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PREMESSA
Prima di entrare a far parte nelle grammatiche moderne delle „parti del discorso‟,
classi di parole accomunate dalle medesime proprietà funzionali, l‟articolo ha subito
nella tradizione grammaticale europea molteplici vicissitudini a causa del suo incerto
statuto teorico; la stessa unione concettuale di „articolo determinativo‟ e di „articolo
indeterminativo‟ come due diversi aspetti dello stesso elemento grammaticale è stata il
tardo risultato di un processo che ha visto a lungo separati il e la da uno e una.
Due sono i fattori determinanti di questa singolare vicenda. Il primo l‟influenza
della tradizione grammaticale latina su quella dei volgari romanzi, alla quale ha fornito
l‟assetto teorico e gli schemi classificatori. La tradizione grammaticale latina, epilogata
nell‟Ars grammatica di Elio Donato (IV sec.) e nei Commentariorum grammaticorum libri di
Prisciano (V sec.) – trasmessa, attraverso le compilazioni medievali e rinascimentali,
alle grammatiche delle lingue romanze (si parlerà ad esempio di casi e di declinazione
ancora nelle grammatiche dell‟Ottocento) –, non considerava l‟articolo, ignoto al latino
e la cui mancanza indica, rispetto al greco, una maggiore arcaicità tipologica. I
grammatici latini, per mantenere l‟intangibile numero di otto parti del discorso stabilite
dai grammatici greci – dei quali erano tributari –, fra cui c‟era l‟articolo (in greco àrthron,
propriamente „giuntura‟, parte del discorso variabile, cioè soggetta a flessione),
sostituirono a questo la interiectio, che nei grammatici greci faceva parte dell‟avverbio.
Il secondo fattore d‟incertezza consiste nella natura stessa di questo elemento
linguistico, non essenziale, a differenza del nome, del pronome, del verbo, ecc., al
funzionamento delle lingue, tant‟è vero che il latino poteva farne a meno. Nasceva da
ciò l‟esigenza di determinarne precisamente la funzione, oltre alla discussione se
l‟articolo fosse un fattore positivo o negativo delle nuove lingue.
Scopo di questa ricerca è di indagare come l‟articolo è stato integrato nella
descrizione grammaticale a partire dalle grammatiche del Fortunio e del Bembo,
attraverso le opere più significative del Cinque, Sei e Settecento, fino al suo statuto
definitivo precisatosi, pur con qualche residua incertezza, nel corso del XIX secolo.
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1. Il Cinquecento. La tradizione grammaticale italiana nasce nei primi decenni del
Cinquecento, in concomitanza con l‟accendersi del dibattito sulla cosiddetta questione
della lingua, cioè della norma linguistica a cui attenersi nelle scritture. Durante questo
secolo l‟italiano acquista una forte posizione, ma soprattutto riesce a superare il
pregiudizio che lo collocava su un piano inferiore rispetto al latino; l‟uso del volgare si
estende in molti ambiti, mentre la cultura si fa più vasta in conseguenza allo sviluppo
dell‟arte tipografica. Nascono anche i primi vocabolari, in realtà vocabolari d‟autore:
grammatiche e dizionari seguono percorsi simili, e se da un lato le grammatiche
teorizzano una lingua modellata sugli scritti delle Tre Corone, dall‟altro i primi
vocabolari si configurano come veri e propri repertori della loro lingua.
Nonostante la dipendenza dallo schema e in gran parte dalla terminologia
grammaticale latina, ma grazie anche alla netta separazione che Pietro Bembo introduce
tra latino e volgare, considerate come lingue ormai indipendenti, si assiste nelle
grammatiche volgari ad una messa in discussione del numero delle parti del discorso, e
conseguentemente del ruolo da assegnare all‟articolo.
Per quanto riguarda l‟articolo indeterminativo invece non lo troviamo nelle
grammatiche cinquecentesche (fatta eccezione per il Salviati) forse perché esso non era
presente nelle lingue classiche; spesso infatti veniva considerato dai grammatici
semplicemente come un numerale.
Possiamo inoltre notare una radicale differenza tra autori come il Fortunio, il
Bembo, il Giambullari ed il Trissino, i quali, pur nelle loro diverse concezioni, dedicano
non molte pagine alla trattazione dell‟articolo, diversamente dal Castelvetro e dal
Ruscelli che invece sviluppano questo argomento in modo considerevole.
1. 1. Giovanni Francesco Fortunio (1516). Il primo documento che attesti
l‟intenzione di Giovanni Francesco Fortunio di pubblicare una grammatica del volgare
è la richiesta di privilegio che venne considerata a Venezia nel 1509; la decisione da
parte dei consiglieri di accordare questa richiesta aprì la via alla pubblicazione, anche se
sette anni più tardi (nel 1516) e lontano da Venezia (ad Ancona) della prima
grammatica del volgare a stampa: le Regole grammaticali della volgar lingua.
Fin dal proemio delle Regole il Fortunio spiega che il volume era nato dalla lettura di
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opere volgari di Dante, del Petrarca e del Boccaccio e dal desiderio di raccogliere le
regole con cui essi scrivevano. Egli, come molti altri del resto, riteneva che i modelli da
imitare fossero i grandi autori del Trecento, come nota nel Proemio:
se noi poniamo ben mente, vederemo che tutti li pellegrini italici ingegni di qualunque si voglia
regione che di scriver rime prendano diletto, quanto più possono il stile del Petrarcha et di Dante se
ingegnano con quelle istesse loro tosche parole di seguitare.
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«Generali regole overo con poche eccettioni», raccolte dalle «volgari cose di Dante,
del Petrarca et del Boccaccio»
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: queste sono le fondamenta su cui il Fortunio costruisce
la sua grammatica. Il testo più citato risulta la Commedia, seguito dal Canzoniere; minori
sono le citazioni da testi del Boccaccio: questo aspetto rappresenta una delle maggiori
differenze rispetto alle Prose del Bembo. Petrarca e Boccaccio sono modelli che di
solito non creano problemi, in quanto rispettano la grammatica; Dante invece è
biasimato per le licenze della lingua e la mancanza di rispetto verso la grammatica,
anche se la prevalenza delle citazioni dantesche dimostra l‟interesse del Fortunio per i
problemi di critica del testo e di interpretazione. È interessante che egli non escluda a
priori, accanto agli antichi, gli scrittori moderni, il cui uso in realtà non si differenzia
molto da quello dei buoni autori del passato, e tra i moderni egli inserisce anche il
Bembo, il Bembo degli Asolani, celebre opera considerata un modello positivo.
Quanto alla lingua parlata, qualche accenno suggerisce che il Fortunio la
considerasse inseparabile dalla lingua letteraria: nel secondo libro, ad esempio, ripete
per tre volte che la penna deve seguire la pronuncia o la lingua, secondo il principio di
Quintiliano.
Il metodo del Fortunio può essere schematizzato così: lettura dei testi,
individuazione delle regole, ritorno ai testi per verificare di nuovo le regole e per
spiegarne le eccezioni (considerate il maggior problema in quanto mettono in dubbio la
validità delle stesse regole).
Lo scopo principale del Fortunio era di insegnare «il modo del dirittamente parlare
et correttamente scrivere»
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. La struttura della sua grammatica è originale e tralascia in
particolar modo quella parte della grammatica che veniva a coincidere con quella latina,
conosciuta da tutti. Infatti l‟Autore non si rivolgeva ad adolescenti che imparavano una
seconda lingua a scuola, ma a persone istruite nel latino e che conoscevano già i
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FORTUNIO, pag. 7.
2
Ibid., pag. 3.
3
Ibid., pag. 10.
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rudimenti della lingua letteraria toscana. Le conoscenze dei suoi lettori gli permettono
di utilizzare prestiti o calchi semantici derivati dalla terminologia latina (prepositione,
adverbio, congiontione, soggiontivo), alcuni dei quali sono attestati qui per la prima volta nel
loro senso linguistico; tuttavia il Fortunio non vuole scrivere in modo troppo tecnico e
ricerca spesso la variazione (la coppia singulare/plurale ma anche numero del meno/del più,
numero minore/maggiore, primo/secondo, solo/moltiplicato; la coppia maschile/feminile, di
maschio/di femina più tipicamente volgari, mentre non compaiono mai i termini
masculino/feminino). Altra conseguenza della cultura dei suoi lettori è l‟essenzialità della
sua esposizione delle regole e, invece, i lunghi elenchi di esempi che vi si trovano: la
grammatica diventa una specie di quadro delle caratteristiche più rilevanti dell‟uso
toscano trecentesco.
Il primo libro delle Regole tratta il modo corretto del parlare ed esamina le parti del
discorso: è il libro più vicino alla tradizione grammaticale latina, a cui Fortunio si
richiama in modo esplicito citando Prisciano, tuttavia egli ne semplifica gli schemi,
riducendo ad esempio da otto a quattro le parti del discorso, considerate necessarie,
ovvero nome (insieme all‟aggettivo), pronome (con l‟articolo), verbo e avverbio. Quest‟ordine
segue quello di Donato e non quello di Prisciano, il che differenzia il Fortunio dalla
maggioranza dei grammatici umanisti.
Nel secondo libro viene studiata l‟ortografia. Il Fortunio si sofferma in particolare
sulla geminazione, un aspetto problematico soprattutto per gli autori settentrionali,
tenendo presenti anche le opere umanistiche sull‟ortografia del latino, a partire dai
Commentarii grammatici de orthographia dictionum e graecis tractarum di Giovanni Tortelli
(Venezia 1471), ma cercando di evidenziare le differenze tra il latino ed il volgare.
Il Fortunio considerava questi primi due libri come il principio della sua
grammatica. Dopo il 1509 il progetto si era ingrandito e l‟opera avrebbe dovuto
includere atri tre libri: un terzo sulle parole oscure, un quarto sulla sintassi verbale ed
un quinto sulla metrica.
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Per quanto concerne l‟articolo, il Fortunio lo considera, sulla base del modello
latino, come parte del pronome (in realtà, il primo grammatico volgare a proporre un
parallelo tra l‟articolo e pronome era stato l‟Alberti nella sua grammatichetta allora
inedita):
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Cfr. FORTUNIO, Introduzione, pagg. IX-LXXIII, FORNARA, pagg. 42-44, TRABALZA, pagg. 65-72.