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Inoltre, a fronte di mutate condizioni di mercato o di prospettive tecnologiche non
attentamente valutate, può essere più semplice ritirarsi da una coalizione piuttosto che
disinvestire dallo sviluppo interno (Porter, 1986).
Tutti questi fattori fanno della cooperazione non l’unica ma sicuramente la più interessante
delle opzioni per l’acquisizione delle risorse necessarie nello scenario competitivo, visti i
chiari vantaggi che ne derivano.
Ovviamente vi sono anche dei rischi che caratterizzano gli accordi, rendendoli spesso un
insuccesso: comportamenti opportunistici, obiettivi divergenti, incapacità di evidenziare in
modo chiaro la strategia da seguire, incompatibilità delle culture aziendali e conseguente
incapacità di collaborazione proficua, asimmetria tra partners che porta a situazioni di
dominanza di un’impresa su di un’altra.
Il numero di accordi siglati negli ultimi anni è crescente, mettendo in luce un sempre
maggiore utilizzo di tale opzione, specialmente nei settori ad alta tecnologia.
L’industria chimica spende più di ogni altra in R&S (nel 97 circa il 18% dei suoi quasi 300
bilioni di dollari di introiti delle vendite); nonostante la cifra aumenti di anno in anno, il
flusso di nuovi prodotti diminuisce e soltanto con una solida base di R&S si rendono
possibili delle innovazioni: questa è una delle ragioni per cui le imprese chimiche sono sotto
pressione dal punto di vista finanziario.
La risposta può essere un cambiamento significativo nel modo di operare delle imprese,
mediante un allargamento dei propri obiettivi e delle proprie frontiere grazie ad una rete di
accordi (il network) di natura tecnologica
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CAPITOLO PRIMO
LA COOPERAZIONE NELLA RICERCA E SVILUPPO
1.1 Premessa
L'attività di Ricerca e Sviluppo (R&S) può essere svolta internamente all’impresa, ma
questa non costituisce evidentemente l'unica ed esclusiva modalità di gestione adottabile:
all'opposto un impresa potrebbe acquisire dall'esterno brevetti, know-how e licenze.
A prima vista la scelta fra le due alternative si presenta come un tipico problema di “make
or buy”; uno studio più attento però rivela che l'analisi della convenienza comparata delle
due alternative non può esaurirsi in un calcolo strettamente economico-quantitativo.
In effetti, la volontà di perseguire una strategia di sviluppo della R&S all'interno
dell'impresa è correlata con la capacità di creare ed implementare una cultura
dell'innovazione, i cui costi e i cui benefici non si esauriscono tramite una semplice
imputazione al singolo prodotto o progetto. Difatti si assiste oggi ad una pluralità di
fenomeni che, pur non essendo del tutto nuovi, colpiscono per l'intensità e l'ampiezza con
cui si manifestano:
1. l'internazionalizzazione delle operazioni di R&S, a prescindere dal fatto che l'attività si
svolga del tutto in proprio o congiuntamente ad altri partners;
2. lo sviluppo di diversificate forme di cooperazione tra imprese, a volte persino
concorrenti, o tra imprese ed istituzioni pubbliche, università, centri di ricerca.
1.2 L’internazionalizzazione delle attività di R&S
Per quanto attiene al primo fenomeno, dalla letteratura e dalla prassi pare desumersi che la
spinta verso l'internazionalizzazione della R&S sia comune alle principali realtà industriali.
E' bene chiedersi quali siano le ragioni di tale fenomeno.
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Terpstra (1977) elenca tre categorie di possibili cause:
1. la possibilità di accedere a forza lavoro specializzata meno costosa;
2. l'opportunità di allargare il mercato ai potenziali acquirenti;
3. l'accesso a migliori fonti di sviluppo tecnologico.
In sostanza l'internazionalizzazione avverrebbe in virtù dei differenziali di costo e della
disponibilità di manodopera. Se poi una impresa vuole effettivamente essere
“multinazionale” non basta che adatti i prodotti o le altre leve di marketing-mix ai singoli
mercati domestici in cui è presente, ma occorre che sia anche fisicamente vicina ed inserita
nel tessuto economico-sociale dei suoi utenti e clienti; ciò implica la presenza di laboratori
di R&S nei paesi che sono o potrebbero essere i mercati più appetibili. Peraltro è noto come
l’internazionalizzazione costituisca una strategia di estensione del ciclo di vita del prodotto:
nei casi in cui il prodotto nel mercato interno sia giunto in una fase di maturità o di declino,
il lancio in altri paesi può costituire un sistema di rivitalizzazione. Deve constatarsi infine
come la diffusione della conoscenza tecnologica, malgrado la stampa specializzata ed altre
forme di comunicazione, sia ancora oggi limitata negli ambienti originari di ricerca; appare
perciò logico istituire “laboratori” direttamente laddove lo sviluppo tecnologico di interesse
per l'impresa ha più possibilità di realizzarsi.
Alcuni studiosi (in particolare De Meyer, 1989) ritengono tuttavia che le tre causali citate
non spieghino completamente l'attuale processo di internazionalizzazione della funzione
R&S; in particolare esse non sarebbero tali da superare gli evidenti problemi di
comunicazione che rendono più difficoltoso il coordinamento, arginano la velocità dello
sviluppo e riducono la produttività dei processi di internazionalizzazione. De Meyer
propone una spiegazione alternativa al problema che si incentrata sul concetto di
apprendimento. La capacità di apprendere è la caratteristica in cui meglio riposa la
rispondenza di un'impresa all'ambiente e costituirebbe l'elemento essenziale per una
trasformazione delle imprese da multinazionali a “transnazionali”. L'apprendimento non è
limitato all'internazionalizzazione e l'internazionalizzazione non è la “conditio sine qua non”
per l'apprendimento. Ma l'apprendimento tra differenti mercati, differenti metodi di
risoluzione dei problemi, differenti culture e la rapida diffusione di questo apprendimento
nell'organizzazione è sensibilmente incrementato creando un network internazionale di
laboratori di R&S. In altri termini, la funzione R&S deve apprendere per l'impresa,
permettere all'impresa di conseguire strategie transnazionali nel futuro ed un efficace
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apprendimento esige che la R&S si internazionalizzi. L'apprendimento è il legame che
connette la strategia delle imprese e l'internazionalizzazione della R&S. Si pone dunque il
problema di trovare adeguati strumenti gestionali atti a favorire la comunicazione tra i
diversi centri di R&S. Tali strumenti possono essere categorizzati come segue:
1. modalità di edificazione di una cultura comune: allo scopo, assai utili si rivelano
programmi formativi comuni, assegnazioni temporanee dei ricercatori a laboratori all'estero,
viaggi e visite costanti;
2. modalità fondate su regole e procedure: importanti in tal senso sono i processi di
pianificazione e di reporting;
3. meccanismi di coordinamento: in molte aziende che hanno internazionalizzato la
funzione di R&S si rileva la presenza di uno staff centrale il cui esplicito compito è quello
di coordinare le attività di R&S e di stimolare la comunicazione;
4. meccanismi informativi: i costanti sviluppi nelle tecnologie per l'informazione sono
infatti in grado di ridurre il modo considerevole i problemi comunicazionali tra i diversi poli
di R&S di una azienda. Tra i supporti elettronici utilizzabili vanno annoverati le reti di
computer, la posta elettronica e la video conferenza.
Indagini empiriche effettuate (De Meyer, 1990) sembrano tuttavia dimostrare che nessuna
delle modalità comunicazionali brevemente descritte è da sola sufficiente ad assicurare
l'efficacia del processo di R&S in un contesto internazionalizzato. Infatti occorre che le
imprese utilizzino tutte le modalità in parola, mirando alla costituzione di un vero e proprio
network internazionale per la R&S. In questo senso il compito della progettazione
organizzativa è realmente critico.
1.3 Le modalità cooperative nella gestione delle attività di R&S
Veniamo ora al secondo ordine di fenomeni cui abbiamo accennato prima, ovvero lo
sviluppo di forme cooperative tra imprese nel campo della R&S. L'argomento evoca
naturalmente la più ampia e complessa problematica delle relazioni cooperative tra aziende,
relazioni non necessariamente limitate alla funzione R&S.
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Tali relazioni vanno sotto il nome, tanto generale quanto ambiguo, di “accordi”. Il primo
problema che si incontra quando si iniziano a studiare gli accordi di cooperazione tra
imprese risiede nel fatto che la stessa identificazione dell'oggetto dello studio è difficile.
Innanzitutto esistono diversi termini, considerati sinonimi da alcuni ma non da altri, che
vengono adottati per parlare di quelli che qui chiamiamo accordi di cooperazione tra
imprese: accordi di cooperazione o di collaborazione, alleanze, iniziative comuni ecc.
Quando poi si supera questa prima difficoltà adottando convenzionalmente un termine
sufficientemente generale per caratterizzare fenomeno, si apre il problema della
delimitazione del problema che si prende in considerazione.
Alcuni autori hanno infatti adottato un'ottica restrittiva perché interessati a caratterizzare
solo tipi di accordi di cooperazione tra imprese che si imponevano all'attenzione
principalmente per la loro novità nel contesto delle relazioni tra industrie. Per esempio
David C. Mowery, che dedica la sua attenzione all'industria dell'aviazione civile (Mowery,
1987), si occupa solo delle joint-ventures, cioè di quegli accordi tra imprese finalizzati allo
sviluppo di un prodotto che prevedono significativi livelli di cooperazione nella ricerca,
nella progettazione, nella produzione e nella commercializzazione, con contributi
apprezzabili da parte di ciascun partner e rischi distribuiti tra di loro - escludendo così
accordi di licenza, investimenti diretti, trasferimenti di tecnologia e iniziative comuni
limitate alla ricerca.
David Teece invece trascura le joint-ventures per concentrare l'attenzione su quegli accordi
di cooperazione tra imprese che determinano una coalizione tra i partners (“coalition
arrangements”), in cui essi condividono i servizi relativi alle loro specifiche attività nella
realizzazione di un prodotto comune (Teece, 1986). Tali scelte, che hanno naturalmente il
vantaggio di prendere in considerazione fenomenologie più omogenee e di rendere quindi
più agevole la loro caratterizzazione, rendono però pressoché impossibile una
categorizzazione unitaria degli accordi di cooperazione tra imprese imponendo una gamma
di subdefinizioni che richiedono ciascuna una analisi ad hoc.
Una definizione ampia degli accordi di cooperazione tra imprese d'altra parte finisce per
comprendere per esempio anche forme di relazione tra imprese, come la partecipazione
azionaria o gli accordi di licenza, che sono fenomeni sempre verificatisi tra le imprese e non
hanno quindi, da soli, alcun carattere di novità.
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Essa richiede dunque una maggiore cautela nella analisi per riconoscere i caratteri di novità
degli accordi di cooperazione tra imprese distinguendoli da fenomeni che si verificano da
tempo con una certa frequenza.
Si tratta insomma di identificare il fenomeno degli accordi di cooperazione tra imprese in
senso generale, delineando i caratteri innovativi e comuni che essi hanno, pur avendo
ciascuno di essi forme sue proprie che lo distinguono all'interno della classe.
Per questo il seguente lavoro aderisce a una definizione largamente generale e astratta, come
quella della FOR (Future in the Organisation of Resources - centro di ricerca industriale
fondato dalla Montedison nel 1984):
“Gli accordi di cooperazione tra imprese sono accordi formali o informali tra due o più
imprese, che producono un certo grado di collaborazione tra di loro e riguardano
partecipazioni azionarie o la creazione di nuove imprese o infine accordi non azionari”
(FOR 1986), o quella più articolata di Cainarca, Colombo e Mariotti:
“Per accordo di cooperazione (tra imprese) si intende...una relazione di lungo termine fra
imprese, concernente una o più aree di attività, in termini di linee di prodotto, di aree di
mercato, di funzioni aziendali, in base alla quale esse disciplinano ex ante le proprie
condotte future, attraverso meccanismi contrattuali formalizzati oppure in modo informale”
(Cainarca, Colombo, Mariotti).
Esse paiono essere preferibili a quella di Balcet e Viesti:
“Gli accordi sono una gamma di intese, formalizzate contrattualmente o informali, in base
alle quali due o più imprese convengono di stabilire fra di loro delle relazioni di una certa
durata temporale e che implicano per ognuna di esse una serie di obblighi di
comportamento (per esempio accordi commerciali e di subfornitura, cessione di tecnologia
attraverso licenze e trasferimento di know-how, creazione di gruppi comuni di produzione e
ricerca, joint-ventures). Gli accordi sono inoltre caratterizzati da due parametri: grado di
coordinamento (legato all'intensità con cui i partners sono vincolati da norme specifiche) e
grado di dominanza (legato alla presenza o meno di rapporti asimmetrici tra i contraenti)...”
(Balcet e Viesti, 1986), che pur essendo per molti versi più ricca ed analitica, si espone al
rischio, dal nostro punto di vista, di prefissare attributi di significatività (il grado di
coordinamento e quello di dominanza) non fondati logicamente.
Così gli accordi possono esser affrontati nella tradizione delle relazioni inter-organizzative
come nuovi modelli di economia industriale spiegabili alla luce della “Institutional
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Economy” e del programma “Mercati-Gerarchie”. Non è possibile in questa sede dar conto
delle posizioni delle diverse "scuole" se non nella misura in cui esse siano rilevanti per lo
specifico studio degli accordi nella R&S.
1.4 Gli accordi: una prima classificazione
Ai nostri fini basterà dunque mettere in luce come gli accordi possano essere variamente
classificati:
a) secondo il soggetto: a tale proposito è naturale supporre che gli accordi abbiano luogo
normalmente tra attori che risultano complementari, quali i fornitori (accordi a monte) od i
distributori (accordi a valle), ma negli ultimi tempi si assiste ad una crescente diffusione di
modalità cooperative con concorrenti;
b) secondo la modalità giuridico-formale dell'accordo: si avranno così accordi che
implicano una partecipazione di capitale (equity) o che non la implicano (non-equity), o che
addirittura non trovano alcun fondamento in un rapporto giuridico sottostante (accordi
informali o networks sociali);
c) secondo lo stadio della catena del valore che diviene oggetto di cooperazione: gli accordi
possono riguardare le funzioni di produzione (ad esempio subcontracting) o di distribuzione
(ad esempio franchising) o per l'appunto di R&S, od una intera area strategica di affari
(tramite la costituzione di joint-ventures).
1.5 L’approccio “Mercati-Gerarchie”
A questo punto occorre chiedersi quali siano le condizioni che determinano la convenienza
comparativa della scelta se sviluppare internamente un progetto di R&S oppure ricorrere ad
una forma di cooperazione.
Fra i fattori che agiscono a favore della cooperazione tecnologica fra imprese, ricordiamo (si
vedano, fra gli altri, Porter e Fuller, 1986; Jacquemin, 1987):
a) l'enorme aumento dei costi di R&S; l'effetto della loro indivisibilità può essere mitigato
da sforzi congiunti, che spesso assumono natura consortile. Tale aspetto è particolarmente
evidente in alcuni settori, quali l'industria aeronautica o quella elettronica - si pensi al
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consorzio Airbus o alla Microelectronics and Computer Technology Corporation (Pfeffer,
1986);
b) l'aumento dei rischi connessi ai progetti innovativi, soprattutto quando la varianza dei
ritorni futuri è grande rispetto alla dimensione dell'impresa (tipico è il caso dei consorzi di
esplorazione petrolifera).
Da questo punto di vista, la cooperazione permette la condivisione fra le imprese
partecipanti del rischio di un particolare progetto (“risk-sharing”), come pure la riduzione
del rischio complessivo attraverso l'accensione di un numero superiore di progetti
relativamente indipendenti fra loro (“risk-pooling”);
c) la più rapida obsolescenza dei prodotti innovativi, che amplifica il rilievo delle
osservazioni precedenti. Inoltre essa implica la necessità per le imprese innovatrici di
procedere a una rapida commercializzazione dei nuovi prodotti sul maggior numero
possibile di mercati, la quale risulta spesso incompatibile con la scelta dell'integrazione;
d) la crescente complessità sistemica di prodotti e processi: per la realizzazione di un
prodotto-sistema sono tipicamente richieste conoscenze e competenze ad ampio spettro, con
origini a volte assai differenziate; ciò spiega le crescenti difficoltà che le imprese, anche le
più grandi e innovative, incontrano nell’internalizzare integralmente il processo innovativo;
e) le caratteristiche del "know-how" e le convergenze tecnologiche. Tale aspetto è
importante sotto due punti di vista. In primo luogo le principali tecnologie che sottendono il
ciclo innovativo hanno un potenziale applicativo che fa riferimento a un numero
estremamente ampio di settori di attività (in questo senso il know-how si dice pervasivo),
spesso assai distanti da quello in cui l'impresa innovativa ha sviluppato le proprie originali
competenze. Di conseguenza, l’opportunità di questa di esplorare sino in fondo il potenziale
di redditività associato all'innovazione la può portare a stringere alleanze con altre imprese
che posseggono appropriate competenze applicative o, nel caso sia più vantaggioso per
l’impresa stessa, a diversificarsi sviluppando internamente le competenze di cui abbisogna.
In secondo luogo, l'interazione progressivamente maggiore di aree del sapere un tempo
distinte, quali per esempio l'informatica e le telecomunicazioni, può indurre le imprese a
rapporti di cooperazione tecnologica (con l’obiettivo di risparmiare in costi fissi di sviluppo
interno e di condividere i rischi di nuovi progetti) che consentono effetti di “cross-
fertilization” non altrimenti ottenibili;
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f) la multipolarità delle sorgenti di progresso tecnico, dal punto di vista sia delle tipologie
d'impresa che delle aree geografiche di origine del processo innovativo (su quest'ultimo
aspetto si veda in particolare Patel e Pavit, 1987). Tale fenomeno è alla base di strategie di
“technology-window”, di cui tipico strumento è la partecipazione a consorzi di ricerca.
La spinta a cooperare può essere esaminata nel suo specifico ricorrendo ad esempio alle
tecniche di valutazione degli investimenti. Tuttavia ciò che maggiormente importa è la
disamina delle determinanti organizzative della scelta, dal momento che molti aspetti (ad
esempio la fiducia reciproca delle parti sul rispetto dell'accordo) non si prestano ad essere
agevolmente considerate con metodologie quantitative.
Un interessante approccio per lo studio della cooperazione tecnologica è rappresentato dal
cosiddetto paradigma Mercati-Gerarchie; tale modello rientra nel più ampio alveo
concettuale noto come “Economia Istituzionale”.
L'economia istituzionale si differenzia dagli approcci tradizionali giacché tende a riguardare
l'impresa invece che come funzione di produzione, come una struttura di governo delle
transazioni.
Una medesima transazione può così essere organizzata tramite l'impresa (cioè la gerarchia)
o tramite il mercato; da un punto di vista astratto è evidente che il mercato costituisce la
forma più efficiente di governo delle transazioni perché permette alle singole unità
economiche di specializzarsi in quella sola fase o componente del prodotto o servizio per la
quale sortiscono rilevanti economie di scala e di scopo.
Per quale ragione allora esistono imprese integrate che svolgono al loro interno tutte le fasi
del processo produttivo o elaborano tutte le componenti del bene? Applicando il
ragionamento al caso di specie, per quale ragione una impresa dovrebbe svolgere nel
contempo e da sola la ricerca di base e quella applicata, la progettazione e lo sviluppo, ed
eventualmente anche distribuzione di prodotti e servizi?
Tale domanda di fondo appare già opposta a da R.H. Coase nel suo classico articolo
dell'1937 “The Nature of the Firm”.
Tuttavia, se queste analisi riguardavano soltanto una singola attività, risolvendosi in scelte
di make or buy, è soprattutto grazie agli studi di Oliver Williamson che il problema si trasla
sulla “internalizzazione” od “esternalizzazione” di intere funzioni ed aree di affari.
L'esistenza di imprese integrate si spiega alla luce di fattori che determinano la crisi o il
fallimento del mercato quale più efficiente meccanismo di governo delle transazioni. Invero
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il mercato proposto da questi autori riecheggia le ipotesi di concorrenza perfetta assunte
dagli economisti neoclassici: presenza di un elevatissimo numero di imprese, perfetta
informazione, completa razionalità degli operatori economici, inesistenza di fattori umani
quali sfiducia od opportunismo. In tali condizioni il mercato risulta “infallibile” generando
situazioni di equilibrio ed annullamento di ogni extra-profitto.
Nella realtà chiaramente esistono notevoli frizioni che impediscono lo svolgimento ottimale
dei mercati e generano “costi di transazione”. Se il prezzo pagato al contraente esterno per
acquistare il bene-servizio (quale un brevetto, ad esempio) sommato al costo di transazione
è inferiore al costo interno, il mercato (esternalizzazione) è preferibile alla gerarchia
(internalizzazione); la situazione inversa produce una convenienza comparativa della
gerarchia. In verità, se la tradizionale analisi economica pone adeguatamente in luce gli
elementi del costo interno di produzione e del costo esterno di acquisto, è anche vero che
essa non chiarisce in modo sufficiente la componente del costo di transazione. Secondo
Williamson i fattori che stanno all'origine di tale costo sono essenzialmente quattro, due
umani e due ambientali.
Il fattori umani sono la razionalità limitata e l’opportunismo; per quanto riguarda il primo
aspetto va infatti detto che il processo decisionale non ha luogo in modo univoco ma risente
di una serie di limitazioni insite nei soggetti che debbono assumere le decisioni.
L’opportunismo implica invece che gli individui ricerchino il proprio interesse attraverso
l’inganno e consiste nel fare minacce e promesse false o vuote (vedi Goffman, 1969).
In termini più squisitamente aziendali l’opportunismo si manifesta nella manipolazione
delle informazioni e nella falsa dichiarazione di intenti.
I due fattori ambientali ricordati da Williamson sono l'incertezza/complessità decisionale ed
il piccolo numero di operatori: essi interagiscono con i fattori umani ed anzi ne
rappresentano la controparte “oggettiva”.
In effetti, i problemi decisionali non sono pressoché mai deterministici ma sempre gravati
da un'incertezza che, sommandosi con la razionalità limitata, dà vita a condizioni di
ambiguità. La contrattazione con un piccolo numero di operatori (small numbers’
bargaining) accresce i rischi legati all'opportunismo. L'incertezza, l’opportunismo ed in
parte anche la razionalità limitata, possono fare sorgere condizioni di blocco informativo: in
pratica tale blocco si verifica quando “circostanze realmente rilevanti per l'esecuzione della
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transazione, o di un insieme di transazioni, sono conosciute da uno o più soggetti mentre gli
altri possono scoprirle o conoscerle solo sostenendo un costo” (Williamson, 1975).
Ebbene, in linea teorica, se sono presenti opportunismo, piccolo numero di operatori e
blocco informativo, la gerarchia ovvero l'organizzazione interna, presenta una serie di
vantaggi rispetto al mercato:
a) è più difficile che i soggetti che operano all'interno di una organizzazione sortiscano
vantaggio, comportandosi in modo opportunistico, rispetto a quelli che operano sul mercato;
b) nelle organizzazioni il controllo risulta più efficace giacché si dispone più di adeguati
sistemi di incentivi e di disincentivi;
c) in presenza di conflitti l’organizzazione interna permette di meglio risolvere i problemi,
sia perché le parti sono maggiormente inclini a cooperare, sia perché tramite lo strumento
gerarchico possono risolversi artificiosi divergenze;
l’asimmetria informativa è più agevolmente superabile.
Mercato e organizzazione non esauriscono tuttavia l’intero spettro di strutture di governo
delle transazioni; possono a tal riguardo rinvenirsi una quantità di forme intermedie o ibride.
Secondo Jarillo (Jarillo, 1988), i mercati possono distinguersi in due categorie a seconda
dell’approccio adottato dalle parti che pongono in essere l’accordo: se l’accordo è visto
come un gioco a somma zero, cioè competitivo, si avrebbe il mercato puro o
williamsoniano; se, di converso, l’accordo assume connotati di un gioco a somma non zero
(cooperativo) si avrebbe la rete strategica.
Gli accordi di cooperazione tra imprese nel campo della R&S si configurano, pertanto,
come elementi di una struttura a rete dove la dimensione del mercato è più o meno
prevalente a seconda delle clausole formali ed anche informali dell’accordo
La prevalente corrente di studi è incline a ritenere che la causale dominante degli accordi tra
imprese risiede nella convenienza che ciascun partner ha di acquisire dall’altro o dagli altri
risorse complementari (complementary assets) rispetto a quelle che già possiede.
Il concetto di complementarità è stato suggerito per la prima volta da Richardson nel 1972.
Le imprese sono spinte alla cooperazione dall’esistenza, all’interno dell’impresa partner, di
un insieme di conoscenze tecnologiche, commerciali e produttive complementari a quelle
già possedute: l’alleanza nasce dalla valutazione dell’utilità di quelle conoscenze per lo
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sviluppo dell’impresa e allo stesso tempo dell’impossibilità, o della minore convenienza, di
svilupparle internamente.
E’ questa, d’altronde, l’identica logica del contributo di Teece (Teece, 1986), in cui,
affrontando la tematica dell’innovazione tecnologica, ma arrivando per questa strada ad
occuparsi di accordi di cooperazione, viene suggerito che il vantaggio tecnologico non è di
per sé sufficiente a garantire il successo dell’innovatore.
Teece nota come il successo commerciale di una particolare innovazione sia spesso
determinato dall’accoppiamento del “know-how” su cui essa è basata con altri “assets”
complementari, quali la disponibilità di una capacità produttiva efficiente, di canali
distributivi adeguati, di servizi di marketing, manutenzione e assistenza post-vendita. Invero
i "complementary assets" possono consistere in beni materiali o beni immateriali: tra i primi
possono citarsi gli impianti, le disponibilità finanziarie, ecc. I secondi ricomprendono invece
una serie di attività, quali brevetti, licenze, formule, ecc. (quello che in genere va sotto il
nome di "know-how"). In funzione della loro natura, è possibile distinguere tali risorse in:
risorse generiche, specializzate all’innovazione oppure cospecializzate, nel caso in cui vi sia
mutua dipendenza fra l’innovazione e la particolare risorsa. Teece rileva poi come spesso
sia l’impresa che controlla gli assets complementari specializzati ad appropriarsi della
rendita associata all’innovazione, ai danni dell’innovatore. Ciò significa che l’accesso a tali
assets riveste un ruolo strategico per l’innovatore, soprattutto se l’efficacia dei meccanismi,
legali e non, di protezione di una tecnologia (brevetti, segreti commerciali, grado di
codificabilità del know-how) è bassa (regime di debole appropriabilità) e il ciclo
tecnologico è entrato nella fase paradigmatica, in cui uno standard si afferma sul mercato.
Attingendo alla strumentazione concettuale transazionale, Teece confronta vantaggi e
svantaggi dell'accesso per integrazione rispetto all'accesso attraverso meccanismi
contrattuali. Questi ultimi sono soggetti ai ben noti problemi di “free riding”, tanto maggiori
quanto più gli assets sono specializzati e/o la loro offerta è rigida. Al contrario, essi
rappresentano la strategia ottimale se: (a) si è in regime di stretta appropriabilità, e perciò
l'imitazione è difficoltosa; (b) l'offerta degli assets complementari è competitiva. La
cooperazione è invece conveniente se, in regime di debole appropriabilità, il tempo
necessario per lo sviluppo in proprio di tali assets o per la loro acquisizione e integrazione
all'interno della struttura organizzativa dell'impresa innovatrice non è compatibile con le
esigenze di rapida e ampia commercializzazione dell'innovazione.
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Come corollario, una politica basata sull'integrazione sarà più facile per la grande impresa,
che in genere già possiede la maggior parte degli assets specializzati richiesti da una
particolare innovazione. Tuttavia, l'integrazione non sarà percorribile neppure dalla grande
impresa se l'innovazione presenta un accentuato carattere sistemico, e se il tasso di
obsolescenza tecnologica è elevato.
E’ chiaro quindi che si prestano tanto più alla costituzione di accordi quei settori industriali
in cui le risorse critiche risultano difficilmente cumulabili all’interno di una stessa impresa,
e ciò per svariate ragioni tra cui:
- i grandi vantaggi ottenibili dalla specializzazione;
- l’elevata onerosità nello sviluppo delle risorse;
- il rischio connesso alla costituzione all’interno delle risorse stesse.
Le caratteristiche della R&S inducono dunque in massimo grado allo sviluppo di forme
cooperative in questo campo, dal momento che in questa area è elevata la necessità di
attività intangibili complementari il cui sviluppo interno è estremamente costoso ed a rischio
elevato; i più recenti studi in tema di numerosità e caratteristiche degli accordi sembrano
appunto avvalorare la tesi che qui sosteniamo: gli accordi hanno luogo in larga misura in
settori hi-tech (energia, informatica, semiconduttori, chimica di base, elettronica e
componentistica ad alta specializzazione, industria degli armamenti, ecc.) e l’appropriazione
di risorse tecnologiche ne costituisce una causale fondamentale.
1.6 Gli accordi di cooperazione tecnologica
Uno Studio dell’OECD del 1986 ha stimato che oltre la metà degli accordi di cooperazione
stipulati nel periodo 1980-1986 ha come elemento centrale il trasferimento di know-how,
sia nello stadio della ricerca di base che per la successiva produzione e commercializzazione
di beni.
Si tratta ora di creare una tassonomia delle causali e delle forme degli accordi di
cooperazione tecnologica. Anzitutto è bene precisare che per accordi di cooperazione
tecnologica si intendono quei tipi di accordi cooperativi interaziendali riguardanti: “Il
finanziamento, coordinamento e/o l’attuazione congiunta di ricerca tecnologica, per
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promuovere avanzamenti o applicazioni in un dato settore o rafforzare una disciplina
tecnologica o scientifica rilevante per i partners. Il concetto di ricerca tecnologica include
attività riguardanti la ricerca di base e applicata, lo sviluppo di prototipi, la realizzazione di
impianti pilota, la ricerca di standards, il testing e la misurazione nel campo delle scienze
naturali ed dell’ingegneria” (Fusfeld e Haclisch, 1985).
In base a questa definizione non possono essere considerati accordi di cooperazione
tecnologica quelle forme di alleanze tra imprese volte allo sviluppo di collaborazione nel
marketing, a comportamenti collusivi nella fissazione dei prezzi, all’innalzamento di
barriere all’entrata anche se, naturalmente, questi comportamenti possono risultare quali
effetti collaterali degli accordi in questione.
In linea di massima, si è soliti distinguere gli accordi di cooperazione tecnologica nelle
seguenti tipologie (Freeman, 1991):
1. joint-ventures;
2. accordi congiunti di R&S;
3. investimenti diretti;
4. accordi di scambio di tecnologia;
5. relazioni fornitori-clienti;
6. flussi di tecnologia unidirezionali.
Per joint-ventures si intendono nel nostro caso le research-corporation: si tratta di imprese
distinte che vengono costituite da almeno due imprese separate, in genere mediante una
suddivisione degli investimenti di capitale.
Negli accordi congiunti di R&S, invece, non è un’intera impresa che viene posta in comune,
ma un singolo progetto, normalmente ben definito negli oneri, nel tempo, nella fruibilità e
nei ritorni.
Per quanto concerne gli investimenti diretti, accade spesso che una grande impresa acquisti
quote di minoranza di una azienda più piccola hi-tech allo scopo di conoscere ed osservare
lo sviluppo di una data tecnologia: è questa una forma fondamentale di finanziamento,
quantunque indiretto, della ricerca scientifica.
Gli accordi di scambio di tecnologia includono fenomeni quali mutuo trasferimento di
tecnologie già esistenti ma rispettivamente conosciute da una sola delle parti e “cross
licensing” (accordi di licenza incrociati).