Questa è d’altronde la stessa situazione disegnata dal Trattato i-
stitutivo della CECA del 1951: secondo gli artt. 2 e 3, obiettivi
comunitari erano «l’incremento dell’occupazione» ed «il miglio-
ramento del tenore di vita degli Stati membri». Alle Alte Autorità
era attribuito il compito, fra gli altri, di «promuovere il miglio-
ramento delle condizioni di vita e di lavoro della mano d’opera,
permettendone l’uguagliamento nel progresso». Tali previsioni
erano però contemporaneamente vanificate dalla mancanza di re-
ali strumenti normativi d’attuazione e dall’esclusione di un livel-
lo sovranazionale nella competenza in materia sociale.
Anche nel Trattato di Roma si rinviene così, quale unica eccezio-
ne alla competenza degli Stati nella legislazione sociale, la possi-
bilità di intervenire attraverso raccomandazione nel caso in cui la
concorrenza risultasse falsata da livelli salariali «anormalmente
bassi»
2
. In effetti, gli strumenti giuridici più incisivi, cioè il rav-
vicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed am-
ministrative, potevano essere utilizzati soltanto laddove l’azione
riequilibratrice automatica del trattato non avesse operato e «nel-
la misura necessaria al funzionamento»
3
di quest’ultimo. Così,
nonostante la solenne proclamazione dell’importanza della poli-
2
Vedi l’art. 92, comma 3 del Trattato CEE del 1957.
3
Tale condizione è imposta all’azione comunitaria dall’art. 3, lett. h) del Trattato CEE del
1957.
tica sociale, presente nel Preambolo e negli artt. 2 e 3 del Trattato
CEE, è stato affermato come tali dichiarazioni programmatiche
rappresentassero in realtà un’azione politica soltanto «indiretta»
4
.
Nel corso degli anni ’50 e ’60 si erano già presentate tuttavia al-
cune istanze, riconducibili ad un ambito di politica sociale comu-
nitaria: le politiche di sostegno all’impiego e di regolazione del
mercato del lavoro da una parte, e la conseguente armonizzazio-
ne delle normative sociali dei paesi membri. Il periodo in esame
vede la nascita della prima normativa sulla libera circolazione
della manodopera che, pur tra le molte difficoltà di applicazione,
costituisce sia una traccia da seguire da parte degli attori istitu-
zionali e collettivi coinvolti in questa tematica, sia, a livello più
generale, una «fase di ricerca e incubazione per altri temi della
(futura) Europa sociale»
5
.
La Commissione testa in questi anni le prime sperimentazioni di
consultazioni delle parti sociali, sia all’interno dell’ambito istitu-
zionale del Comitato Economico e Sociale, sia in quello, non
previsto dal Trattato, di commissioni bilaterali paritarie apposi-
tamente istituite
6
. Trova così origine «un principio consuetudina-
rio comunitario, in base al quale le politiche sociali debbono ri-
4
PILATI, Problemi della contrattazione collettiva europea, Riv. Dir. Lav., 1992, I, 373-
374.
5
ZILIO GRANDI, Parti sociali e contratto collettivo nell’Unione Europea, Giappichelli,
Torino, 1998, 9-10.
6
Vedi infra, § 1.2.
sultare da una consultazione fra le parti, sindacati ed associazioni
imprenditoriali, ai vari livelli, nazionale ed europeo»
7
.
Riguardo al tema delle condizioni di lavoro negli Stati membri,
di particolare interesse risulta una ricerca sollecitata dalla Com-
missione e che prende a riferimento il periodo che va dal 1961 al
1969, che punta a stabilire in quale misura l’integrazione econo-
mica comunitaria rendesse necessaria una disciplina unitaria del-
le condizioni di lavoro a livello di contrattazione collettiva e qua-
li possibilità giuridiche sussistessero di stipulare contratti collet-
tivi europei.
L’idea che sottostava a tale studio era che, mancando al tempo
un’armonizzazione fra Stati membri sul livello dei salari e quindi
dei costi di produzione, la prospettiva di incidere almeno su alcu-
ni di questi parametri chiave, attraverso una contrattazione che
coinvolgesse la maggior parte degli stessi paesi, avrebbe giovato
senza dubbio alla riduzione delle distorsioni della concorrenza
nel Mercato comune
8
.
La proposta scaturita da questa ricerca non ebbe peraltro alcun
seguito immediato, a causa probabilmente dell’impreparazione
7
ROCCELLA – TREU, Diritto del lavoro della Comunità Europea, CEDAM, Padova,
1992, 14.
8
SCHNORR, I contratti collettivi in un’Europa integrata, Riv. It. Dir. Lav., 1993, I, 319-
320.
dei vari governi ad affrontare un tema di tale portata così presto
9
.
Ancora una volta quindi, istanze di politica sociale cominciano
ad affacciarsi sullo scenario comunitario, passando sempre attra-
verso il filtro “economicistico”, ovvero l’idea di base sottesa alla
grande costruzione europea. Negli anni ’70 sono i progressi
compiuti nei singoli Stati membri nel campo delle riforme socia-
li, invece del “circolo virtuoso” che avrebbe dovuto innescare il
Mercato unico, ad influenzare favorevolmente l’attività degli or-
gani comunitari in materia. Durante il Vertice di Parigi del 1972
e nel successivo programma d’azione sociale del 1974, si prende
infatti atto, avvertendo anche i primi segni dell’incipiente crisi
economica, che «l’aumentata prosperità della Comunità non ave-
va in realtà risolto i problemi sociali
10
, anzi talvolta li aveva addi-
9
La proposta contemplava infatti «un progetto graduale, secondo cui le parti sociali nei sin-
goli Stati membri avrebbero dovuto in un primo momento stipulare contratti collettivi del
medesimo contenuto, sulla base delle indicazioni degli organismi di vertice europei dei
sindacati dei lavoratori e delle organizzazioni dei datori di lavoro. Obiettivo finale sarebbe
stata la formazione di “commissioni europee” per la contrattazione collettiva, che avrebbero
dovuto determinare il contenuto dei contratti collettivi europei, la cui applicazione sarebbe
dovuta avvenire tuttavia in conformità alla disciplina propria di ciascun singolo ordinamen-
to giuridico. Mancando dunque, nella stesura originaria del Trattato CEE, una espressa re-
golamentazione della partecipazione sociale, all’epoca i contratti collettivi europei avrebbe-
ro dovuto essere stipulati sulla base di quanto autonomamente disposto dalle parti sociali».
Così SCHNORR, op. cit., 320.
10
E’ indispensabile sottolineare in questo settore il fallimento di alcune iniziative comuni-
tarie:la V direttiva sulla partecipazione dei lavoratori negli organi delle imprese (prima pro-
posta del 1972, riformulata nel 1983 – in GUCE 9 settembre 1983, C/240); a)la direttiva
sulla Società per Azioni Europea che prevedeva forme partecipative dei lavoratori (prima
proposta del 1970, riformulata nel 1989 – in GUCE 16 ottobre 1989, C/263); b)la cosiddet-
ta direttiva Vredeling sull’informazione e consultazione dei lavoratori nelle società multi-
nazionali (prima proposta del 1980, riformulata nel 1983 – in GUCE 9 settembre 1983,
C/249).A proposito di quest’ultima, «il fallimento del progetto di direttiva Vredeling, che
tanto influenzò in quegli anni la fantasia - e molto limitatamente la pratica - dei legislatori
nazionali, in tema di partecipazione dei lavoratori agli organi dell’impresa, dimostra, a di-
rittura acutizzati, e che un’azione vigorosa nel campo sociale ri-
vestiva un’importanza pari a quella della realizzazione
dell’unione economica e monetaria. Apparve così indispensabile
pervenire anche ad una crescente partecipazione delle parti socia-
li alle decisioni economiche e sociali della Comunità ed alla con-
clusione di contratti collettivi europei nei settori più idonei, al fi-
ne di poter regolare nel loro ambito le questioni di rilievo comu-
nitario»
11
.
Tali esigenze sono acutizzate dalla difficile situazione economica
scaturita dal secondo shock petrolifero: era quest’aspetto che in-
fluenzava maggiormente le politiche sociali e l’attuazione degli
obiettivi programmati. In effetti, «la dimensione sociale appariva
ancora troppo soggetta alle turbolenze internazionali e agli an-
damenti delle economie mondiali perché si potesse parlare di un
effettivo mutamento del suo ruolo nel processo di integrazio-
ne»
12
.
Così, navigando in acque agitate, la politica sociale europea cre-
sce insieme alla consapevolezza degli Stati membri che questa
stanza di tempo, la scarsa propensione della Comunità ad avallare programmi di creazione e
consolidamento di diritti privi di un solido collegamento con le esigenze delle imprese».
SCIARRA, Il dialogo fra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale del lavoro: la
contrattazione collettiva, in A.I.D.LA.S.S, Il dialogo fra ordinamento comunitario e ordi-
namento nazionale del lavoro, Giuffrè, Milano, 1994.
11
PILATI, Problemi della contrattazione collettiva europea, Riv. Dir. Lav., 1992, I, 373.
12
ZILIO GRANDI, Parti sociali e contratto collettivo nell’Unione Europea, Giappichelli,
Torino, 1998, 12.
fosse essenziale per lo sviluppo e la competitività mondiale
dell’Europa stessa.
Si arriva così al 1987. Con l’Atto Unico Europeo, si assiste ad un
rilancio, almeno sulla carta, delle istanze appena citate: si cerca
così di approfittare della crescita mondiale per imprimere
un’accelerazione al processo di integrazione, tanto economica
quanto sociale. Peraltro, diversi autori si dichiarano ancora in-
soddisfatti per la scarsa incidenza di cui i provvedimenti sulla po-
litica sociale sembrerebbero portatori: la mancanza, infatti, di
contenuti direttamente sociali evidenzia come «lo stimolo
dell’innovazione e il centro di interesse» fossero ancora econo-
mici
13
.
È piuttosto ai Consigli Europei di Hannover (1988) e Madrid
(1989) che si introdusse il termine “spazio sociale europeo”, al-
lorquando si ribadì, forse con maggiore convinzione, che la stra-
13
ROCCELLA – TREU, Diritto del lavoro della Comunità Europea, CEDAM, Padova,
1992, 18.
Ancora, secondo SCIARRA, op. cit., in A.I.D.LA.S.S, Il dialogo fra ordinamento comuni-
tario e ordinamento nazionale del lavoro, Giuffrè, Milano, 1994, «le modifiche apportate
dall’Atto unico europeo non invertono del tutto (la rotta precedente). Ancora una volta, i
riformatori si occupano del mercato, con il garantire la libertà di circolazione delle merci,
delle persone, dei servizi e dei capitali. Le decisioni a maggioranza qualificata si fermano
alle soglie dell’art. 100 A, par. 2, poiché non riguardano la libera circolazione delle perso-
ne, né i diritti e gli interessi dei lavoratori dipendenti. Questa misura, intesa a salvaguardare
i cardini della comunità economica, proteggendoli sotto la regola delle delibere adottate al-
l'unanimità, si è rivelata un ostacolo insormontabile nello sviluppo delle politiche sociali.
L'incertezza circa la base giuridica su cui fondare le proposte di direttiva si è manifestata in
tutta la sua gravità nell'attuazione del Programma di azione della Commissione - adottato
nel 1989 - che avrebbe dovuto tradurre in norme i principi contenuti nella Carta dei diritti
sociali fondamentali, approvata nel dicembre del 1989 da undici stati membri, documento
di per sé non vincolante, se non in quanto dichiarazione solenne degli stati firmatari».
da più efficace per creare benessere e posti di lavoro per la mag-
gior parte possibile di cittadini comunitari era la realizzazione del
mercato interno. Tale dichiarazione obbligava così i partners eu-
ropei a porre tra le priorità in materia l’elaborazione di una “Car-
ta comunitaria dei diritti sociali fondamentali”. Quest’ultima,
com’è noto, vide poi la luce nel dicembre del 1989.
È peraltro interessante notare come questa proposta avesse già al
suo interno un embrione del noto principio di sussidiarietà
14
(de-
finito in questo caso da alcuni autori «orizzontale»
15
), in quanto il
raggiungimento degli obiettivi prefissati sarebbe stato lasciato
all’iniziativa degli Stati membri e delle parti sociali, cui spettava
la scelta tra strumento legislativo e contrattuale, mentre compito
14
Il principio, introdotto formalmente dall’art. 3 B del Trattato di Maastricht il 7 febbraio
1992, prevede che, «nei settori che sono di sua esclusiva competenza», la Comunità inter-
venga unicamente se e nella misura in cui gli obiettivi che le sono assegnati possono essere
realizzati meglio a livello comunitario che a livello degli stati membri, che operano isola-
tamente, in ragione delle dimensioni o degli effetti previsti dall’azione. Vedi SANTONI, Il
dialogo fra ordinamento comunitario e nazionale del lavoro: la legislazione, Dir. Lav. Rel.
Ind., n. 56, 1992, 676-679.
Si fa presente che non è certo questa la sede per approfondire un tale argomento, che ri-
chiederebbe in verità una trattazione a sé stante. Sui rapporti, in particolare, tra principio di
sussidiarietà e diritto comunitario del lavoro, si rimanda, fra gli altri, a ARRIGO, Principio
di sussidiarietà e politica sociale, Lav. Dir., 1995, 479; D’ANTONA, Chi ha paura della
sussidiarietà, Lav. Dir., 1994, 565; GUARRIELLO, L’Europa sociale dopo Maastricht,
Lav. Dir., 1992, n. 2, 223; LYON-CAEN G., Subsidiarité et droit social européen, DS,
1997, n. 4, 382; SANTORO PASSARELLI, Tendenze della politica sociale
nell’ordinamento comunitario, Dir. Rel. Ind., 1995, n. 2, 153; SIMITIS, Europeizzazione o
rinazionalizzazione del diritto del lavoro?, Dir. Lav. Rel. Ind., 1994, 639; TREU, L’Europa
sociale: dall’Atto Unico a Maastricht, Quad. Dir. Lav. Rel. Ind., 1991, X, 9; VENEZIANI,
Dal dialogo sociale alla contrattazione collettiva nella fase della trasformazione istituzio-
nale dell’Unione Europea, Riv. Giur. Lav., 1998, 239.
15
VENEZIANI, op. cit., 244; DEGIMBE, Il dialogo sociale europeo: da Val Duchesse a
Maastricht, in AA. VV., Protocollo sociale di Maastricht: realtà e prospettive, Not. Giur.
Lav., 1995, supplemento n. 12, 45.
della Commissione sarebbe stato quello di sorreggere tale pro-
cesso con il normale Programma d’azione.
La vera stagione dei cambiamenti si presenta nel 1992
16
, con il
Trattato di Maastricht, istitutivo dell’Unione
17
. Più in particolare,
per sviluppare il nostro argomento, ciò che dovremo prendere in
considerazione sarà un documento annesso
18
al Trattato stesso,
l’Accordo sulla Politica Sociale
19
(APS).
16
Secondo CARUSO, Processi reali e processi mentali nella costruzione dell’Europa so-
ciale: il caso della contrattazione collettiva, in ATTINA’ – VELO (a cura di), Dalla Co-
munità all’Unione Europea, Cacucci, Bari, 1994, 138-139, «il 1992 è stato considerato una
sorta di fatidica data in cui, sulla base del programma di azione sociale messo in cantiere
alla fine degli anni ’80, in attuazione della Carta comunitaria dei diritti sociali, si sarebbe
automaticamente consolidata la dimensione sociale dell’Unione Europea; ciò sarebbe avve-
nuto con l’assunzione di quelle misure istituzionali ed economiche in grado di controbilan-
ciare, definitivamente, le tendenze al dumping sociale che l’abbattimento delle barriere alla
libera circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali avrebbe portato con sé. Tale pro-
gramma si sintetizzava in cinque punti:
1. una intensificazione della politica e degli sforzi istituzionali per ottenere una real-
mente libera mobilità del lavoro nella Comunità;
2. una più ampia concertazione delle politiche pubbliche del mercato del lavoro fina-
lizzate a combattere la disoccupazione non frizionale ma di lungo periodo, con
connessi programmi di formazione e riqualificazione professionale;
3. un incremento dei fondi strutturali per ottenere maggiore coesione delle politiche
del lavoro e delle politiche industriali dei paesi ricchi e dei paesi poveri della Co-
munità;
4. la formulazione di una piattaforma di diritti sociali per impedire che l’accresciuta
competizione interna al mercato unico non finisca per indebolire quelle normative
di tutela del lavoro, aventi i caratteri della “astrattezza” e della “universalità”;
5. un significativo approfondimento del dialogo sociale tra organizzazioni sindacali
ed imprenditoriali di livello europeo allo scopo di facilitare e guidare il processo di
ristrutturazione delle relazioni industriali».
17
Sul terreno delle politiche sociali, la riforma è vista con ottimismo e grandi aspettative.
Secondo ROCCELLA – TREU, op. cit., 36, «lasciare senza controllo le tendenze alla di-
versificazione risulterebbe altamente rischioso dal punto di vista sociale ed anche economi-
camente controproducente: invero un’Europa senza politiche sociali ed economiche comu-
ni, squilibrata nei livelli dei redditi e dello sviluppo, difficilmente potrebbe competere
nell’agone mondiale».
18
Documento annesso «in una forma pudica, se non semiclandestina». LETTIERI, La
«frontiera» europea del sindacato, in LETTIERI – ROMAGNOLI (a cura di), La contrat-
tazione collettiva europea, Ediesse, Roma, 1998, 12.
19
L’APS è stato siglato da tutti gli Stati membri della Comunità Europea ad eccezione della
Gran Bretagna, che si è dichiarata contraria alle modificazioni delle disposizioni sociali del
Trattato.
Come avremo modo di esaminare successivamente
20
, è in questo
periodo che finalmente i temi di politica sociale assumono una
loro forza formale sulla ribalta europea. Il Protocollo di Maa-
stricht è infatti «il primo documento comunitario pienamente
consapevole della necessità di privilegiare il terreno dei rapporti
collettivi»
21
. Salta subito all’occhio che l’obiettivo della «coesio-
ne economica e sociale», rinvenibile già nell’art. 130A dell’Atto
Unico, assume qui la dignità di obiettivo primario, con lo scopo
specifico di ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie
regioni
22
.
20
In questa sezione della ricerca, di taglio storico-introduttivo, non verrà infatti approfondi-
to il presente argomento, che sarà invece analizzato con dovizia successivamente (infra,
capitolo III), insieme alle variazioni subite dallo stesso APS con l’incorporazione nel Trat-
tato di Amsterdam.
A questo punto, sono necessarie alcune precisazioni: come facilmente intuibile, il materiale
a disposizione sull’argomento è vastissimo, fatto che giustamente rispecchia l’importanza
delle innovazioni introdotte a Maastricht in questo ed altri campi. Nella nostra ricerca si è
scelto di privilegiare una lettura esclusivamente indirizzata all’analisi delle novità nel cam-
po della contrattazione collettiva e non già della politica sociale nelle sue accezioni più am-
pie.
Sono peraltro disponibili autorevoli commenti che analizzano approfonditamente entrambi i
fenomeni. Fra gli altri, l’ottima raccolta di LETTIERI – ROMAGNOLI (a cura di), La con-
trattazione collettiva europea, Ediesse, Roma, 1998; inoltre, ROCCELLA – TREU, Diritto
del lavoro della Comunità Europea, CEDAM, Padova, 1995; SIMITIS, Europeizzazione o
rinazionalizzazione del diritto del lavoro?, Dir. Lav. Rel. Ind., 1994, 639; GUARRIELLO,
Ordinamento comunitario e autonomia collettiva. Il dialogo sociale, Angeli, Milano, 1992;
SCHNORR, I contratti collettivi in un’Europa integrata, Riv. It. Dir. Lav., 1993, I, 319;
A.I.D.LA.S.S, Il dialogo fra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale del lavoro,
Giuffrè, Milano, 1994; AA. VV., Protocollo sociale di Maastricht: realtà e prospettive,
Not. Giur. Lav., 1995, supplemento n. 12.
21
ZILIO GRANDI, Parti sociali e contratto collettivo nell’Unione Europea, Giappichelli,
Torino, 1998, 15.
22
Da sottolineare come ora le possibilità di intervento nella rinnovata configurazione delle
competenze comunitarie spaziano dalla politica sociale vera e propria all’istruzione e for-
mazione professionale, dalla gestione del Fondo Sociale Europeo (FSE) alla cultura, dalla
protezione sociale ed ambientale alla promozione della ricerca, della cooperazione e della
diffusione delle informazioni.