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Dieci anni di guerre jugoslave, con l'epilogo del Kosovo, hanno
cambiato il volto dei Balcani, dell'Europa e della politica internazionale:
nazionalismo, geopolitica e ricorso alla guerra sono tornati
prepotentemente sulla scena. Ennesimo capitolo violento della lunga agonia
jugoslava, la guerra in Kosovo non è che uno dei tanti conflitti etnopolitici
in cui si consuma la frammentazione delle periferie europee, lungo l'arco di
crisi che si estende dal Sahara Occidentale fino al Caucaso.
Si è parlato e scritto molto delle bombe NATO "piovute" sulla
Provincia, si è sperimentato molto dell'enorme massa di popolazione in
fuga, e soprattutto di quella approdata nel nostro Paese, sulle coste pugliesi,
cui è spettato l'impegno della prima accoglienza, o l'onere di dover
rimandare indietro qualcuno.
Alla luce di tutto ciò di cui si è parlato, vale la pena fare una radiografia
alla guerra, e alla pace del Kosovo. La Provincia oggi entra nelle liste DAC
(Development Assistance Committee) come Paese in via di sviluppo
(PVS), quindi l'assistenza ad esso fornita viene paragonata proprio a questo
tipo di paesi. Partendo dagli studi sulle questioni belliche, formalizzati in
precedenza, per altri paesi e da altri ricercatori, si procederà nell'analisi di
questa piccola provincia, tartassata non solo dalle bombe e dalla guerriglia,
ma anche "dall'invasione da parte di un'intera popolazione straniera",
costituita di militari e civili, giunta con l'intenzione di portare aiuti e
protezione di ogni tipo, ma che, purtroppo, il più delle volte ha ottenuto il
risultato di seminare anche lo sconcerto e la diffidenza tra le persone.
Risulta difficile, a caldo, formalizzare la struttura degli interventi, e capirne
gli obiettivi: questi, il più delle volte appaiono meri tentativi di tappare i
buchi che emergono man mano, senza segnare un percorso ben definito;
tuttavia bisognerà aspettare un po' di tempo prima di capire davvero quale
percorso sia stato intrapreso.
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Lo studio di questo lavoro nasce dalla persuasione che l'importanza che
viene attribuita alla regione kosovara - una soltanto lungo le turbolente
periferie europee - durante gli eventi della primavera '99, imponga
un'analisi più approfondita. Non si tratta, ovviamente, di un rapporto
completo e definitivo, dal momento che le ripercussioni degli interventi
intrapresi continuano a verificarsi; questo è piuttosto una sorta di lavoro "in
progress", che prevede di essere in continuo aggiornamento. Vi è stata una
selezione delle informazioni e delle iniziative che sono state ritenute più
importanti, significative e funzionali al senso complessivo di questo lavoro,
approfondendo alcuni interventi; sono inoltre state utilizzate numerose
fonti: libri, ricerche, siti web, statistiche.
L'idea di fondo dello studio è che la ricostruzione può essere, per i
Balcani, un'occasione di pacificazione e di sviluppo, a patto che abbia al
suo centro, oltre che gli aspetti economici e sociali, anche quelli della
ricostruzione democratica, sociale e civile. Le guerre nei Balcani hanno
distrutto la convivenza e la comunità, prima ancora dei connotati fisici
della Regione. Ciò che serve adesso sono scelte mirate, che favoriscano lo
sviluppo locale e sociale, le risorse umane, l'educazione e l'istruzione, i
servizi sociali e pubblici, un'economia sana e plurale. Serve soprattutto
un'idea di ricostruzione e cooperazione che sia legata ad un processo di
integrazione transbalcanica ed europea.
Le finalità di questo lavoro, di conseguenza, non mirano a capire se
l'intervento internazionale "sia o sia stato giusto", nè tantomeno se "ne
valga o ne sia valsa la pena": esse si collocano più avanti, nel tentativo di
ricostruire un bilancio del presente e, magari, decifrare i possibili scenari
futuri.
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E' utile passare in rassegna i singoli capitoli del lavoro per avere una
più chiara visualizzazione dell'insieme:
Il primo capitolo mette in luce una sorta di "spettro" della guerra, delle
sue conseguenze, e degli interventi che vengono attuati, a livello interno ed
internazionale, per porvi rimedio, o quanto meno per ricreare una
situazione di vivibilità nei paesi colpiti. A tale scopo bisogna innanzitutto
capire i passaggi del conflitto, partendo dalle "cause", se è possibile
identificarne alcune; il più delle volte, infatti, si tratta di una
concatenazione di eventi radicati nel tempo, per cui riferire ad una
motivazione il valore di "causa" del conflitto risulta assai difficile; allo
stesso tempo questo passaggio è però fondamentale per capire meglio in
che modo intervenire per la ricostruzione. Analogamente anche gli altri
passaggi sono importanti: conseguenze, valutazione dei costi, settori
maggiormente colpiti, operazioni di pace, e così via. In questo capitolo si
cercherà di schematizzare questi passaggi, facendo chiarezza sugli stessi,
sul ruolo che essi hanno nella valutazione di un conflitto, e nella scelta
delle possibilità di intervento.
Il secondo capitolo ripercorre le vicende del Kosovo dalle origini delle
rivendicazioni storiche ed etniche di serbi e albanesi: i nazionalisti serbi
che "accusano gli albanesi di essersi installati nel Kosovo approfittando
della sconfitta del regno serbo da parte dell'impero ottomano", mentre i
nazionalisti albanesi "rispondono che i loro antenati, gli illiri, designati
come fondatori della loro nazione, occupavano quel territorio vari secoli
prima delle invasioni slave nella penisola balcanica". Queste antiche
rivalità, inasprite da una situazione economica tutt’altro che fiorente;
inasprite dai fatti degli anni '60 e '80, e dalla stessa guerra in Bosnia
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Erzegovina, ma soprattutto da una serie di eventi che, come sempre in
questi casi, è impossibile prevedere o evitare; questo coacervo di fatti,
personaggi, casualità, ha condotto ai tragici eventi del biennio '98 - '99. Il
capitolo offre quindi una "fotografia" piuttosto dettagliata del Kosovo dopo
tutti questi anni: l'autonomia, Tito, l'LDK e l'UCK, il codice di lek, la lotta
nonviolenta di Rugova, per delineare, infine, una panoramica degli
organismi internazionali presenti nella provincia: una vera e propria mappa
dell'intervento, e di come questo viene strutturato: le funzioni dei vari e
numerosi organi presenti, il consiglio di Sicurezza, le Missioni di pace,
l'assistenza alla popolazione, l'Amministrazione Civile Provvisoria, le
Istituzioni Finanziarie, le Organizzazioni non Governative. Questo
capitolo, pur trattando argomenti di cui si è spesso parlato in maniera
generale, risulta di importanza fondamentale per avere un esatto
inquadramento della situazione, e poterne comprendere gli sviluppi.
Nel terzo capitolo vengono affrontate e spiegate le politiche fin qui
portate avanti, si analizzano le politiche (e le strategie di fondo)
economiche e finanziarie seguite dai paesi occidentali dal 1998, ossia
dall'inizio della crisi del Kosovo, ad oggi. Si parlerà dell'Unione Europea,
delle Nazioni Unite, del Patto di Stabilità, del ruolo in Kosovo delle grandi
istituzioni economiche e finanziarie internazionali: la Banca Mondiale, il
Fondo Monetario Internazionale.
I danni accertati nella Provincia ammontano a circa 1,157 miliardi di
EURO, ed è importante scoprire in quali settori ed in che misura si sia
incentrato l'intervento delle varie organizzazioni, per capire la collocazione
che ognuna di esse assume nello schema di ricostruzione, e soprattutto se
esista uno schema di ricostruzione vero e proprio. Dal 1998, e per i Balcani
nel complesso a cominciare dai primi anni '90, sono stati investiti numerosi
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milioni di EURO, con quali risultati è difficile dirlo. Mentre le grandi
istituzioni finanziarie internazionali hanno perseguito le politiche di
compressione dell'intervento pubblico e di sostegno sull'apertura dei
mercati e delle privatizzazioni. Il ruolo di questo capitolo è di fare
chiarezza su questi impegni, sull'eventuale coordinamento o
complementarietà degli interventi, sull'importanza che può avere, per le
istituzioni stesse, l'integrazione economica, sociale e civile di una piccola
provincia nella periferia ad est dell'Europa, il Kosovo.
Nel quarto capitolo si parla dell'Italia: di quello che ha fatto fino ad
oggi per la ricostruzione in Kosovo, promuovendo progetti propri o
sostenendo le altre organizzazioni internazionali e le ONG. Si parla delle
attività di emergenza, di quanto si è speso per la guerra e di quanto si sta
spendendo per la pace, di quello che stanno facendo le imprese, dei progetti
finora portati avanti. La trattazione ruota attorno alle attività di
cooperazione allo sviluppo del Ministero degli Affari esteri, in quanto esso
è l'organismo rappresentativo del nostro Paese, all'estero. Gli interventi
svolti in Kosovo tramite il Ministero ammontano a più di 16 milioni di
EURO, altri 5 milioni di EURO sono stati stanziati dall'Italia sui tre Tavoli
del Patto di Stabilità; non bisogna poi dimenticare l'ingente intervento delle
ONG e delle atre organizzazioni umanitarie, e i programmi previsti per il
prossimo triennio.
Relativamente ai programmi attuati vengono presentate tabelle e grafici
che, benchè rendano meno agile la scorrevolezza del testo, sono invece
molto importanti in quanto offrono, anche ai "non addetti ai lavori", un
efficace mezzo per avere una visuale completa ed immediata dell'intervento
svolto. L'obiettivo dell'intero lavoro è infatti, come si è già detto, proprio
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questo: dipingere un quadro del presente fornendo il mezzo per poter
decifrare i possibili scenari futuri.
Il futuro dei Balcani e della pace è il tema delle conclusioni: i risultati
economici e quelli umanitari sembrano percorrere due sentieri diversi, se
non completamente opposti; la pace ha numerosi significati, e non sempre è
sinonimo di vita serena e rispetto dei diritti umani.
Tutte queste riflessioni, che sono state trascurate nei capitoli precedenti
per ovvie necessità di analisi, trovano spazio nelle ultime righe, dando la
possibilità al lettore di valutare altri possibili punti di vista, offrendo
eventualmente lo spunto per un ragionamento più “profondo”, che non si
fermi alle analisi grafiche delle pagine appena lette.
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Capitolo primo
La ricostruzione dai conflitti armati nei
Paesi in via di sviluppo
“Una guerra può anche essere giusta,
può anche essere condotta
in difesa dei diritti umani…
ma il suo risultato non cambia”
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Capitolo Primo .
1.1 Cause delle guerre nei PVS
Solo negli anni ottanta e novanta del nostro secolo si sono calcolati, per
ogni anno, rispettivamente trenta e quaranta conflitti armati. Questo ha
portato lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) a
definire questi "conflitti armati" come combattimenti prolungati tra forze
militari di due o più governi, o di un governo e un gruppo armato, che
implicano l'uso di armi e sfociano in decessi, legati agli scontri, di circa
1000 persone durante l'intero conflitto.
Eventi del genere impressionano il modo di pensare e accettarne
definizioni è difficile, ma allo stesso tempo è l’unico modo per condurre
un’analisi approfondita ed imparziale del problema.
I pesanti problemi fronteggiati da tutti quei paesi che sono stati scenario
di guerre e, tanto per citare dei casi piuttosto recenti e a noi vicini, l'Est
europeo e l'Ex Unione Sovietica, ci portano inevitabilmente a cercare dei
paralleli con altre precedenti esperienze. Quando è accaduto ad altri Paesi
nella recente esperienza storica di trovarsi davanti a simili problemi di
ricostruzione delle proprie economie; come si sono posti questi Paesi di
fronte alla sfida; ma soprattutto, quali lezioni possiamo trarne per le
presenti esperienze?
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Questa ricerca di paralleli e di "ricorsi storici" è, a mio parere, un
desiderio e un metodo abbastanza diffuso tra gli studiosi; tuttavia le
caratteristiche della ricostruzione postbellica in molti paesi non combacia
del tutto, variando nei problemi e di conseguenza anche nell'approccio di
analisi. Resta comunque interessante fare luce su alcune dimensioni in cui i
paragoni risultano fondati e possono essere utili ai nostri fini; i quesiti più
ricorrenti a tale proposito sono:
ξ qual è stato il ruolo relativo del governo e del mercato;
ξ qual è stato il ruolo dell'apertura economica: convertibilità, libero
scambio;
ξ qual è stato il ruolo relativo della conversione industriale dalla
produzione in tempo di guerra alla produzione in tempo di pace,
dell'attuale ricostruzione, dopo le distruzioni della guerra, delle nuove
strutture produttive;
ξ qual è stato il ruolo delle istituzioni, del comportamento e delle
attitudini della forza lavoro;
ξ qual era la composizione delle imprese, la loro dimensione, lo staff
operativo;
ξ qual è stato il ruolo delle misure politiche di controllo esterno, delle
risorse disponibili, e dell'ambiente esterno in generale.
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Prima di addentrarci nell'analisi "postbellica", e di quello che potrebbe
essere uno schema di ricostruzione efficace, e capace di costituire una
solida base su cui questi Paesi, di cui il più delle volte non rimane nulla,
possano poggiare l’attività di ricostruzione del loro paese, è importante
capire quali siano le origini della distruzione stessa, i contrasti e gli errori
che hanno portato allo scontro, valutare le perdite. Solo su queste
fondamenta è possibile poggiare i pilastri che permettono in seguito al
Paese di continuare la crescita in autonomia.
I conflitti in genere, secondo l’analisi di Macrae
1
, sono riconducibili
essenzialmente a due tipologie:
“esistono innanzitutto le battaglie ideologiche, dove due forze
militari contendenti sono legate alle popolazioni di civili secondo
un impegno politico. La seconda tipologia riguarda conflitti più
frammentati, dove la violenza diventa decentralizzata e si ricorre
ad una economia politica di sfruttamento.
Le due categorie di conflitto non sono tuttavia esclusive l'una dell'altra,
anzi è molto probabile che una battaglia iniziata sotto la spinta di una forte
ideologia porti ad una frammentazione politica tale che, in seguito, resti
ben poco dell'ideologia di partenza.
1
J. Macrae, A. Zwi, A. Forsythe (1995).
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In maniera simile, quando parliamo delle cause della guerra non si può
generalizzare: vero è che il casus belli è solitamente una rivolta
studentesca, uno sciopero di lavoratori o una qualsiasi manifestazione più o
meno pacifica e a cui il governo reagisce con la forza; tuttavia le
motivazioni che conducono un paese al conflitto non sono riconducibili a
queste poche manifestazioni di violenza, ma devono essere ricercate nella
situazione politica e sociale molto tempo prima dello scoppio del conflitto
stesso. Si può quindi affermare che ogni guerra è un fenomeno a sé stante.
In questo senso Carolyn Nordstrom
2
invita a puntare l'attenzione,
quando si lavora sul raggiungimento della pace di lungo termine, non solo
sulle manifestazioni fisiche della violenza; piuttosto bisognerà
comprendere e inserire nel quadro di analisi tutte le alleanze, gli
antagonismi, le disuguaglianze tra gruppi di popolazione o tra aree
geografiche, la militarizzazione del territorio, gli sbilanciamenti strutturali
macroeconomici; in poche parole tutte le cause sottostanti il conflitto. Solo
in questo modo si potrà sperare che gli scontri violenti non continuino ad
esplodere ancora ed ancora.
Pur comprendendo che ogni guerra è riconducibile a motivazioni
proprie, diverse da caso a caso, e non generalizzabili, non è escluso che si
possano riconoscere alcune caratteristiche di fondo che accomunano più
paesi, e possono essere attribuite come cause dello scoppio di un conflitto:
2
C. Nordstrom (1994).
19
1. L'eredità coloniale. Gli stati coloniali erano solitamente imposti con la
forza e l'inganno, con ben poche radici tra la popolazione autoctona
delle regioni colonizzate. In questo processo, le autorità coloniali
spesso ricorrevano alla violenza e all'autoritarismo legale per ottenere
obbedienza. Il risultato è che, oggi, le strutture statali create dopo
l’indipendenza, restano un po’ più radicate nella popolazione, a
differenza degli stati coloniali, che ancora, a distanza di tempo,
vengono percepiti come strutture esterne, imposte dall’alto e in maniera
forzata. Gli stati “post-indipendenza” hanno tuttavia ereditato ed
abbracciato gli strumenti coloniali di violenza, e li hanno usati per
terrorizzare e soggiogare le loro popolazioni.
2. Etnicità e religione. Questo tipo di conflitti ha proliferato in tempi
relativamente recenti - alcuni esempi ne sono l'Armenia, Azerbaijan,
Bhutan, Etiopia, Georgia, Iraq, Sri Lanka, e l'Ex Jugoslavia. L'identità
etnica è stata enfatizzata come un dogma cruciale in questi recenti
conflitti civili; non va inoltre sottovalutato che alcuni "conflitti etnici"
affondano le loro radici nella storia della formazione degli stati
coloniali, durante la quale le classi sociali erano categorizzate secondo
linee etniche e ad alcuni gruppi etnici erano riservati trattamenti
preferenziali, mentre altri gruppi erano invece discriminati e
subordinati. Con riferimento a tale aspetto, il colonialismo ha
accentuato le rivalità etniche pre-coloniali ed ha gettato le fondamenta
per odi e ingiustizie di lungo termine; a questo si aggiunge una
situazione politica incerta degli stati in questione, certamente non in
grado di impedire l’imposizione coloniale;
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3. Diversi livelli di sviluppo. All'interno di numerosi Paesi c'è spesso una
ineguale e iniqua distribuzione geografica delle attività economiche,
modernizzazione, ricettività ai cambiamenti e all'innovazione. Edward
Kiddu-Makubuya fa notare che "queste diversità coesistono con le
diverse visioni sociali e del mondo, e creano un'atmosfera sociale piena
di complessi di inferiorità, sentimenti di ansia e discriminazione, che si
traducono facilmente in conflitti violenti".
4. Povertà. La povertà può essere allo stesso tempo causa ed effetto di
violenza strutturale. Ancora nelle osservazioni di Kiddu-Makubuya
viene spiegato che Governi con tendenze violente non mancano di
seguaci il cui denominatore comune è l'opportunismo economico e il
desiderio di guadagno; ciò li porta ad armarsi nella speranza di ottenere
in questo modo giustizia economica e politica.
5. Leadership carente. Miopia politica, chiusura mentale sono le critiche
spesso rivolte ad alcuni leaders; questi il più delle volte si sono
comportati come veri e propri capotribù, dediti alla pratica della
violenza come legittimo strumento di politica. Analogamente per la
loro sopravvivenza politica questi leaders hanno dovuto dipendere non
dal supporto del popolo, ma dagli agenti militari e paramilitari.
6. Interessi esteri. Con l'uscita delle autorità coloniali molti PVS sono
stati lasciati con economie orientate all'esterno, basate sulla produzione
di prodotti primari e l'importazione di manufatti dai Paesi colonizzatori.
Questo ha ovviamente creato lo spazio in cui si sono inseriti gli
interessi di altri Paesi. Inoltre i poteri esteri sono spesso intervenuti
direttamente nei conflitti interni, fornendo armi e altri strumenti di
violenza, incentivando quindi l’inasprirsi dei conflitti, e il loro
trasformarsi in vere e proprie guerre.
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7. Militarismo. Non significa semplicemente la presenza militare nell'area;
si riferisce piuttosto all'influenza dei valori, delle ideologie e delle
strutture di comportamento militare sugli affari politici, sociali,
economici ed esteri dello stato. L'assenza di pace a volte crea un vero e
proprio circolo vizioso, e qui le parole del Segretario Generale delle
Nazioni Unite, Boutros Ghali
3
, guidano la nostra riflessione su come, in
queste condizioni, le società coinvolte sono portate a destinare una gran
parte del loro budget alle attività militari, piuttosto che agli investimenti
in attività di sviluppo, sanità ed educazione. D'altra parte però la
mancanza di sviluppo e di istituzioni sociali contribuisce all'inasprirsi
delle tensioni internazionali e al bisogno del potere militare.
Per le società cadute in questo circolo è difficile, successivamente,
uscirne da sole.
8. Sviluppo politico e dello stato. Restare ad un basso livello di coscienza
politica può portare a livelli di ingenuità tra la popolazione, ma anche
alla mancanza di percorsi credibili per articolare in maniera sistematica
gli interessi sociali dalla parte delle istituzioni, e nessuna
organizzazione politica capace di fronteggiare i conflitti violenti.
Secondo Soedjamoko
4
i cambiamenti sociali ed economici che
intervengono in questi paesi, che spesso presentano un insufficiente
sviluppo politico, possono essere essi stessi fonte di instabilità; e i
conflitti molto spesso derivano dall’incapacità di gestire i cambiamenti,
o di comprenderli, e da percezioni contraddittorie dei cambiamenti
stessi.
3
B. Boutros Ghali (1992).
4
Soedjamoko (1987).