Parte Generale
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legislazione francese avrebbe reso possibile la non uscita
dei capitali finanziari e, con ogni probabilità, richiamato
in Francia capitali stranieri
In ogni caso, la Convenzione dell’Aja e il suo
riconoscimento ha posto sotto gli occhi dell’operatore di
civil law un’istituto che tradizionalmente era sconosciuto
al nostro sistema. Quello che interessa al nostro lavoro
non è tanto l’annosa questione civilistica su quanto il
trust potesse essere contrario ai principi del nostro
ordinamento, quanto avere l’occasione di capire le
motivazioni che hanno spinto gli operatori a redigere
una Convenzione in materia di trusts analizzandone i
suoi contenuti e tenendo ben in considerazione i
problemi che si sono dovuti affrontare, soprattutto, visto
il carattere universale che si è attribuito alla stessa e
vista la “distanza”delle due scuole di common law e di
civil law, che si sono trovate per l’occasione intorno allo
stesso tavolo.
Scopo dell’opera é dunque, più che una descrizione
dell’istituto e delle sue problematiche, un esame analitico
del tratti salienti della Convenzione e dei problemi tipici
affrontabili in ambito internazionalprivatistico con
particolare riguardo alle problematiche attinenti i limiti
della’autonomia privata.
Sanremo, ottobre 1998.
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1 – ORIGINI E FINALITA’ DELLA CONVENZIONE
DELL’AJA DEL 1985
Durante i lavori della conferenza dell’Aja agli inizi
degli anni ’80, i delegati segnalarono la necessità
prioritaria di elaborare uno strumento di natura
convenzionale che consentisse di superare le
problematiche connesse al riconoscimento
1
nonché
all’individuazione della legge applicabile in materia
di trust, istituto assai diffuso e conosciuto negli
ordinamenti di common law, ma pressoché ignoto in
tutti gli altri.
Durante i lavori, è risultato chiaro che l’oggetto
della Convenzione era sostanzialmente quello di
permettere ai trusts costituiti nei paesi di common
law di operare nei paesi di civil law; la Convenzione
che ne è risultata non ha seguito gli schemi tipici
1
L’accezione di riconoscimento accolta nella Convenzione del 1985, deve essere intesa nel
senso della possibilità di attribuire efficacia ad un rapporto giuridico di carattere sostanziale
sorto in un ordinamento diverso da quello in cui si vuole che se ne producano gli effetti. Si
rende opportuno fare tale precisazione, in quanto a livello internazionale il riconoscimento
è comunemente riferito a provvedimenti giurisdizionali o amministrativi ai quali si vuole
attribuire efficacia all’interno dell’ordinamento del foro.
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delle precedenti redatte all’Aja
2
perché il suo nucleo
centrale non è costituito dalla predisposizione di
norme di conflitto uniformi, (ossia che stabiliscono
le regole di diritto internazionale privato attraverso
le quali i Giudici devono giungere a identificare il
sistema giuridico da cui ricavare la norma idonea a
disciplinare la fattispecie) quanto nel
riconoscimento da parte di un paese firmatario degli
effetti di un meccanismo giuridico ancorchè esso sia
estraneo al suo sistema tradizionale.
Infatti le norme di diritto internazionale privato in
materia di trust, appartengono tutte all’esperienza
dei paesi di common law e sebbene esistano alcune
difformità tra esse, le divergenze non appaiono tali
da giustificare la stesura di una Convenzione con
apposite norme di diritto internazionale privato
uniforme. In realtà, la parte rilevante della
Convenzione è quella relativa al riconoscimento e
non certo quella relativa alle regole di conflitto e i
paesi di common law, vista la loro tradizionale
2
Secondo l’art. 1 dello statuto in vigore dal 15 luglio 1955: “La Conférance de la Haye a
pour but de travailler à l’unification progressive des règles des droit international privé”
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conoscenza del trust, non traggono dalla
Convenzione alcuna novità giuridica degna di
rilievo. La Convenzione dell’Aja sul riconoscimento
degli effetti dei trusts, benché presenti le
particolarità sottolineate, rimane una Convenzione
in tema di conflitti di leggi e non ha affatto inteso
trasformarsi in una Convenzione di diritto uniforme
e la cura con cui è stato redatto l’art. 13 in materia
di riconoscimento testimonia lo sforzo dei vari
comitati, uniformemente diretti ad evitare che in
conseguenza della adesione alla Convenzione il
trust divenisse strumento efficace a disposizione
della pratica degli affari in un paese non trust.
Nel nostro paese, dunque, come in tutti quelli di
civil law, il riconoscimento è ammesso nei limiti
dettati dall’art. 13 della Convenzione e non si tratta
quindi di uno strumento che possa essere utilizzato
liberamente dai cittadini o dalle organizzazioni
economiche dei paesi non trust. Ciò ovviamente per
due ragioni: innanzitutto perché un simile risultato
era al di fuori delle funzioni statutarie della
Conferenza e dei poteri dei delegati, in secondo
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luogo perché era evidente agli esperti ed ai delegati
dei paesi partecipanti alla quindicesima sessione che
il trust non può collocarsi nel vuoto normativo; ma
questo sarebbe stato esattamente quello che sarebbe
avvenuto se il meccanismo del trust fosse stato
surrettiziamente importato in un paese non trust.
La Convenzione non ha, e non potrebbe allo stato,
se non al limite come aspirazione inespressa, la
funzione di disciplinare e di eleggere il trust
uniforme. La finalità della Convenzione è, invece,
quella della creazione di un canale idoneo, efficace
e sicuro, per lo scambio dei trust tra i Paesi,
meccanismo che – nella catena della armonizzazione
giuridica – è solo un prodromo, sia pure necessario,
per la formazione del trust uniforme, se e quando vi
sarà. Ma la creazione di un canale è già in grado di
far funzionare gli ingranaggi degli interscambi
consente in più ai singoli Paesi di conservare le
peculiarità dell’istituto storicamente e localmente
affermatesi.
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Questa è, pertanto, la presumibile ragione di una
poco marcata somatizzazione convenzionale
dell’istituto, da molti indicata come “trust amorfo”,
realizzata con l’indicazione di tratti generali e
comuni mutuati dai vari trusts appartenenti alle
esperienze dei diversi Paesi.
I trusts rappresentano una amplificazione
giuridica capace di soddisfare in modo puntuale le
esigenze della grossa e media imprenditoria,
insoddisfatta del mercato interno, e – in
macroeconomia – le necessità dei Paesi, ben
assestati economicamente, di espandere il raggio
d’azione e di influenza (da un lato) e di attirare
grossi capitali (dall’altro).
Per tali ragioni l’effetto espansivo garantito al
“trust uniforme o convenzionale”, nel senso di trust
le cui caratteristiche corrispondono a quelle
delineate dalla figura di trust accolta nella
Convenzione, lo rende di gran lunga preferibile al
trust “non convenzionale”.
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Conseguentemente è facile intuire l’effetto
naturale derivante dalla elencazione dei dati
somatici del “trust convenzionale”: tanto i Paesi che
lo hanno già come istituto giuridico interno, quanto
quelli (come l’Italia) che non dispongono di norme
statali regolatrici subiranno una indiretta influenza
dalla figura di trust accolta nella Convenzione, in
quanto le garanzie internazionali offerte da essa
indurranno i legislatori, a seconda dei casi, a
riformare o a modellare il trust nazionale sullo
schema Convenzionale e, nel lungo periodo, a
convergere uniformemente su un istituto dotato di
sufficienti note di tipicità.
Prima della Convenzione, un settlor di nazionalità
inglese che (per varie ragioni di natura legislativa,
fiscale) trasferiva in Inghilterra beni ad un trustee
inglese optando, però, per la legge – ad esempio –
olandese quale normativa per la disciplina del
rapporto, doveva esaminare la disciplina interna
inglese per accertare l’ammissibilità e la validità
dell’opzione; e cosi di volta in volta.
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La Convenzione del’Aja ha risolto il problema
avocando a sé, in primo luogo, la disciplina della
qualificazione del rapporto e, in secondo luogo,
legittimando una volta per tutte, la validità
dell’opzione.
Di più, oggi il cittadino italiano è ammesso ad
effettuare la scelta di cui sopra, anche se non potrà
scegliere la legge italiana perché inesistente.
E’ bene, tuttavia, puntualizzare e lo fa del resto
anche la Convenzione, che l’opzione non comprende
l’intero ordinamento richiamato, bensì soltanto le
norme regolatrici del rapporto di trust, e nemmeno
tutte: per la precisione soltanto quelle di cui all’art.
8 della Convenzione che, comunque, dovranno
cedere il passo, ove confliggenti, a quelle
riguardanti materie oggetto di particolare tutela
(art.15, Conv.) o nei casi di contrasto con l’ordine
pubblico.
Appare evidente, pertanto, come la Convenzione
non scardini alcun ordinamento ma acquisti il valore
(per i Paesi che conoscono l’istituto) di una limitata
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e parziale deroga normativa e per quelli che ancora
non hanno provveduto a dotarsi di opportune
deroghe interne (o non intendono farlo) l’effetto di
una provvidenziale quanto opportuna ciambella di
salvataggio che consente l’operatività immediata dei
trusts, sia pure con qualche attenzione.
Conseguenza ultima dell’operatività della
Convenzione è certamente ravvisabile nella
creazione di un canale automatico per il
riconoscimento dei “trusts convenzionali” anche in
Paesi diversi da quello di creazione.
La scelta dello strumento pattizio garantisce
sicurezza del riconoscimento costituendo altresì
incentivo determinante per l’affermazione
dell’importante meccanismo giuridico, soprattutto
se si tiene conto del fatto che il riconoscimento
prescinde dall’esistenza, all’interno dello stato in
cui si vuol far valere, dell’istituto del trust.
Quest’ultima circostanza ci porta alla conclusione
che l’operatività della Convenzione non è
subordinata ad ulteriori obblighi istituzionali degli
stati ratificanti, primo fra tutti quello di emanare
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ulteriori norme interne disciplinanti i trusts, e
qualifica l'importante documento internazionale
come efficace strumento per l’espansione e
l’arricchimento del corredo giuridico dei Paesi tanto
di common law quanto di civil law.
Analizzando gli atti della xv sessione della
conferenza dell’Aja, riscontriamo un interessante
dialettica tra i rappresentanti di ordinamenti civil
law e quelli di ordinamenti common law, la cui
considerazione ci aiuta a comprendere i problemi e
le questioni che hanno contraddistinto la
progressiva stesura del documento convenzionale e
le sue reali finalità, non sempre chiare e spesso non
prive di aspetti contraddittori.
Infatti una delle linee guida dell’interpretazione
della Convenzione deve tener conto di questa
dialettica, prodotta sulla base dell’istintiva
avversione civilistica verso una figura percepita
come anomala e minatoria, contro il desiderio dei
common lawyers di soddisfare i rappresentanti di
ordinamenti di civil law, il consenso dei quali era
necessario affinché la Convenzione prendesse
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forma.
3
La contrapposizione tra due scuole, quindi,
dà luogo ad una struttura delle discussioni che può
essere brevemente descritta come la necessità per
gli ordinamenti civilistici di difendersi dai trusts: il
trust, si dice, sovverte il sistema dei diritti reali.
Accettare nel nostro Paese il riconoscimento del
trust secondo i requisiti convenzionali, presuppone
l’erezione di barriere e di una serie di percorsi
obbligati. Questa, peraltro non fu la posizione
adottata dal delegato italiano
4
il quale si mosse in
senso inverso alla contrapposizione, manifestando
l’idea che i trusts puramente interni non
coinvolgono questioni di norme inderogabili o di
ordine pubblico
5
; essi possono ben essere ben
3
I delegati di Common law spesso proposero l’impiego di espressioni che, a loro parere,
sarebbero state più intellegibili dai civilisti; v., per esempio, il momento in cui il delegato
statunitense sostenne che non c’è differenza fra “transfer” e “place under the control” (si
tratta del momento centrale della nozione di trust: il trasferimento al trustee), ma che la
seconda espressione sarebbe meglio compresa dagli ordinamenti civilisti. La differenza,
ovviamente, esiste e l’adesione alla proposta statunitense contribuì a far venire in essere la
figura del trust amorfo.
4
Il prof. Antonio Gambaro.
5
Per “trusts interni” s’intendono quelli i cui dati obiettivi sono riferiti a un solo
ordinamento (nell’ipotesi quello italiano). Per “dati obiettivi” s’intendono quelli rispetto ai
quali non può influire il soggetto che istituisce il trust (per esempio, il luogo de beni, la
cittadinanza del disponente o dei beneficiari)
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“clean and moral”; volerli o meno è allora una
questione di opportunità.
6
Questa visione, distensiva oltre che
comparatisticamente corretta, non fu seguita e i
common lawyers mantennero regolarmente un
atteggiamento condiscendente nei confronti dei
civilisti. Quest’approccio trovò la propria
concretizzazione in sede istituzionale nella
trasformazione della Convenzione in un libro di
testo appositamente indicante per i civilisti, in cosa
consiste il riconoscimento di un trust.
Dietro questa finalità chiaramente pedagogica se
ne rileva un’altra: il riconoscimento dei trusts, al
principio identificati, nel c.d trust anglo-americano.
Giustamente fu rilevato quale fosse il corrispettivo
per i paesi civilisti che assumevano obbligazioni
(riconoscere i loro trusts, determinazione della
legge regolatrice secondo i criteri convenuti) nei
confronti di quelli di common law, ma vennero così
individuati due corrispettivi: l’apprendimento di
6
Il prof. Maurizio Lupoi sottolineando come i trusts consentano di raggiungere risultati
non attingibili altrimenti. Trusts, Milano, 1996, pag.453 ss.
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cosa sia un trust e l’ottenimento di un sistema di
regole sull’individuazione della legge applicabile ai
trust, delle quali i paesi civilisti erano privi.
Forse, fu rilevato, i paesi civilisti erano privi di
quel sistema perché non ne avevano alcuna necessità
e inoltre i trust anglo-sassoni già erano riconosciuti
negli ordinamenti civilistici nei quali il problema si
fosse posto(numerosa giurisprudenza italiana,
svizzera, francese, tedesca, che si è pronunciata in
favore del riconoscimento). La realtà era che per i
common lawyers il raggiungimento di regole
uniformi sui conflitti di legge in materia di trusts,
era un obiettivo di primaria importanza e sembra
strano che se ne siano resi conto solo nel corso dei
lavori, dato che la dottrina e la giurisprudenza degli
ordinamenti di common law brancolavano nel buio e
si era levato un coro di lamentele per lo stato
deplorevole del diritto
7
.
7
Numerose citazioni dimostrano l’arretratezza degli ordinamenti comon law nella materia
internazional privatistica. Qui di seguito quelle di alcuni Autori: E. RABEL sottolinea in
The Conflict of Law, Ann Arbor, 1958, pag 445-446, l’elevato grado di incertezza delle
règole di conflitto in materia di trusts, la mancanza di precedenti affidanti e la profonda
insoddisfazione dei tentativi giudiziari di sistemazione della materia. R.H. GRAVESON
afferma in Conflict of Laws, London, 1974, pag. 530, che le regole di conflitto sui trusts
sono in grande misura incerte e incomplete. D.W.M WATERS, Constructive Trust,