7 
Inoltre, a fronte di mutate condizioni di mercato o di prospettive tecnologiche non 
attentamente valutate, può essere più semplice ritirarsi da una coalizione piuttosto che 
disinvestire dallo sviluppo interno (Porter, 1986). 
Tutti questi fattori fanno della cooperazione non l’unica ma sicuramente la più interessante 
delle opzioni per l’acquisizione delle risorse necessarie nello scenario competitivo, visti i 
chiari vantaggi che ne derivano. 
Ovviamente vi sono anche dei rischi che caratterizzano gli accordi, rendendoli spesso un 
insuccesso: comportamenti opportunistici, obiettivi divergenti, incapacità di evidenziare in 
modo chiaro la strategia da seguire, incompatibilità delle culture aziendali e conseguente 
incapacità di collaborazione proficua, asimmetria tra partners che porta a situazioni di 
dominanza di un’impresa su di un’altra. 
Il numero di accordi siglati negli ultimi anni è crescente, mettendo in luce un sempre 
maggiore utilizzo di tale opzione, specialmente nei settori ad alta tecnologia. 
L’industria chimica spende più di ogni altra in R&S (nel 97 circa il 18% dei suoi quasi 300 
bilioni di dollari di introiti delle vendite); nonostante la cifra aumenti di anno in anno, il 
flusso di nuovi prodotti diminuisce e soltanto con una solida base di R&S si rendono 
possibili delle innovazioni: questa è una delle ragioni per cui le imprese chimiche sono sotto 
pressione dal punto di vista finanziario. 
La risposta può essere un cambiamento significativo nel modo di operare delle imprese, 
mediante un allargamento dei propri obiettivi e delle proprie frontiere grazie ad una rete di 
accordi (il network) di natura tecnologica 
 8 
CAPITOLO PRIMO 
 
LA COOPERAZIONE NELLA RICERCA E SVILUPPO 
 
 
1.1 Premessa 
 
L'attività di Ricerca e Sviluppo (R&S) può essere svolta internamente all’impresa, ma 
questa non costituisce evidentemente l'unica ed esclusiva modalità di gestione adottabile: 
all'opposto un impresa potrebbe acquisire dall'esterno brevetti, know-how e licenze. 
A prima vista la scelta fra le due alternative si presenta come un tipico problema di “make 
or buy”; uno studio più attento però rivela che l'analisi della convenienza comparata delle 
due alternative non può esaurirsi in un calcolo strettamente economico-quantitativo. 
In effetti, la volontà di perseguire una strategia di sviluppo della R&S all'interno 
dell'impresa è correlata con la capacità di creare ed implementare una cultura 
dell'innovazione, i cui costi e i cui benefici non si esauriscono tramite una semplice 
imputazione al singolo prodotto o progetto. Difatti si assiste oggi ad una pluralità di 
fenomeni che, pur non essendo del tutto nuovi, colpiscono per l'intensità e l'ampiezza con 
cui si manifestano: 
1. l'internazionalizzazione delle operazioni di R&S, a prescindere dal fatto che l'attività si 
svolga del tutto in proprio o congiuntamente ad altri partners; 
2. lo sviluppo di diversificate forme di cooperazione tra imprese, a volte persino 
concorrenti, o tra imprese ed istituzioni pubbliche, università, centri di ricerca. 
 
 
1.2 L’internazionalizzazione delle attività di R&S 
 
Per quanto attiene al primo fenomeno, dalla letteratura e dalla prassi pare desumersi che la 
spinta verso l'internazionalizzazione della R&S sia comune alle principali realtà industriali. 
E' bene chiedersi quali siano le ragioni di tale fenomeno. 
 9 
Terpstra (1977) elenca tre categorie di possibili cause: 
1. la possibilità di accedere a forza lavoro specializzata meno costosa; 
2. l'opportunità di allargare il mercato ai potenziali acquirenti; 
3. l'accesso a migliori fonti di sviluppo tecnologico. 
In sostanza l'internazionalizzazione avverrebbe in virtù dei differenziali di costo e della 
disponibilità di manodopera. Se poi una impresa vuole effettivamente essere 
“multinazionale” non basta che adatti i prodotti o le altre leve di marketing-mix ai singoli 
mercati domestici in cui è presente, ma occorre che sia anche fisicamente vicina ed inserita 
nel tessuto economico-sociale dei suoi utenti e clienti; ciò implica la presenza di laboratori 
di R&S nei paesi che sono o potrebbero essere i mercati più appetibili. Peraltro è noto come 
l’internazionalizzazione costituisca una strategia di estensione del ciclo di vita del prodotto: 
nei casi in cui il prodotto nel mercato interno sia giunto in una fase di maturità o di declino, 
il lancio in altri paesi può costituire un sistema di rivitalizzazione. Deve constatarsi infine 
come la diffusione della conoscenza tecnologica, malgrado la stampa specializzata ed altre 
forme di comunicazione, sia ancora oggi limitata negli ambienti originari di ricerca; appare 
perciò logico istituire “laboratori” direttamente laddove lo sviluppo tecnologico di interesse 
per l'impresa ha più possibilità di realizzarsi. 
Alcuni studiosi (in particolare De Meyer, 1989) ritengono tuttavia che le tre causali citate 
non spieghino completamente l'attuale processo di internazionalizzazione della funzione 
R&S; in particolare esse non sarebbero tali da superare gli evidenti problemi di 
comunicazione che rendono più difficoltoso il coordinamento, arginano la velocità dello 
sviluppo e riducono la produttività dei processi di internazionalizzazione. De Meyer 
propone una spiegazione alternativa al problema che si incentrata sul concetto di 
apprendimento. La capacità di apprendere è la caratteristica in cui meglio riposa la 
rispondenza di un'impresa all'ambiente e costituirebbe l'elemento essenziale per una 
trasformazione delle imprese da multinazionali a “transnazionali”. L'apprendimento non è 
limitato all'internazionalizzazione e l'internazionalizzazione non è la “conditio sine qua non” 
per l'apprendimento. Ma l'apprendimento tra differenti mercati, differenti metodi di 
risoluzione dei problemi, differenti culture e la rapida diffusione di questo apprendimento 
nell'organizzazione è sensibilmente incrementato creando un network internazionale di 
laboratori di R&S. In altri termini, la funzione R&S deve apprendere per l'impresa, 
permettere all'impresa di conseguire strategie transnazionali nel futuro ed un efficace 
 10 
apprendimento esige che la R&S si internazionalizzi. L'apprendimento è il legame che 
connette la strategia delle imprese e l'internazionalizzazione della R&S. Si pone dunque il 
problema di trovare adeguati strumenti gestionali atti a favorire la comunicazione tra i 
diversi centri di R&S. Tali strumenti possono essere categorizzati come segue: 
1. modalità di edificazione di una cultura comune: allo scopo, assai utili si rivelano 
programmi formativi comuni, assegnazioni temporanee dei ricercatori a laboratori all'estero, 
viaggi e visite costanti; 
2. modalità fondate su regole e procedure: importanti in tal senso sono i processi di 
pianificazione e di reporting; 
3. meccanismi di coordinamento: in molte aziende che hanno internazionalizzato la 
funzione di R&S si rileva la presenza di uno staff centrale il cui esplicito compito è quello 
di coordinare le attività di R&S e di stimolare la comunicazione; 
4. meccanismi informativi: i costanti sviluppi nelle tecnologie per l'informazione sono 
infatti in grado di ridurre il modo considerevole i problemi comunicazionali tra i diversi poli 
di R&S di una azienda. Tra i supporti elettronici utilizzabili vanno annoverati le reti di 
computer, la posta elettronica e la video conferenza. 
Indagini empiriche effettuate (De Meyer, 1990) sembrano tuttavia dimostrare che nessuna 
delle modalità comunicazionali brevemente descritte è da sola sufficiente ad assicurare 
l'efficacia del processo di R&S in un contesto internazionalizzato. Infatti occorre che le 
imprese utilizzino tutte le modalità in parola, mirando alla costituzione di un vero e proprio 
network internazionale per la R&S. In questo senso il compito della progettazione 
organizzativa è realmente critico. 
 
 
1.3 Le modalità cooperative nella gestione delle attività di R&S 
 
Veniamo ora al secondo ordine di fenomeni cui abbiamo accennato prima, ovvero lo 
sviluppo di forme cooperative tra imprese nel campo della R&S. L'argomento evoca 
naturalmente la più ampia e complessa problematica delle relazioni cooperative tra aziende, 
relazioni non necessariamente limitate alla funzione R&S. 
 11 
Tali relazioni vanno sotto il nome, tanto generale quanto ambiguo, di “accordi”. Il primo 
problema che si incontra quando si iniziano a studiare gli accordi di cooperazione tra 
imprese risiede nel fatto che la stessa identificazione dell'oggetto dello studio è difficile. 
Innanzitutto esistono diversi termini, considerati sinonimi da alcuni ma non da altri, che 
vengono adottati per parlare di quelli che qui chiamiamo accordi di cooperazione tra 
imprese: accordi di cooperazione o di collaborazione, alleanze, iniziative comuni ecc. 
Quando poi si supera questa prima difficoltà adottando convenzionalmente un termine 
sufficientemente generale per caratterizzare fenomeno, si apre il problema della 
delimitazione del problema che si prende in considerazione. 
Alcuni autori hanno infatti adottato un'ottica restrittiva perché interessati a caratterizzare 
solo tipi di accordi di cooperazione tra imprese che si imponevano all'attenzione 
principalmente per la loro novità nel contesto delle relazioni tra industrie. Per esempio 
David C. Mowery, che dedica la sua attenzione all'industria dell'aviazione civile (Mowery, 
1987), si occupa solo delle joint-ventures, cioè di quegli accordi tra imprese finalizzati allo 
sviluppo di un prodotto che prevedono significativi livelli di cooperazione nella ricerca, 
nella progettazione, nella produzione e nella commercializzazione, con contributi 
apprezzabili da parte di ciascun partner e rischi distribuiti tra di loro - escludendo così 
accordi di licenza, investimenti diretti, trasferimenti di tecnologia e iniziative comuni 
limitate alla ricerca. 
David Teece invece trascura le joint-ventures per concentrare l'attenzione su quegli accordi 
di cooperazione tra imprese che determinano una coalizione tra i partners (“coalition 
arrangements”), in cui essi condividono i servizi relativi alle loro specifiche attività nella 
realizzazione di un prodotto comune (Teece, 1986). Tali scelte, che hanno naturalmente il 
vantaggio di prendere in considerazione fenomenologie più omogenee e di rendere quindi 
più agevole la loro caratterizzazione, rendono però pressoché impossibile una 
categorizzazione unitaria degli accordi di cooperazione tra imprese imponendo una gamma 
di subdefinizioni che richiedono ciascuna una analisi ad hoc. 
Una definizione ampia degli accordi di cooperazione tra imprese d'altra parte finisce per 
comprendere per esempio anche forme di relazione tra imprese, come la partecipazione 
azionaria o gli accordi di licenza, che sono fenomeni sempre verificatisi tra le imprese e non 
hanno quindi, da soli, alcun carattere di novità. 
 12 
Essa richiede dunque una maggiore cautela nella analisi per riconoscere i caratteri di novità 
degli accordi di cooperazione tra imprese distinguendoli da fenomeni che si verificano da 
tempo con una certa frequenza. 
Si tratta insomma di identificare il fenomeno degli accordi di cooperazione tra imprese in 
senso generale, delineando i caratteri innovativi e comuni che essi hanno, pur avendo 
ciascuno di essi forme sue proprie che lo distinguono all'interno della classe. 
Per questo il seguente lavoro aderisce a una definizione largamente generale e astratta, come 
quella della FOR (Future in the Organisation of Resources - centro di ricerca industriale 
fondato dalla Montedison nel 1984): 
“Gli accordi di cooperazione tra imprese sono accordi formali o informali tra due o più 
imprese, che producono un certo grado di collaborazione tra di loro e riguardano 
partecipazioni azionarie o la creazione di nuove imprese o infine accordi non azionari” 
(FOR 1986), o quella più articolata di Cainarca, Colombo e Mariotti: 
“Per accordo di cooperazione (tra imprese) si intende...una relazione di lungo termine fra 
imprese, concernente una o più aree di attività, in termini di linee di prodotto, di aree di 
mercato, di funzioni aziendali, in base alla quale esse disciplinano ex ante le proprie 
condotte future, attraverso meccanismi contrattuali formalizzati oppure in modo informale” 
(Cainarca, Colombo, Mariotti). 
Esse paiono essere preferibili a quella di Balcet e Viesti: 
“Gli accordi sono una gamma di intese, formalizzate contrattualmente o informali, in base 
alle quali due o più imprese convengono di stabilire fra di loro delle relazioni di una certa 
durata temporale e che implicano per  ognuna di esse una serie di obblighi di 
comportamento (per esempio accordi commerciali e di subfornitura, cessione di tecnologia 
attraverso licenze e trasferimento di know-how, creazione di gruppi comuni di produzione e 
ricerca, joint-ventures). Gli accordi sono inoltre caratterizzati da due parametri: grado di 
coordinamento (legato all'intensità con cui i partners sono vincolati da norme specifiche) e 
grado di dominanza (legato alla presenza o meno di rapporti asimmetrici tra i contraenti)...” 
(Balcet e Viesti, 1986), che pur essendo per molti versi più ricca ed analitica, si espone al 
rischio, dal nostro punto di vista, di prefissare attributi di significatività (il grado di 
coordinamento e quello di dominanza) non fondati logicamente. 
Così gli accordi possono esser affrontati nella tradizione delle relazioni inter-organizzative 
come nuovi modelli di economia industriale spiegabili alla luce della “Institutional 
 13 
Economy” e del programma “Mercati-Gerarchie”. Non è possibile in questa sede dar conto 
delle posizioni delle diverse "scuole" se non nella misura in cui esse siano rilevanti per lo 
specifico studio degli accordi nella R&S. 
 
1.4 Gli accordi: una prima classificazione 
 
Ai nostri fini basterà dunque mettere in luce come gli accordi possano essere variamente 
classificati:   
a) secondo il soggetto: a tale proposito è naturale supporre che gli accordi abbiano luogo 
normalmente tra attori che risultano complementari, quali i fornitori (accordi a monte) od i 
distributori (accordi a valle), ma negli ultimi tempi si assiste ad una crescente diffusione di 
modalità cooperative con concorrenti;   
b) secondo la modalità giuridico-formale dell'accordo: si avranno così accordi che 
implicano una partecipazione di capitale (equity) o che non la implicano (non-equity), o che 
addirittura non trovano alcun fondamento in un rapporto giuridico sottostante (accordi 
informali o networks sociali);   
c) secondo lo stadio della catena del valore che diviene oggetto di cooperazione: gli accordi 
possono riguardare le funzioni di produzione (ad esempio subcontracting) o di distribuzione 
(ad esempio franchising) o per l'appunto di R&S, od una intera area strategica di affari 
(tramite la costituzione di joint-ventures).  
 
 
1.5 L’approccio “Mercati-Gerarchie” 
 
A questo punto occorre chiedersi quali siano le condizioni che determinano la convenienza 
comparativa della scelta se sviluppare internamente un progetto di R&S oppure ricorrere ad 
una forma di cooperazione.  
Fra i fattori che agiscono a favore della cooperazione tecnologica fra imprese, ricordiamo (si 
vedano, fra gli altri, Porter e Fuller, 1986; Jacquemin, 1987):   
a) l'enorme aumento dei costi di R&S; l'effetto della loro indivisibilità può essere mitigato 
da sforzi congiunti, che spesso assumono natura consortile. Tale aspetto è particolarmente 
evidente in alcuni settori, quali l'industria aeronautica o quella elettronica - si pensi al 
 14 
consorzio Airbus o alla Microelectronics and Computer Technology Corporation (Pfeffer, 
1986);  
b) l'aumento dei rischi connessi ai progetti innovativi, soprattutto quando la varianza dei 
ritorni futuri è grande rispetto alla dimensione dell'impresa (tipico è il caso dei consorzi di 
esplorazione petrolifera).  
Da questo punto di vista, la cooperazione permette la condivisione fra le imprese 
partecipanti del rischio di un particolare progetto (“risk-sharing”), come pure la riduzione 
del rischio complessivo attraverso l'accensione di un numero superiore di progetti 
relativamente indipendenti fra loro (“risk-pooling”);   
c) la più rapida obsolescenza dei prodotti innovativi, che amplifica il rilievo delle 
osservazioni precedenti. Inoltre essa implica la necessità per le imprese  innovatrici di 
procedere a una rapida commercializzazione dei nuovi prodotti sul maggior numero 
possibile di mercati, la quale risulta spesso incompatibile con la scelta dell'integrazione;   
d) la crescente complessità sistemica di prodotti e processi: per la realizzazione di un 
prodotto-sistema sono tipicamente richieste conoscenze e competenze ad ampio spettro, con 
origini a volte assai differenziate; ciò spiega le crescenti difficoltà che le imprese, anche le 
più grandi e innovative, incontrano nell’internalizzare integralmente il processo innovativo; 
e) le caratteristiche del "know-how" e le convergenze tecnologiche. Tale aspetto è 
importante sotto due punti di vista. In primo luogo le principali tecnologie che sottendono il 
ciclo innovativo hanno un potenziale applicativo che fa riferimento a un numero 
estremamente ampio di settori di attività (in questo senso il know-how si dice pervasivo), 
spesso assai distanti da quello in cui l'impresa innovativa ha sviluppato le proprie originali 
competenze. Di conseguenza, l’opportunità di questa di esplorare sino in fondo il potenziale 
di redditività associato all'innovazione la può portare a stringere alleanze con altre imprese 
che posseggono appropriate competenze applicative o, nel caso sia più vantaggioso per 
l’impresa stessa, a diversificarsi sviluppando internamente le competenze di cui abbisogna. 
In secondo luogo, l'interazione progressivamente maggiore di aree del sapere un tempo 
distinte, quali per esempio l'informatica e le telecomunicazioni, può indurre le imprese a 
rapporti di cooperazione tecnologica (con l’obiettivo di risparmiare in costi fissi di sviluppo 
interno e di condividere i rischi di nuovi progetti) che consentono effetti di “cross-
fertilization” non altrimenti ottenibili; 
 15 
f) la multipolarità delle sorgenti di progresso tecnico, dal punto di vista sia delle tipologie 
d'impresa che delle aree geografiche di origine del processo innovativo (su quest'ultimo 
aspetto si veda in particolare Patel e Pavit, 1987). Tale fenomeno è alla base di strategie di 
“technology-window”, di cui tipico strumento è la partecipazione a consorzi di ricerca.   
La spinta a cooperare può essere esaminata nel suo specifico ricorrendo ad esempio alle 
tecniche di valutazione degli investimenti. Tuttavia ciò che maggiormente importa è la 
disamina delle determinanti organizzative della scelta, dal momento che molti aspetti (ad 
esempio la fiducia reciproca delle parti sul rispetto dell'accordo) non si prestano ad essere 
agevolmente considerate con metodologie quantitative.  
Un interessante approccio per lo studio della cooperazione tecnologica è rappresentato dal 
cosiddetto paradigma Mercati-Gerarchie; tale modello rientra nel più ampio alveo 
concettuale noto come “Economia Istituzionale”.   
L'economia istituzionale si differenzia dagli approcci tradizionali giacché tende a riguardare 
l'impresa invece che come funzione di produzione, come una struttura di governo delle 
transazioni.   
Una medesima transazione può così essere organizzata tramite l'impresa (cioè la gerarchia) 
o tramite il mercato; da un punto di vista astratto è evidente che il mercato costituisce la 
forma più efficiente di governo delle transazioni perché permette alle singole unità 
economiche di specializzarsi in quella sola fase o componente del prodotto o servizio per la 
quale sortiscono rilevanti economie di scala e di scopo.   
Per quale ragione allora esistono imprese integrate che svolgono al loro interno tutte le fasi 
del processo produttivo o elaborano tutte le componenti del bene? Applicando il 
ragionamento al caso di specie, per quale ragione una impresa dovrebbe svolgere nel 
contempo e da sola la ricerca di base e quella applicata, la progettazione e lo sviluppo, ed 
eventualmente anche distribuzione di prodotti e servizi?  
Tale domanda di fondo appare già opposta a da R.H. Coase nel suo classico articolo 
dell'1937 “The Nature of the Firm”. 
Tuttavia, se queste analisi riguardavano soltanto una singola attività, risolvendosi in scelte 
di make or buy, è soprattutto grazie agli studi di Oliver Williamson che il problema si trasla 
sulla “internalizzazione” od “esternalizzazione” di intere funzioni ed aree di affari.   
L'esistenza di imprese integrate si spiega alla luce di fattori che determinano la crisi o il 
fallimento del mercato quale più efficiente meccanismo di governo delle transazioni. Invero 
 16 
il mercato proposto da questi autori riecheggia le ipotesi di concorrenza perfetta assunte 
dagli economisti neoclassici: presenza di un elevatissimo numero di imprese, perfetta 
informazione, completa razionalità degli operatori economici, inesistenza di fattori umani 
quali sfiducia od opportunismo. In tali condizioni il mercato risulta “infallibile” generando 
situazioni di equilibrio ed annullamento di ogni extra-profitto.   
Nella realtà chiaramente esistono notevoli frizioni che impediscono lo svolgimento ottimale 
dei mercati e generano “costi di transazione”. Se il prezzo pagato al contraente esterno per 
acquistare il bene-servizio (quale un brevetto, ad esempio) sommato al costo di transazione 
è inferiore al costo interno, il mercato (esternalizzazione) è preferibile alla gerarchia 
(internalizzazione); la situazione inversa produce una convenienza comparativa della 
gerarchia. In verità, se la tradizionale analisi economica pone adeguatamente in luce gli 
elementi del costo interno di produzione e del costo esterno di acquisto, è anche vero che 
essa non chiarisce in modo sufficiente la componente del costo di transazione. Secondo 
Williamson i fattori che stanno all'origine di tale costo sono essenzialmente quattro, due 
umani e due ambientali. 
Il fattori umani sono la razionalità limitata e l’opportunismo; per quanto riguarda il primo 
aspetto va infatti detto che il processo decisionale non ha luogo in modo univoco ma risente 
di una serie di limitazioni insite nei soggetti che debbono assumere le decisioni. 
L’opportunismo implica invece che gli individui ricerchino il proprio interesse attraverso 
l’inganno e consiste nel fare minacce e promesse false o vuote (vedi Goffman, 1969).   
In termini più squisitamente aziendali l’opportunismo si manifesta nella manipolazione 
delle informazioni e nella falsa dichiarazione di intenti.   
I due fattori ambientali ricordati da Williamson sono l'incertezza/complessità decisionale ed 
il piccolo numero di operatori: essi interagiscono con i fattori umani ed anzi ne 
rappresentano la controparte “oggettiva”.   
In effetti, i problemi decisionali non sono pressoché mai deterministici ma sempre gravati 
da un'incertezza che, sommandosi con la razionalità limitata, dà vita a condizioni di 
ambiguità. La contrattazione con un piccolo numero di operatori (small numbers’ 
bargaining) accresce i rischi legati all'opportunismo. L'incertezza, l’opportunismo ed in 
parte anche la razionalità limitata, possono fare sorgere condizioni di blocco informativo: in 
pratica tale blocco si verifica quando “circostanze realmente rilevanti per l'esecuzione della 
 17 
transazione, o di un insieme di transazioni, sono conosciute da uno o più soggetti mentre gli 
altri possono scoprirle o conoscerle solo sostenendo un costo” (Williamson, 1975). 
Ebbene, in linea teorica, se sono presenti opportunismo, piccolo numero di operatori e 
blocco informativo, la gerarchia ovvero l'organizzazione interna, presenta una serie di 
vantaggi rispetto al mercato:   
a) è più difficile che i soggetti che operano all'interno di una organizzazione sortiscano 
vantaggio, comportandosi in modo opportunistico, rispetto a quelli che operano sul mercato;   
b) nelle organizzazioni il controllo risulta più efficace giacché si dispone più di adeguati 
sistemi di incentivi e di disincentivi;   
c) in presenza di conflitti l’organizzazione interna permette di meglio risolvere i problemi, 
sia perché le parti sono maggiormente inclini a cooperare, sia perché tramite lo strumento 
gerarchico possono risolversi artificiosi divergenze;   
l’asimmetria informativa è più agevolmente superabile.  
 
Mercato e organizzazione non esauriscono tuttavia l’intero spettro di strutture di governo 
delle transazioni; possono a tal riguardo rinvenirsi una quantità di forme intermedie o ibride. 
Secondo Jarillo (Jarillo, 1988), i mercati possono distinguersi in due categorie a seconda 
dell’approccio adottato dalle parti che pongono in essere l’accordo: se l’accordo è visto 
come un gioco a somma zero, cioè competitivo, si avrebbe il mercato puro o 
williamsoniano; se, di converso, l’accordo assume connotati di un gioco a somma non zero 
(cooperativo) si avrebbe la rete strategica. 
Gli accordi di cooperazione tra imprese nel campo della R&S si configurano, pertanto, 
come elementi di una struttura a rete dove la dimensione del mercato è più o meno 
prevalente a seconda delle clausole formali ed anche informali dell’accordo 
La prevalente corrente di studi è incline a ritenere che la causale dominante degli accordi tra 
imprese risiede nella convenienza che ciascun partner ha di acquisire dall’altro o dagli altri 
risorse complementari (complementary assets) rispetto a quelle che già possiede. 
Il concetto di complementarità è stato suggerito per la prima volta da Richardson nel 1972. 
Le imprese sono spinte alla cooperazione dall’esistenza, all’interno dell’impresa partner, di 
un insieme di conoscenze tecnologiche, commerciali e produttive complementari a quelle 
già possedute: l’alleanza nasce dalla valutazione dell’utilità di quelle conoscenze per lo 
 18 
sviluppo dell’impresa e allo stesso tempo dell’impossibilità, o della minore convenienza, di 
svilupparle internamente. 
E’ questa, d’altronde, l’identica logica del contributo di Teece (Teece, 1986), in cui, 
affrontando la tematica dell’innovazione tecnologica, ma arrivando per questa strada ad 
occuparsi di accordi di cooperazione, viene suggerito che il vantaggio tecnologico non è di 
per sé sufficiente a garantire il successo dell’innovatore. 
Teece nota come il successo commerciale di una particolare innovazione sia spesso 
determinato dall’accoppiamento del “know-how” su cui essa è basata con altri “assets” 
complementari, quali la disponibilità di una capacità produttiva efficiente, di canali 
distributivi adeguati, di servizi di marketing, manutenzione e assistenza post-vendita. Invero 
i "complementary assets" possono consistere in beni materiali o beni immateriali: tra i primi 
possono citarsi gli impianti, le disponibilità finanziarie, ecc. I secondi ricomprendono invece 
una serie di attività, quali brevetti, licenze, formule, ecc. (quello che in genere va sotto il 
nome di "know-how"). In funzione della loro natura, è possibile distinguere tali risorse in: 
risorse generiche, specializzate all’innovazione oppure cospecializzate, nel caso in cui vi sia 
mutua dipendenza fra l’innovazione e la particolare risorsa. Teece rileva poi come spesso 
sia l’impresa che controlla gli assets complementari specializzati ad appropriarsi della 
rendita associata all’innovazione, ai danni dell’innovatore. Ciò significa che l’accesso a tali 
assets riveste un ruolo strategico per l’innovatore, soprattutto se l’efficacia dei meccanismi, 
legali e non, di protezione di una tecnologia (brevetti, segreti commerciali, grado di 
codificabilità del know-how) è bassa (regime di debole appropriabilità) e il ciclo 
tecnologico è entrato nella fase paradigmatica, in cui uno standard si afferma sul mercato. 
Attingendo alla strumentazione concettuale transazionale, Teece confronta vantaggi e 
svantaggi dell'accesso per integrazione rispetto all'accesso attraverso meccanismi 
contrattuali. Questi ultimi sono soggetti ai ben noti problemi di “free riding”, tanto maggiori 
quanto più gli assets sono specializzati e/o la loro offerta è rigida. Al contrario, essi 
rappresentano la strategia ottimale se: (a) si è in regime di stretta appropriabilità, e perciò 
l'imitazione è difficoltosa; (b) l'offerta degli assets complementari è competitiva. La 
cooperazione è invece conveniente se, in regime di debole appropriabilità, il tempo 
necessario per lo sviluppo in proprio di tali assets o per la loro acquisizione e integrazione 
all'interno della struttura organizzativa dell'impresa innovatrice non è compatibile con le 
esigenze di rapida e ampia commercializzazione dell'innovazione. 
 19 
Come corollario, una politica basata sull'integrazione sarà più facile per la grande impresa, 
che in genere già possiede la maggior parte degli assets specializzati richiesti da una 
particolare innovazione. Tuttavia, l'integrazione non sarà percorribile neppure dalla grande 
impresa se l'innovazione presenta un accentuato carattere sistemico, e se il tasso di 
obsolescenza tecnologica è elevato. 
E’ chiaro quindi che si prestano tanto più alla costituzione di accordi quei settori industriali 
in cui  le risorse critiche risultano difficilmente cumulabili all’interno di una stessa impresa, 
e ciò per svariate ragioni tra cui: 
- i grandi vantaggi ottenibili dalla specializzazione; 
- l’elevata onerosità nello sviluppo delle risorse; 
- il rischio connesso alla costituzione all’interno delle risorse stesse. 
 
Le caratteristiche della R&S inducono dunque in massimo grado allo sviluppo di forme 
cooperative in questo campo, dal momento che in questa area è elevata la necessità di 
attività intangibili complementari il cui sviluppo interno è estremamente costoso ed a rischio 
elevato; i più recenti studi in tema di numerosità e caratteristiche degli accordi sembrano 
appunto avvalorare la tesi che qui sosteniamo: gli accordi hanno luogo in larga misura in 
settori hi-tech (energia, informatica, semiconduttori, chimica di base, elettronica e 
componentistica ad alta specializzazione, industria degli armamenti, ecc.) e l’appropriazione 
di risorse tecnologiche ne costituisce una causale fondamentale. 
 
 
1.6 Gli accordi di cooperazione tecnologica 
 
Uno Studio dell’OECD del 1986 ha stimato che oltre la metà degli accordi di  cooperazione 
stipulati nel periodo 1980-1986 ha come elemento centrale il trasferimento di know-how, 
sia nello stadio della ricerca di base che per la successiva produzione e commercializzazione 
di beni. 
Si tratta ora di creare una tassonomia delle causali e delle forme degli accordi di 
cooperazione tecnologica. Anzitutto è bene precisare che per accordi di cooperazione 
tecnologica si intendono quei tipi di accordi cooperativi interaziendali riguardanti: “Il 
finanziamento, coordinamento e/o l’attuazione congiunta di ricerca tecnologica, per 
 20 
promuovere avanzamenti o applicazioni in un dato settore o rafforzare una disciplina 
tecnologica o scientifica rilevante per i partners. Il concetto di ricerca tecnologica include 
attività riguardanti la ricerca di base e applicata, lo sviluppo di prototipi, la realizzazione di 
impianti pilota, la ricerca di standards, il testing e la misurazione nel campo delle scienze 
naturali ed dell’ingegneria” (Fusfeld e Haclisch, 1985). 
In base a questa definizione non possono essere considerati accordi di cooperazione 
tecnologica quelle forme di alleanze tra imprese volte allo sviluppo di collaborazione nel 
marketing, a comportamenti collusivi nella fissazione dei prezzi, all’innalzamento di 
barriere all’entrata anche se, naturalmente, questi comportamenti possono risultare quali 
effetti collaterali degli accordi in questione. 
In linea di massima, si è soliti distinguere gli accordi di cooperazione tecnologica nelle 
seguenti tipologie (Freeman, 1991): 
1. joint-ventures; 
2. accordi congiunti di R&S; 
3. investimenti diretti; 
4. accordi di scambio di tecnologia; 
5. relazioni fornitori-clienti; 
6. flussi di tecnologia unidirezionali. 
 
Per joint-ventures si intendono nel nostro caso le research-corporation: si tratta di imprese 
distinte che vengono costituite da almeno due imprese separate, in genere mediante una 
suddivisione degli investimenti di capitale. 
Negli accordi congiunti di R&S, invece, non è un’intera impresa che viene posta in comune, 
ma un singolo progetto, normalmente ben definito negli oneri, nel tempo, nella fruibilità e 
nei ritorni. 
Per quanto concerne gli investimenti diretti, accade spesso che una grande impresa acquisti 
quote di minoranza di una azienda più piccola hi-tech allo scopo di conoscere ed osservare 
lo sviluppo di una data tecnologia: è questa una forma fondamentale di finanziamento, 
quantunque indiretto, della ricerca scientifica. 
Gli accordi di scambio di tecnologia includono fenomeni quali mutuo trasferimento di 
tecnologie già esistenti ma rispettivamente conosciute da una sola delle parti e “cross 
licensing” (accordi di licenza incrociati).