1 
 
INTRODUZIONE 
 
 
Come affermato da Franco Cordero e ribadito da Paolo Marchetti in apertura del 
suo libro, parlare con coerenza della confessione nel sistema processuale penale 
«significa tirare il ballo un certo numero di categorie: prova legale, libero 
convincimento, tecnica accusatoria, tecnica inquisitoria, ecc., ciascuna delle quali 
è comprensibile solo attraverso un‟escursione nella storia dei sistemi». In questa 
prospettiva, «la confessione dell‟imputato mantiene legami strettissimi con tutto 
l‟impianto processuale in cui si inserisce» e anzi «lo oltrepassa e chiama in causa 
scenari più vasti» e in particolare le relazioni di potere che percorrono l‟intero 
tessuto sociale. 
La perdita di interesse per l‟istituto della confessione nel processo penale ha 
caratterizzato tutti gli ordinamenti continentali, nel passaggio da un sistema 
inquisitorio caratterizzato dalla prova legale, in cui la confessione appariva come 
la regina delle prove, al processo moderno di stampo accusatorio, incentrato sul 
libero convincimento e sulla presunzione di innocenza, affermatosi a partire dalla 
metà del XIX secolo. 
In Italia, il silenzio sull‟argomento è stato interrotto soltanto in occasione di 
eclatanti casi giudiziari riguardanti alcune confessioni estorte dalla polizia 
giudiziaria, come se un approfondimento su tale tema potesse contribuire a fare un 
passo indietro nel superamento del sistema di stampo inquisitorio del vecchio 
regime. 
Con il passaggio al sistema accusatorio la confessione diviene, da optima regina 
probationum, un mero momento eventuale dell‟interrogatorio (accidente 
processuale) o un elemento sintomatico della personalità dell‟imputato, semmai 
esaminabile alla luce del cd. diritto psicologico o della psicologia giuridica.  
Questa indifferenza della dottrina verso l‟istituto confessorio, però, si rivela in 
tutta la sua pericolosità se la si confronta con la prassi giudiziaria, in cui la 
confessione è tutt‟ora ambita come unica prova veramente risolutiva e rappresenta
2 
 
spesso la principale finalità dell‟interrogatorio e dell‟assunzione di informazioni 
in fase di indagine preliminare. 
Come sanare questa contraddizione? Come riempire questo vuoto teorico? 
Questo è l‟obiettivo che la tesi si propone di affrontare, lavorando 
contemporaneamente in due direzioni. La prima consisterà nel tentare di 
ricostruire, attraverso la giurisprudenza di Cassazione e le poche fonti codicistiche 
e legislative disponibili sull‟argomento, una disciplina quanto più possibile 
uniforme dell‟istituto confessorio, ricalcando in parte le orme seguite da Luca 
Lupària nel suo recente testo monografico in materia, che riprende un discorso 
abbandonato sin dal 1958, data a cui risale l‟opera di Montalbano “La confessione 
nel diritto vigente”. 
Verranno evidenziate le lacune di disciplina, riguardanti sia la fattispecie in 
questione, sia altri istituti correlati, quali il diritto al silenzio, analizzando in ottica 
comparatistica le norme previste in altri ordinamenti nazionali e sovranazionali 
sull‟argomento. 
La seconda direzione ci condurrà a riflettere sulle modalità di svolgimento di quel 
momento critico che ha ad oggetto l‟audizione dell‟imputato, e, con l‟ausilio 
dell‟ampia letteratura scientifica di stampo psicologico riguardante il tema della 
confessione penale, a cercare di capire quale valore probatorio sia realmente 
possibile attribuire alla dichiarazione autoaccusatoria dell‟imputato. Si tratta di 
una prova o di un indizio? Ci renderemo conto come, nella realtà, si tratti di una 
dichiarazione probatoria difficilmente classificabile in una categoria “stagna”, ma 
che necessita, per la sua trattazione, di un elevato grado di elasticità e della 
rinuncia a qualificazioni certe e rigide. 
Fino ad arrivare al momento di massima criticità, e cioè quello in cui il giudice si 
ritrova solo a dover valutare una “prova” altamente inaffidabile come quella 
contra se, senza possedere le risorse e le conoscenze sufficienti per svolgere 
un‟analisi sì ampia della veridicità intrinseca ed estrinseca di questa problematica 
categoria di dichiarazioni. 
Durante il nostro viaggio, affronteremo diversi istituti collaterali, più o meno 
direttamente collegati all‟oggetto della trattazione, fra cui la chiamata in correità, 
la testimonianza assistita e l‟interrogatorio di garanzia. E riprenderemo,
3 
 
nondimeno, moltissimi altri concetti centrali per il nostro ordinamento, fra cui 
quello di “utilizzabilità” e di “esclusione” probatoria, proponendo eventuali 
modelli alternativi sulla cui convenienza saremo spinti a riflettere.  
Perché il problema che “affligge” la confessione, a nostro parere, riguarda 
principalmente la sua stretta connessione e interdipendenza con moltissimi dei 
cardini del nostro sistema processuale penale e di quello prospettato dalle fonti 
internazionali. Un sistema, cioè, incentrato sul giusto processo, l‟oralità e il 
principio del contraddittorio, in cui la confessione si colloca come punta di 
massima problematicità, in bilico fra nuovi e vecchi valori e fra nuovi e vecchi 
principi.  
Come dimostra lo sforzo del legislatore del nuovo codice di mantenere l‟equilibro 
fra due istanze almeno apparentemente contraddittorie: l‟esigenza di accertamento 
della verità materiale e quella, non meno stringente, di tutela del diritto al silenzio 
e alla non collaborazione dell‟imputato, nel quadro più ampio della tutela del 
contraddittorio fra le parti.
4
5 
 
CAPITOLO I 
 
 
IL QUADRO DI RIFERIMENTO NELL‟ORDINAMENTO 
ITALIANO E DEGLI STATI EUROPEI. LA GIURISPRUDENZA 
DELLA CORTE EUROPEA PER I DIRITTI DELL‟UOMO 
  
 
1. L‟ORDINAMENTO ITALIANO: LA CONFESSIONE NEL CODICE 
 CIVILE E NEL CODICE DI PROCEDURA CIVILE. 
 
Data la mancanza di una norma definitoria dell‟istituto della confessione nel 
diritto penale sostanziale e procedurale, abbiamo ritenuto opportuno iniziare la 
trattazione dell‟argomento esponendo l‟unica disciplina positiva della fattispecie 
attualmente presente nel nostro ordinamento giuridico, e cioè quella della 
confessione di diritto civile.  
Nel corso degli anni si sono susseguite numerose teorie dottrinali sulla natura 
della confessione civile, dalla teoria “negoziale”, per la quale la confessione 
comprovava un atto dispositivo del diritto cui i fatti si riferivano ovvero un 
negozio processuale sul materiale istruttorio, idoneo a produrre i suoi effetti anche 
sulle situazioni sostanziali, alla più recente e condivisa teoria “probatoria”, 
secondo cui la confessione deve essere elevata al rango di prova legale nel 
processo civile, la quale, una volta acquisita, non rende più possibile compiere  
ulteriori attività istruttorie né contrastare l‟efficacia raggiunta con le prove in 
precedenza raccolte
1
. 
                                                 
1
 Cass. civ., 19 agosto 2000, n. 11011, CED 539695.
6 
 
Secondo un‟altra ricostruzione, invece, la confessione non costituirebbe una prova 
vera e propria, bensì un mero surrogato di essa, valendo come sola relevatio ab 
onere probandi per il giudice civile. 
L‟unica nozione di confessione attualmente presente nel nostro ordinamento si 
trova all‟art. 2730 c.c., in cui essa è definita come «la dichiarazione che una parte 
fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all‟altra parte». 
Similmente l‟istituto era descritto anche all‟art. 1356 c.c. del 1865, che però non 
offriva una definizione unica, bensì distingueva la nozione di confessione 
“giudiziale”, definita all‟art. 1356 come «la dichiarazione che la parte o il suo 
procuratore speciale fa dinnanzi al giudice ancorché incompetente», da quella di 
confessione “stragiudiziale”, descritta dall‟art. 1357 come «quella che si fa fuori 
dal giudizio». 
Rispetto al codice del 1865, è rimasto immutato il valore probatorio riconosciuto a 
entrambi i tipi di confessione, laddove l‟art. 2733 dell‟attuale c.c., che ha 
sostituito l‟art. 1356 del vecchio codice, attribuisce alla confessione giudiziale 
valore di «piena prova contro colui che l‟ha resa, purché non verta su fatti relativi 
a diritti non disponibili». 
La confessione stragiudiziale, invece, avrà un diverso valore probatorio a seconda 
che sia stata resa ad una parte o al suo rappresentante, allorché avrà valore di 
piena prova, o sia stata fatta a un terzo o contenuta in un testamento, nel qual caso 
sarà soggetta al libero apprezzamento del giudice civile. Si ritiene, inoltre, che la 
dichiarazione confessoria stragiudiziale dovrà essere ulteriormente provata nel 
corso del giudizio dalla parte che intenda avvalersene (c.d. probatio probanda), 
applicandosi a tal fine le ordinarie regole probatorie; ma la prova testimoniale sarà 
da escludersi qualora la confessione verta su un oggetto per il quale la 
testimonianza non è ammessa dalla legge (ex art. 2735 comma 2 c.c.).  
Più specificamente, l‟art. 1358 c.c. del 1865 precisava che, qualora la confessione 
fosse stata resa ad una terza persona, essa assumeva valore di semplice indizio. 
Se si aderisce alla definizione di confessione offertaci da una parte della dottrina 
civilistica, essa può perciò essere descritta come «un dichiarazione di scienza in 
ordine ai fatti di causa, di carattere obiettivamente sfavorevole alla parte 
dichiarante e, al contempo, idonea a favorire il suo avversario in giudizio», a cui
7 
 
la legge ricollega «un vincolo al libero convincimento del giudice, il quale sarà 
tenuto a ritenere per veri i fatti affermati nella contra se declaratio».
2
 
Per quanto concerne la revocabilità delle dichiarazioni confessorie, l‟art. 2732 c.c. 
ha ampliato la portata dei casi in cui una revoca sia possibile, menzionando, oltre 
all‟errore di fatto, già previsto come causa di revoca dal codice del 1865
3
, anche 
l‟eventuale violenza subìta dal confitente. Secondo parte della dottrina, però, 
piuttosto che di “revoca” della confessione dovrebbe parlarsi di rimozione 
dell‟efficacia probante della stessa ovvero di esclusione dei suoi effetti, che non 
sarebbe consentita ad nutum, bensì al ricorrere delle suddette circostanze 
tassative.  
Andando oltre il dettato normativo, la giurisprudenza richiede, come ulteriore 
elemento costitutivo della fattispecie confessoria, la presenza del cd. animus 
confitendi in capo al dichiarante, consistente nella «volontà e consapevolezza 
della parte di affermare la verità di fatti obiettivamente a sé sfavorevoli e 
favorevoli all‟avversario, indipendentemente dalla coscienza delle conseguenze 
giuridiche che ne possono derivare»
4
. 
Attenendosi, invece, al solo dato normativo, l‟unico elemento soggettivo richiesto 
espressamente dall‟art. 2731 c.c.  consiste nella capacità del confitente di disporre 
del diritto a cui i fatti confessati si riferiscono, precisando che, se la confessione è 
resa da un rappresentante, essa sarà valida solo se egli possa disporre dei diritti cui 
la confessione attiene.  
Il codice di procedura civile si limita a completare la disciplina della fattispecie in 
esame introducendo una distinzione relativa alle modalità di acquisizione della 
confessione; si avranno perciò confessioni “spontanee” (art. 229 c.p.c.), che 
potranno essere contenute in qualsiasi atto processuale firmato personalmente 
dalla parte, e confessioni “provocate” mediante l‟interrogatorio formale di cui 
all‟art. 230 c.p.c., nel corso del quale la parte interrogata potrebbe rispondere 
                                                 
2
 C. Punzi, Il processo civile, Giappichelli, 2^ ed., 2010, vol. II, p. 113. 
3
 Ai sensi dell‟art. 1360 comma 2 c.c. 1865: « [La confessione ] non può revocarsi, quando non si 
provi ch‟essa fu la conseguenza di un errore di fatto». 
4
 C. Punzi, Il processo civile, cit., p. 115.
8 
 
positivamente, e perciò in senso a sé sfavorevole, ai capitoli di prova articolati 
dalla controparte e ammessi dal giudice. 
Nel caso in cui la parte cui l‟interrogatorio sia stato deferito si rifiuti di comparire 
o di rispondere, il codice del 1865 ammetteva una vera e propria ficta confessio, 
con l‟effetto di considerare ammessi i fatti dedotti nell‟interrogatorio stesso; l‟art. 
232 del codice attuale, invece, conferisce al giudice il potere discrezionale di 
ritenere come ammessi tali fatti, ma solo dopo aver valutato ogni altro elemento di 
prova e senza che ciò costituisca un obbligo per il giudice stesso. 
Affrontando il problema della divisibilità della confessione civile, a fronte del 
silenzio della disciplina dell‟attuale codice civile, occorre recuperare il dettato 
dell‟art. 1360 c.c. 1865, secondo il quale «la confessione non può essere divisa in 
danno di chi l‟ha fatta», sebbene la mancata ripetizione di tale disposizione nel 
codice vigente faccia dubitare dell‟attualità della previsione.  
Alcune sentenze della Cassazione civile si sono poi  occupate del valore da 
attribuire ad una confessione stragiudiziale, in quanto resa davanti al giudice 
penale, nel distinto giudizio civile in cui essa venga richiamata. La giurisprudenza 
ha escluso che, in tale sede, essa possa assurgere al rango di prova legale, 
preferendo considerarla soggetta al libero apprezzamento del giudice civile
5
, o 
ritenerla un mero elemento di riscontro delle complessive risultanze probatorie
6
. 
L‟unica eccezione a tale conclusione è rappresentata dall‟ipotesi in cui 
l‟avversario che intenda successivamente avvalersi della confessione penale in 
sede civile abbia partecipato in qualità di parte civile nel giudizio penale, caso nel 
quale si ritiene che essa produca l‟efficacia di confessione piena nel distinto 
giudizio civile, riacquistando perciò il suo valore di prova legale
7
. 
 
 
 
                                                 
5
 Cass. civ.,18 febbraio 1983, n. 1244, CED 426026. 
6
 Cass. civ., 9 aprile 1993, n. 4337, CED 481786. 
7
 Cass. civ., 6 aprile 2006, n. 8096, CED 588864.
9 
 
2. RIFERIMENTI NORMATIVI ALLA CONFESSIONE NEL CODICE DI 
PROCEDURA PENALE. 
 
 
Esposto brevemente il quadro disciplinare della confessione civile, si potrebbe 
tentare di ricostruire la nozione mancante di confessione penale proprio a partire 
dalla definizione contenuta all‟ art. 2730 c.c., seguendo le orme di quella dottrina 
del passato che riteneva che la confessione rappresentasse «in modo tipico il 
punto di contatto fra il processo civile e penale», contatto di cui rappresentava la 
maggiore espressione
8
.  Potrà dunque affermarsi che la confessione nel processo 
penale null‟altro sia che una «dichiarazione che colui il quale trovasi sotto il 
sospetto di aver commesso un reato fa delle verità di fatto a lui sfavorevoli, 
andando contro se stesso»
9
. 
Numerosissime sono state, nel passato, le proposte di definizione della fattispecie 
confessoria penale, da quelle più generiche e descrittive, «qualunque affermazione 
emessa [dal reo] a proprio carico»
10
, «rivelazione d‟un reato per parte del suo 
autore»
11
, «l‟affermazione più vivace, decisiva (…) e suggestiva dell‟imputato 
circa la sua reità»
12
, a quelle più tecniche e restrittive,  «testimonianza della reità 
dell‟imputato»
13
, «ogni spontanea dichiarazione o concessione fatta dall‟imputato 
circa fatti riguardanti l‟imputazione e a lui sfavorevoli»
14
. Caratteristica di tali 
definizioni è la tendenza a mescolare elementi effettivamente costitutivi della 
                                                 
8
 E. Florian, Delle prove penali,  Vallardi, 1924,  vol. II.  
9
 G. Montalbano, La confessione nel diritto vigente, Jovene, 1958, p. 29. 
10
 F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale, Giusti, 1863, vol. II, par. 929. 
11
 P. Ellero, Trattati criminali, Tip. Fava e Garagnani, 1875, p. 198. 
12
 E. Florian, Trattato di diritto penale, Vallardi, 1910, p. 360.  
13
 F. Carnelutti, Lezioni sul processo penale, Edizioni dell‟Ateneo, 1946, vol. I, p. 263. 
14
 G. Manzini, Trattato di procedura penale italiana secondo il nuovo c.p.p. e le nuove leggi di 
ordinamento giudiziario, Fratelli Bocca, 1914, vol. II, p. 181.
10 
 
fattispecie confessoria con elementi maggiormente attinenti al suo momento 
valutativo e alla verifica di attendibilità delle dichiarazioni autoaccusatorie
15
.  
Per non vanificare gli sforzi ricostruttivi della dottrina più recente, abbiamo 
preferito adottare, riservandoci di affrontarne nuovamente i punti più controversi, 
la definizione che vuole la confessione come «una dichiarazione di scienza con la 
quale una persona sottoposta a procedimento penale, in piena coscienza di sé, per 
libera scelta e con la consapevolezza di nuocere a se stessa, ammette la propria 
responsabilità, rappresentando e attribuendo a se stessa i fatti oggetto 
dell‟accusa»
16
. 
Tuttavia, prima di iniziare la ricostruzione della fattispecie e di evidenziare le 
lacune normative in materia, è opportuno riproporre schematicamente le norme 
che contengono riferimenti più o meno diretti all‟istituto confessorio, 
soprassedendo, per il momento, sulla distinzione operata da parte dottrina fra un 
primo gruppo di norme “definitorie” dell‟istituto, un secondo gruppo volto ad 
assicurare la “volontarietà” della confessione e un terzo gruppo da un 
emergerebbe un concetto “puro” di confessione, che includerebbe le sole 
dichiarazioni rese davanti all‟autorità giudiziaria, e cioè la sola confessione 
giudiziale
17
. 
Dovendo cercare di ricostruire, oltre alla fattispecie confessoria strettamente 
intesa, anche il quadro normativo in cui essa deve essere collocata, faremo 
riferimento anche alle disposizioni che disciplinano istituti collidenti con quello 
confessorio, fra cui, principalmente, quelle in materia di diritto al silenzio, 
svolgimento dell‟ interrogatorio e acquisizione, più in generale, del materiale 
probatorio per il giudizio. Si riferiscono, più o meno direttamente, al fenomeno 
delle contra se declaratio: 
                                                 
15
 Si veda, ad es., G. Carmignani, Elementi del diritto criminale, prima versione italiana del prof. 
Caravana Dingli, 1848, tomo I, in cui è presente un‟elencazione di ben quattordici requisiti 
costitutivi della fattispecie confessoria, molti dei quali, come l‟univocità, la verosimiglianza e la 
costanza, sono invece da considerare maggiormente alla stregua di indici di attendibilità. 
16
 L. Lupària, La confessione dell‘imputato nel sistema processuale penale, Giuffrè, 2006, p. 110. 
17
 L. Lupària, La confessione dell‘imputato, cit., p. 76 ss.
11 
 
 art. 274 lett. a) c.p.p.: in base a tale norma, «le situazioni di concreto e 
attuale pericolo per l‟acquisizione o la genuinità della prova», che 
rappresentano la prima esigenza cautelare che giustifica l‟applicazione di 
misure personali, «non possono essere individuate nel rifiuto della 
persona sottoposta alle indagini o dell‟imputato di rendere dichiarazioni 
né nella mancata ammissione degli addebiti». L‟esercizio del diritto al 
silenzio o del privilegio contro l‟autoincriminazione, perciò, a prescindere 
dalla rilevanza attribuibile a tali comportamenti in sede decisoria, non può 
essere utilizzato come presupposto per l‟applicazione di una misura 
cautelare, prima fra tutte la custodia in carcere, in quanto maggiormente 
limitativa della libertà individuale; 
 art. 197bis comma 4 c.p.p. (introdotto con l. 64/2001 attuativa del “giusto 
processo”): in base a tale comma, premesso che un imputato in un 
procedimento connesso (ai sensi dell‟art. 12) o collegato (a norma 
dell‟art. 371, comma 2, lett. b)) «può sempre essere sentito come 
testimone quando nei suoi confronti è stata emessa sentenza irrevocabile 
di proscioglimento, condanna o applicazione della pena su richiesta delle 
parti», un testimone di questo tipo non potrà essere obbligato a «deporre 
su fatti per i quali è stata pronunciata in giudizio sentenza di condanna 
contro di lui, se nel procedimento egli aveva negato la propria 
responsabilità o non aveva reso alcuna dichiarazione». Anche in questo 
caso si vuole evitare che l‟esercizio del diritto al silenzio possa 
giustificare un aggravamento della posizione dell‟imputato condannato, 
nel momento in cui egli venga sentito come testimone in un distinto 
procedimento, seppure connesso o collegato a quello svoltosi contro di 
lui; 
 art. 64 comma 2 e art. 188 c.p.p.: in base a tali norme, durante 
l‟interrogatorio, che rappresenta la sede principale in cui solitamente è 
ottenuta una confessione, e nel corso, più genericamente, dell‟assunzione 
di una prova, è fatto divieto di utilizzare «metodi o tecniche che 
influiscono sulla libertà di autodeterminazione» del soggetto o alterino «la 
[sua] capacità di ricordare o valutare i fatti». Si tratta, evidentemente, di
12 
 
alcune delle garanzie previste dal codice e finalizzate a contrastare il 
fenomeno delle confessioni estorte; 
   art. 64 comma 3 lett. a) e b) c.p.p.: a integrare le garanzie 
dell‟interrogatorio, viene previsto che, prima dell‟inizio 
dell‟interrogatorio stesso, la persona ad esso sottoposta «debba essere 
avvertita che le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei 
suoi confronti», e che l‟imputato, fatto salvo l‟obbligo di fornire le proprie 
generalità, «ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, senza che il 
procedimento venga per questo interrotto»; 
 art. 189 c.p.p.: la norma concretizza, fra le altre cose, il divieto di ingresso 
nel giudizio di prove non disciplinate dalla legge, le cd. prove “atipiche” o 
“innominate”, quando esse «pregiudichino la libertà morale della persona 
imputata»; 
 art. 141bis c.p.p.: viene stabilito l‟obbligo di documentazione integrale, 
fonografica o audiovisiva, dell‟interrogatorio della persona detenuta che 
non si svolga davanti al giudice in udienza, a pena di inutilizzabilità 
dell‟interrogatorio stesso. In ogni caso, perciò, l‟eventuale confessione 
giudiziale resa davanti al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria sarà 
inclusa in un documento che la riporterà fedelmente in tutta la sua durata, 
assicurando la possibilità di consultazioni successive; 
 art. 449 comma 5 c.p.p.: secondo il presente comma, il pubblico ministero, 
oltre che nei casi descritti dai commi precedenti del medesimo articolo,  
può procedere al giudizio direttissimo «nei confronti della persona che nel 
corso dell‟interrogatorio abbia reso confessione». La confessione, dunque, 
diventa un presupposto per il giudizio direttissimo, a condizione che essa 
sia stata resa nel corso dell‟interrogatorio davanti all‟autorità giudiziaria, 
e non davanti alla polizia giudiziaria; 
 art. 369 c.p.: commette delitto di autocalunnia chi, mediante dichiarazioni 
all‟Autorità giudiziaria o ad altra Autorità incaricata di riferire a 
quest‟ultima, anche se fatta con scritto anonimo o sotto falso nome, 
ovvero «mediante confessione innanzi all‟Autorità giudiziaria, incolpa se 
stesso di un reato che egli sa non avvenuto, o di un reato commesso da