e
quindi concepire i due concetti come opposti e antitetici, oppure si può pensare di intenderli
come due elementi che si reciprocano e come due facce della stessa medaglia. È difficile
stabilire quando si può parlare unicamente di natura o di cultura e quando, invece, questi due
elementi possono essere correlati. Quando ci si domanda se qualcosa sia naturale e innata o se,
invece, sia frutto di una determinata cultura si sta indagando circa l’origine di quella
determinata cosa.
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La domanda che, spesso, ci si pone è se qualcosa sia esclusivamente naturale
e, quindi, derivante da fattori biologici e innati oppure esclusivamente culturale e, quindi,
derivante da fattori esterni psicosociali e costruiti dall’essere umano. Ovviamente, non
necessariamente natura e cultura devono escludersi a vicenda. Infatti, se da un lato è vero che
possediamo delle predisposizioni innate e genetiche e delle inclinazioni naturali, da un’altra
parte è anche vero che risentiamo continuamente dell’influenza della società e dei costrutti che
apprendiamo nel tempo. Prima di addentrarci nella questione e nel dibattito, è importante
conoscere il significato di questo binomio che sarà fondamentale quando ci addentreremo nel
rapporto sesso/genere e nella prospettiva costruttivista di Judith Butler. Dunque, quando
parliamo di questa dicotomia dobbiamo sapere che «si tratta di una dicotomia che rinvia alla
contrapposizione fra il mondo della cieca necessità e del meccanismo e il mondo della libera
scelta e della costruzione»
2
. In questi termini, possiamo parlare di determinismo e di
costruttivismo. Avendo chiarito a cosa si fa riferimento quando si discute di natura e cultura
sembra, adesso, interessante fare un passo avanti e porsi il problema su come iniziare a
1
http://www.treccani.it/enciclopedia/natura-e-cultura_Enciclopedia-delle-scienze-sociali/
2
Cfr. Manlio Iofrida, Forma e materia. Saggio sullo storicismo antimetafisico di Jacques Derrida, Pisa: ETS,
1988, p. 135.
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concepire questo binomio da un punto di vista strettamente filosofico. Esso, infatti, può essere
considerato come inscindibile oppure come contraddittorio.
A questo proposito, Claude Lévi-Strauss, teorico dello strutturalismo, in molte sue opere
ma soprattutto nell’opera «Le strutture elementari della parentela», si è interessato del binomio
natura/cultura e facendo riferimento in particolar modo all’esempio del tabù dell’incesto ha
sviluppato il suo pensiero intorno a una natura che non si distanziava così tanto dal dato
culturale; piuttosto proibire l’incesto rappresentava il momento dell’articolazione fra il naturale
e il culturale. Egli ci dice che non bisogna sottovalutare l’importanza di questo binomio e non
si può affermare che la cultura sia semplicemente contrapposta alla vita biologica o alla natura.
Le radici biologiche e quelle sociali possono essere entrambe parti integranti del soggetto.
Nell’opera precedentemente menzionata, egli afferma che:
se la proibizione dell’incesto ha le sue radici nella natura, tuttavia noi possiamo coglierla
solamente al suo punto terminale, e cioè come regola sociale. Da un gruppo all’altro questa
regola ci si manifesta con un’estrema varietà, così per quel che riguarda le sue forme, come
per ciò che concerne i campi di applicazione. Molto ristretta nella nostra società, essa
sottilizza sui gradi di parentela più remoti in certe tribù nord-americane. È superfluo
aggiungere che in quest’ultimo caso essa colpisce non tanto la consanguineità reale (che
spesso è impossibile a stabilirsi, se non è addirittura inesistente), quanto, invece, il
fenomeno puramente sociale per il quale due individui senza effettiva parentela si trovano
collocati nella medesima classe dei “fratelli” o delle “sorelle”, dei “genitori” o dei “figli”.
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Con questo esempio, il filosofo ci spiega come il tabù dell’incesto sia presente nella natura ma,
allo stesso tempo, sia anche un costrutto culturale. Proibire l’endogamia avrebbe come risultato
l’incoraggiamento dell’esogamia e, quindi, egli ci mostra il passaggio da uno stato di natura a
una società culturale che non ripudia completamente il dato del biologico. Anche nel momento
in cui egli descrive le società calde e quelle fredde ci dice che non ha luogo tracciare una netta
separazione o distinzione tra società primitive incorrotte e, dunque esclusivamente naturali, e
società civili ed evolute e, quindi, esclusivamente appartenenti al mondo del progresso
culturale. Per Lévi-Strauss i due domini, quindi, non sarebbero totalmente separati.
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Del resto
è semplice anche pensare che la natura non può sussistere unicamente senza l’ausilio della
cultura.
A tal proposito, il pensiero di Lévi-Strauss sembra derivare in parte dal pensiero di
Rousseau e per questo, spesso, si è soliti denotare un certo rousseauismo nel pensiero di Strauss,
se quest’ultimo viene letto in chiave derridiana. Anche Rousseau, infatti, per Derrida si atteggia
3
Cfr. Claude Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, a cura di Cirese, Milano: Feltrinelli, 1967, p.
71.
4
Cfr. Manlio Iofrida, Forma e materia, Pisa: ETS, 1988, pp. 136-137.