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Nei paesi di arrivo assai raramente troviamo una cultura dell’accoglienza che
confermi il diritto alla libera circolazione delle persone sul pianeta e alla libera scelta
del paese in cui le persone desiderino vivere da cittadini alla pari.
Il nostro paese e tutta l’Europa hanno un bisogno vitale di migranti per arginare il
declino demografico ed economico altrimenti irreversibile.
Ecco perchè le politiche per l’immigrazione rappresentano uno dei capitoli più
importanti e strategici: gli stranieri, infatti, rappresentano per gli stati occidentali il
c.d. “esercito industriale di riserva”. Oggi, si tende, da un lato, a istituire aree
economiche libere da controlli doganali e dall’altro, a ripristinare proprio tali
controlli per impedire l’ingresso a stranieri e profughi, tentativi che all’interno
dell’odierna rete di scambi di capitali, merci, informazioni e cultura appaiono
paradossali.
La realtà delle migrazioni deve essere vista non come una minaccia alla sicurezza e al
benessere ma, al contrario, come un segno dei tempi, segno di una civiltà chiamata a
tenere insieme l'identità e l'universalità, la differenza e l'uguaglianza.
L’obiettivo di questa tesi è di focalizzare l’attenzione sulla condizione giuridica dello
straniero e verificare, partendo dalla nostra Costituzione, se i “diritti inviolabili” della
persona umana sono tutelati alla luce della nuova legislazione in materia.
Eccezion fatta per gli apolidi, che non possiedono alcuna nazionalità, si può dire che
quella di straniero è una condizione comune a tutti gli esseri umani, a seconda
dell’ordinamento al quale si intende fare riferimento.
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La nozione si definisce in relazione all' appartenenza dell’individuo ad una comunità
statale ma, alcuni autori parlano o genericamente di non cittadini oppure specificano
la categoria alla quale fanno riferimento, proprio perché a tale termine collegano
diverse figure soggettive ognuna con un proprio trattamento giuridico.
Con la nascita dell’Unione europea la tradizionale dicotomia cittadino/straniero è
stata sostituita dalla “tricotomia” cittadino/cittadino comunitario/cittadino non
comunitario; il risultato è stata un’ulteriore frammentazione dello status di straniero.
Per determinare la condizione giuridica dello straniero è indispensabile riferirsi al
diritto internazionale ed al diritto interno e cioè tener conto dei diversi ordini di fonti
normative.
Tra le fonti superprimarie si colloca ovviamente la Costituzione, con le sue norme
generali in materia di stranieri contenute all'art. 10 della Costituzione: la riserva di
legge rinforzata in materia di condizione giuridica dello straniero (art. 10, comma 2),
il diritto d'asilo (art. 10, comma 3), il divieto di estradizione dello straniero per motivi
politici (art. 10, comma 4) e le norme internazionali generalmente riconosciute in
materia di stranieri a cui l'Italia automaticamente si adegua (art. 10, comma 1).
Anche le norme comunitarie (regolamenti, direttive, azioni comuni) in materia di
immigrazione e asilo fanno parte delle fonti superprimarie con il limite dei “principi
fondamentali” della Costituzione.
Tra le fonti primarie, in posizione subordinata rispetto alle fonti superprimarie, si
collocano le norme e i trattati internazionali in vigore per l'Italia in materia di
condizione degli stranieri ad un livello rafforzato dalla riserva di legge dell' art. 10,
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comma 2 della Costituzione.
Ultima categoria di fonti primarie è quella delle fonti legislative dello stato, mentre,
tra le fonti secondarie, ricordiamo gli atti normativi, i regolamenti governativi, i
provvedimenti ministeriali e quelli interministeriali.
Partendo dall’articolo 10 della Costituzione, “l’ordinamento giuridico italiano si
conforma alle norme del diritto internazionale generalmente conosciute; la
condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme
e dei trattati internazionali; lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese
l’effettivo esercizio delle libertà garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto
d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge;
non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.”, si osserva che, lo
stato italiano deve attenersi scrupolosamente alle regole generali della comunità
internazionale, deve determinare gli indirizzi di fondo da seguire in materia di
politica estera e deve dettare i principi essenziali che devono ispirare il trattamento da
promuovere agli stranieri.
In base alla riserva di legge rinforzata prevista in materia di stranieri dall'art. 10,
comma 2 della Costituzione, tutta la condizione giuridica dello straniero deve essere
disciplinata da una legge o da un atto avente forza di legge.
I contenuti di tale legge sono costituzionalmente legittimi soltanto se rispettano le
norme consuetudinarie internazionali e le disposizioni previste dagli accordi
internazionali in vigore per l'Italia e i principi e le norme della Costituzione.
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Di concerto con l'art. 10, che si occupa specificamente della condizione dello
straniero, dobbiamo considerare l'articolo 3 della Costituzione, “tutti i cittadini hanno
pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di
razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali; è
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del paese, che sancisce il principio
di eguaglianza come valevole anche per gli stranieri in materia di diritti garantiti dalla
Costituzione.
Il nostro Costituente, con questo articolo, ha imposto al legislatore di creare le
condizioni necessarie per dare effettività al principio personalista (art. 2), al fine di
assicurare a tutti una reale partecipazione alla vita del paese, per ognuna delle varie
manifestazioni politiche, economiche e sociali.
Ogni persona in quanto tale ha pari dignità sociale rispetto ad ogni altra salvo la
possibilità e la necessità di trattamenti differenziati in relazione alle diversità di
situazione.
Per quanto riguarda la dottrina, buona parte di essa ritiene applicabile agli stranieri le
norme che riconoscono e garantiscono sia i diritti garantiti dalla Costituzione sanciti
nell'art. 2, “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia
come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede
l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”,
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sia l'inviolabilità del domicilio, della libertà personale, di culto e di religione e il
principio di uguaglianza.
La proclamazione di un corpus di diritti inerenti alla persona umana in quanto tale,
viene a determinare anche lo status dello straniero, il quale, ovunque si trovi, in
quanto persona, ha il diritto a godere di questi diritti.
Il fine è la protezione globale dell’individuo in quanto tale indipendentemente dalla
sua cittadinanza o assenza di cittadinanza.
Anche la Corte Costituzionale ha affrontato la questione affermando che, in base al
combinato disposto degli art. 2, 3 e 10 secondo comma della Costituzione, opera
anche per gli stranieri il principio di eguaglianza in ordine ai diritti garantiti dalla
Costituzione, ma non può escludersi che “nelle situazioni concrete, non possano
presentarsi, fra soggetti uguali differenze di fatto che il legislatore può apprezzare e
regolare nella sua discrezionalità, la quale non trova altro limite se non nella
razionalità del suo apprezzamento” (sentenza Corte Costituzionale nº144 del 1970).
La differente disciplina deve trovare giustificazione in una effettiva diversità di
situazione, che derivi dal mancato possesso della cittadinanza italiana e che in tutte
quelle posizioni non costituzionalmente garantite allo straniero, la libertà di
regolazione del legislatore deve essere contenuta nell’ambito della “ragionevolezza”.
Allo straniero che si trovi nella situazione indicata dall’articolo 10, comma 3 della
Costituzione è riservato un trattamento particolare che lo pone, in relazione agli altri
stranieri, in una posizione privilegiata.
La nostra Costituzione, infatti, contiene una esplicita tutela dell’asilo territoriale.
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E’ opinione condivisa dalla dottrina e dalla giurisprudenza che il diritto d’asilo si
configura come un diritto soggettivo perfetto dello straniero al quale nel suo paese sia
effettivamente impedito l’esercizio anche di una sola delle libertà garantite dalla
nostra Costituzione, all’ingresso e al soggiorno nello stato indipendentemente
dall’esistenza di leggi ordinarie che fissino alcune condizioni per il suo esercizio.
Il diritto d’asilo paralizza il potere di espulsione dello stato nei confronti dello
straniero: infatti c’è un divieto di respingimento alla frontiera dello straniero che
risulti sprovvisto dei requisiti previsti in generale dalle norme sugli stranieri ai fini
dell’ammissione di uno straniero sul territorio dello stato.
Da un punto di vista legislativo, fino alla metà degli anni ’80 non esisteva, in Italia,
una disciplina specifica in materia di immigrazione; infatti la consuetudine dominante
era quella di “legiferare per circolari”.
La Corte Costituzionale aveva più volte invitato il legislatore a provvedere ad una
trattazione più adeguata sull’argomento, sottolineando che per “la delicatezza degli
interessi che coinvolge, merita un riordinamento da parte del legislatore, che tenga
conto delle esigenze di consacrare in compiute ed organiche norme le modalità e le
garanzie di esercizio delle fondamentali libertà umane collegate con l’ingresso ed il
soggiorno degli stranieri in Italia” (Corte Costituzionale, sentenza n. 46 del
20/1/1977).
Se analizziamo la normativa, il 14 febbraio 1997, viene presentato dal Consiglio dei
Ministri il disegno di legge “disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione
dello straniero”, periodo in cui l’Italia, non aveva una legislazione organica in
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materia di immigrazione e non si era ancora adeguata al “sistema di controllo
Schengen” e alla Convenzione O.I.L. n. 143.
Le disposizioni della legge n. 40/98 e alcune norme della vecchia legislazione
sull’immigrazione, sono state raccolte nel “testo unico delle disposizioni concernenti
la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, adottato
con decreto legislativo del 25/07/98 n°286.
La legge “Turco-Napolitano” provvedeva ad abrogare la precedente legge Martelli,
salvo che per l’art. 1, dedicato all’asilo, materia che avrebbe dovuto essere oggetto di
un provvedimento “ad hoc” e pertanto stralciata dalla riforma del ’98.
La caratteristica peculiare della nuova normativa è la “precarizzazione” (non è
sbagliato affermare che trasforma i migranti in “razze inferiori” legittimando pratiche
discriminatorie dei cittadini) della condizione giuridica del migrante “regolare”,
considerato dal nostro ordinamento come un “ospite in prova perpetua” non essendo
praticata né la strada della stabilizzazione né quella dell’integrazione.
La legislazione in tema di immigrazione concepisce il migrante come soggetto
pericoloso per l’ordine pubblico: ecco perché l’autorità di polizia, con vigilanza
costante e invasiva, è di fatto, in Italia, il vero gestore dei movimenti migratori
attraverso “l’amministrativizzazione” dei diritti fondamentali dello straniero.
Il legislatore ha previsto all'art. 12 della legge n. 40 del ‘98 (art. 14 T.U. n. 286/98) il
trattenimento in centri di permanenza temporanea (e assistenza) degli stranieri
sottoposti a provvedimento di espulsione o di respingimento con accompagnamento
coattivo alla frontiera non immediatamente eseguibile.
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All’interno di questi centri vengono reclusi i migranti nei confronti dei quali non è
possibile eseguire immediatamente l’espulsione mediante accompagnamento alla
frontiera.
L’introduzione dei cosiddetti CPT rappresenta di fatto l’introduzione ufficiale del
“reato di immigrazione”.
Il trattenimento presso un centro di permanenza temporanea e assistenza è una misura
che incide sulla libertà personale dello straniero.
Tale libertà, tutelata nel nostro ordinamento dall'art. 13 della Costituzione, “La
libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di
ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà
personale, se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi
previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità e urgenza, indicati
tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare
provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore
all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore,
si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. E’ punita ogni violenza fisica e
morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce
i limiti massimi della carcerazione preventiva”, è un diritto fondamentale della
persona umana, riconosciuto, dal T.U. anche allo straniero (infatti l’ art. 2, comma 1
dice: "comunque presente nel territorio dello stato", sia esso regolare, irregolare o
clandestino).
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Introducendo, con l'art. 14 del T.U., la misura del trattenimento in un centro di
permanenza temporanea, il legislatore del ‘98 ha previsto una limitazione della libertà
personale per un fine diverso dalla repressione dei reati.
Le limitazioni della libertà personale per motivi diversi dalla repressione dei reati,
sono lecite solo quando tutelano fini costituzionalmente rilevanti: nell'articolo 14 del
T.U. non esisterebbe un interesse costituzionale che legittima la restrizione della
libertà personale.
Il principio costituzionalmente inviolabile della difesa, sancito all’art. 24 della
Costituzione, ”Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e
interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del
procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire
e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. La legge determina le condizioni e i modi
per la riparazione degli errori giudiziari”, viene negato nella sua effettività da
disposizioni che impediscono allo straniero trattenuto di organizzare un'efficace
difesa (ci si riferisce alla disparità di trattamento tra l'autorità che ha emesso il
provvedimento, che può stare in giudizio personalmente, e lo straniero che “viene
soltanto sentito”; o il trasferimento dello straniero anche a centinaia di chilometri dal
proprio domicilio con la conseguente difficoltà di non poter avere una pronta
assistenza legale).
Tra novembre e dicembre 2000, alcuni giudici del Tribunale di Milano (i Giudici di
Milano presentarono 21 ordinanze di incostituzionalità), in occasione dei giudizi di
convalida del trattenimento di stranieri presso il centro di permanenza temporanea di
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via “Corelli”, hanno sollevato numerose questioni di legittimità costituzionale
relative alla misura del trattenimento presso i centri di permanenza temporanea.
La decisione della Corte Costituzionale pronunciata con la sentenza n. 105/2001,
purtroppo, non mette in discussione il sistema dell’allontanamento coattivo e
l’istituzione dei CPT.
L’unica nota positiva, è che viene rivista parzialmente la posizione giuridica dello
straniero oggetto di un provvedimento d’espulsione (l’accompagnamento coattivo
alla frontiera dello straniero destinatario di un provvedimento di espulsione è misura
che incide sulla libertà personale dell’espellendo e, in quanto tale, è soggetto alla
riserva di giurisdizione dettata dall’articolo 13 della Costituzione, sicché non può
essere legittimamente adottata in assenza di una pronuncia giudiziaria).
La nuova legge n. 189/02 sull’immigrazione chiamata “Bossi-Fini”, invece, modifica
il T.U. sull’immigrazione inasprendo la disciplina dei flussi migratori.
Questa legge ha reso l’esistenza degli stranieri ancora più precaria, discriminata,
rispetto alla precedente legislazione (la legge 189/2002 supera la logica binaria e
inserisce l’opzione “immigrazione zero” e quindi si pone come un rifiuto
dell’immigrazione) accrescendo per tutti gli stranieri il rischio di cadere in una
condizione di irregolarità e di clandestinità.
Da testo emerge il carattere di legge manifesto fonte dell’immaginario collettivo di
una percezione dell’immigrato come potenziale criminale e dell’immigrazione come
problema di ordine pubblico, con la creazione di un diritto penale speciale per lo
straniero “non comunitario”, con gravi violazioni dei principi costituzionali.
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Con la nuova legge, è il lavoro la condizione primaria per la permanenza sul
territorio: lo straniero, ora, appare sempre più forza-lavoro (visione dello straniero
usa e getta) e sempre meno soggetto umano e giuridico.
Per il mercato globale, l’utilizzo della forza-lavoro migrante come forza-lavoro a
basso (bassissimo) costo e priva di diritti è il segreto che la fa tanto ambita.
Rispetto al principio per cui "ogni uomo non può essere sradicato dalla propria terra
per motivi di lavoro" la nuova legge sull’immigrazione afferma invece il principio
per cui “ogni uomo ha il diritto di venire in Italia solo se ha un lavoro”.
All’art. 33 della l. n. 189/02 e con il decreto legge 9 Settembre 2002 n. 195,
(“disposizioni urgenti in materia di legalizzazione del lavoro irregolare e di
extracomunitari”.) convertito nella legge del 9 Ottobre 2002, n. 222 in materia di
“legalizzazione” di lavoro irregolare, dedicato “all’emersione di lavoro irregolare”,
viene prevista la sanatoria di colf e badanti (ovvero la regolarizzazione).
L’ultima regolarizzazione, chiusa l’11 Novembre 2002 con la presentazione di
703.000 domande, ha da sola quasi eguagliato il numero complessivo di richieste
delle precedenti tre regolarizzazione degli anni ’90.
Da questo si può dedurre che, i canali di ingresso regolare sono in realtà veramente
impraticabili (infatti non esiste nessun meccanismo di regolarizzazione “in itinere”);
le sanatorie diventano l’unico strumento effettivo utilizzato per governare il
fenomeno migratorio (anche la procedura di regolarizzazione diventa un ulteriore
strumento di rafforzamento della posizione del datore di lavoro che ha “il potere” di
porre in essere o meno la procedura di regolarizzazione) e per compensare il ridotto
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numero di autorizzazioni all’ingresso dei “decreti flussi” emanati negli anni
precedenti.
La riscrittura complessiva degli allontanamenti rappresenta il nucleo centrale della
Bossi-Fini.
Nel suo complesso, la normativa in tema di allontanamenti, che individua
nell’espulsione la solo risposta a qualsiasi forma di irregolarità, rivela “allarmanti”
profili di illegittimità costituzionale.
Infatti, la normativa, affievolisce il ruolo garantistico della giurisdizione,
subordinando l’intervento del giudice a quello dell’autorità di polizia che, con la
nuova legge, assume una posizione di centralità nel governo del fenomeno
migratorio.
Con due recentissime sentenze, la Corte Costituzionale (Sentenza n. 222 del
15/07/2004 e Sentenza n. 223 del 15/07/2004), apre una “spaccatura” nella Bossi-
Fini.
La legge sull'immigrazione, scrive la Consulta, è incostituzionale dove prevede che, il
“clandestino”, possa essere espulso dal nostro paese senza stabilire che il giudizio di
convalida del provvedimento del Questore debba svolgersi in contraddittorio prima
dell'accompagnamento alla frontiera, con le garanzie della difesa.
La legge è incostituzionale anche nella parte in cui, prevede l'arresto obbligatorio in
flagranza di reato per lo straniero che, senza giustificato motivo, non abbia rispettato
l'ordine del Questore di lasciare il territorio nazionale entro cinque giorni.
Secondo la Consulta, la norma che impone l'arresto obbligatorio "non trova nessuna
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copertura costituzionale" ma, al contrario, viola due articoli della nostra Costituzione:
l'articolo 3 che sancisce l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e l'articolo 13
che legittima l'adozione da parte dell'autorità amministrativa di provvedimenti che
incidono sulla libertà personale solo in casi eccezionali di necessità e urgenza.
La Consulta precisa che, anche l'arresto obbligatorio imposto dalla Bossi-Fini "è
privo di qualsiasi sbocco sul terreno processuale”: infatti, la legge impedisce che si
possa disporre la custodia cautelare in carcere per un reato “contravvenzionale”,
come quello previsto dalla legge sull'immigrazione.
Secondo la Consulta, quindi, il giudice chiamato a convalidare l'espulsione dello
straniero che non ha eseguito l'ordine del Questore, "deve comunque disporre
l'immediata liberazione dell'arrestato".
Per quanto riguarda la sentenza n. 222, la Consulta chiarisce che “il percorso della
presente decisione è interamente segnato dalla sentenza n. 105 del 2001”.
In questa sentenza, infatti la Consulta, aveva ricordato al legislatore che, libero di
scegliere gli strumenti che ritiene più adeguati nell’affrontare tali questioni, esiste un
quadro di garanzie costituzionali in tema di libertà personale e tutela giurisdizionale
che valgono per tutti gli individui, cittadini e stranieri, “non in quanto partecipi di una
determinata comunità politica, ma in quanto essere umani” (Sentenza n. 105/2001).
Infatti, se lo straniero viene allontanato prima che il giudice abbia potuto pronunciarsi
sul provvedimento restrittivo della sua libertà personale, viene vanificata la garanzia
contenuta nel terzo comma dell’art. 13 della Costituzione e “insieme alla libertà
personale è violato il diritto di difesa dello straniero nel suo nucleo incomprimibile”.
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Per la sentenza n. 223, anch’essa collegata con la sentenza 105/2001, la norma
censurata “non essendo finalizzata all’adozione di alcun provvedimento coercitivo, si
risolve in una limitazione “provvisoria” della libertà personale priva di qualsiasi
funzione processuale ed è, quindi, sotto questo aspetto, manifestamente
irragionevole”. La normativa vigente perde cosi due dei suoi pilastri fondamentali per
configurare una declamata “tolleranza zero” in materia di polizia degli stranieri.
In attesa di nuove decisioni della Corte Costituzionale in merito agli innumerevoli
profili di incostituzionalità tangibili nella Bossi-Fini, si registra, in Italia, una brusca
inversione di marcia rispetto al riconoscimento dei c.d. diritti fondamentali garantiti
dalla Costituzione allo straniero.
Nel contesto attuale, le conseguenze di questa legge sono la definitiva esclusione
degli stranieri dalla nostra società. Il riconoscimento e il rispetto dei diritti garantiti dalla
Costituzione deve essere, invece, il “fine principe” dello stato democratico. Questi diritti,
definiti inviolabili, indisponibili ed inalienabili servono a sottrarre alcuni temi che
riguardano la “vita” delle persone, alla decisione delle maggioranze di governo.
Da un’impostazione di tipo “economicista”, infatti, possono derivare solo politiche
inadeguate per governare i movimenti migratori.