Introduzione
Gli Accordi di pace di Dayton hanno messo fine al sanguinoso conflitto
che ha devastato l‟area della ex Jugoslavia nei primi anni Novanta, realizzan-
do, in Bosnia-Herzegovina, un nuovo Stato formalmente in pace e sulla carta
unitario, ma soggetto a continue spinte centrifughe e tuttora segnato da pro-
fonde ferite, anche istituzionali.
Questa ricerca si propone di analizzare le peculiarità del nuovo modello
costituzionale affermatosi nell‟immediato dopoguerra, con una particolare
considerazione per la situazione giuridica dei rifugiati e degli sfollati (IDPs)
presenti nella regione. L‟intera trattazione tenta di seguire il percorso evoluti-
vo della tutela giuridica delle minoranze nel Paese, al fine di verificare
l‟effettiva attuazione dell‟Allegato n. 7 agli Accordi di Dayton, il quale rico-
nosce ai rifugiati il diritto ad un rientro sostenibile e privo di discriminazioni.
Nella parte iniziale si è cercato, quindi ,di approfondire le condizioni sto-
riche e giuridiche che hanno portato ad un cambiamento nei movimenti di po-
polazione e ad un nuovo modo di rapportarsi degli Stati rispetto ai migranti.
La dissoluzione dei sistemi socialisti e la conseguente fine del bipolarismo
hanno prodotto un aumento delle migrazioni dovute all‟instabilità politica che
ha investito molte parti del mondo, causando l‟acuirsi di conflitti già esistenti
e lo scoppio di nuovi in aree molto vaste. Il secolo appena trascorso, infatti, si
è concluso con un ventennio caratterizzato da un rinnovato scontro tra etnie,
nazionalità, religioni e popolazioni differenti.
Da una parte si è assistito ad un‟intensificazione dei movimenti migratori
e ad una stabilizzazione degli immigrati sul territorio dei paesi di accoglienza,
che ha inevitabilmente condotto alcuni di questi ad interrogarsi sulle possibili-
tà e le modalità di una convivenza multietnica. Dall‟altra parte in molti Stati
sono riesplosi con violenza conflitti interetnici sopiti da tempo, rendendo di
fatto impossibile la convivenza. Così, accanto ai movimenti migratori connes-
si ai fenomeni di regionalizzazione e globalizzazione, continuano gli sposta-
IV
menti forzati di popolazione dovuti al particolarismo etnico, politico e religio-
so.
L‟Europa è il continente che maggiormente è stato coinvolto nei processi
di migrazione forzata, sia perché molti dei conflitti post Guerra fredda sono
scoppiati in aree interne al continente, sia per la posizione strategica rappre-
sentata dal bacino del Mediterraneo.
Questa situazione ha prodotto nel vecchio continente un approccio revi-
sionista nei confronti degli strumenti di protezione per i rifugiati, primo fra
tutti la Convenzione di Ginevra, che racchiude in sé una sfida alla tradizionale
nozione di sovranità, in quanto chiede agli Stati aderenti di tollerare e tutelare
la presenza di chi vive una condizione di rifugiato nel loro territorio.
I flussi migratori sono grandemente influenzati dalla gestione delle emer-
genze umanitarie da parte del Mondo Occidentale.
La necessità degli Stati Occidentali di assumere il controllo delle migra-
zioni forzate li spinge ad intervenire non solo con modifiche legislative, ma
anche con attività di contenimento svolte direttamente nelle zone di crisi at-
traverso progetti di sostegno alle vittime o addirittura con interventi militari.
Nel tentativo di porre una maggiore attenzione ai nuovi soggetti di diritto,
quali i singoli e le Organizzazioni Internazionali, dalla fine della Seconda
Guerra Mondiale ad oggi, si è delineato il passaggio dal modello di Wesfalia a
quello della Carta delle Nazioni Unite, che ridefinisce i rapporti tra gli Stati, i
quali si fanno promotori di un nuovo ordine mondiale, basato sulla volontà di
collaborazione interstatuale per difendere i diritti fondamentali e per collabo-
rare in ambito economico e politico. Si impone così il rispetto dei diritti uma-
ni e la dignità degli individui attraverso l‟entrata in vigore di norme interna-
zionali, con il preciso intento di diffonderne l‟universalismo.
Nel vasto panorama delle norme attuali di tutela degli individui, che su-
perano il modello di Wesfalia, particolarmente innovativa da un punto di vista
giuridico risulta la Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti
dell‟Uomo e delle Libertà Fondamentali del 1950. Questa prevede la possibi-
lità per i singoli cittadini di agire per vie legali nei confronti dei propri gover-
V
ni, autorizzando la Comunità internazionale ad interferire a vari livelli nelle
politiche interne alle singole nazioni.
La seconda parte del lavoro è stata interamente dedicata ad un‟analisi appro-
fondita della condizione dei rifugiati e degli sfollati nel mondo, ponendo una par-
ticolare attenzione alla situazione delle IDPs e alla loro tutela giuridica.
Durante la Guerra Fredda è emersa, infatti, la necessità di istituire un organo
internazionale a tutela delle persone costrette a lasciare il proprio Paese. A questo
scopo è nato tra il 1950 e il 1951 l‟UNHCR (United Nation High Commissioner
for Refugees). Nello stesso periodo è stata stipulata la Convenzione di Ginevra
sullo status di rifugiato. Questa rappresenta un importantissimo strumento di pro-
tezione di cui possono usufruire tutti i rifugiati, ne sancisce i diritti e i doveri e
disciplina le norme che gli Stati di accoglienza devono adottare nei loro confron-
ti.
La Convenzione del 1951 si rivolge però solo a coloro i quali sono stati co-
stretti a fuggire dal proprio Paese a seguito di avvenimenti verificatisi anterior-
mente al 1 gennaio 1951. Con il Protocollo del 1967 la Comunità internazionale
ha esteso detta tutela anche a coloro che hanno chiesto lo status di rifugiato a
causa di eventi avvenuti dopo tale data.
Ancora oggi la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967 rappresentano
le pietre miliari dell‟apparato giuridico internazionale concernernte la protezione
dei rifugiati.
Una considerazione a parte merita il fenomeno del displacement, dramma
dalle proporzioni gigantesche, in realtà sempre esistito, che assume oggi una rile-
vanza particolare, perché colpisce soprattutto popolazioni che vivono in aree ge-
ografiche già poverissime.
Gli sfollati (IDPs) sono, pertanto, soggetti ad un particolare stato di precarie-
tà, soprattutto quando è la loro stessa nazione la causa della loro sofferenza. Il fe-
nomeno del displacement si sviluppa, infatti, esclusivamente all‟interno degli
Stati, i quali non hanno alcun interesse a fornire i dati relativi al problema di cui
essi stessi sono responsabili e che investe i diritti di quei cittadini che proprio loro
dovrebbero tutelare. Solo da pochi anni la Comunità internazionale dispone di
una migliore qualità di informazioni, che permettono di delineare la reale dimen-
sione del fenomeno. Prima del 1992 non esisteva neppure una precisa definizione
degli sfollati, i quali non rientrano né in quella di rifugiato fornita dalla Conven-
VI
zione di Ginevra né in quella del Protocollo aggiuntivo del 1967. L‟espansione
mondiale del fenomeno, infatti, si è cominciata a monitorare solo dal 1998, grazie
al lavoro condotto da Francis Deng, il Rappresentante Speciale dell‟UNHCR per
le Internally Displaced Persons, al quale va il merito di aver fornito una defini-
zione generalmente riconosciuta delle IDPs all‟interno delle Nazioni Unite e di
aver redatto i Guiding Principles on Internal Displacement, cioè l‟insieme delle
norme che regolano i comportamenti da seguire al fine di preservarne i diritti.
L‟organo delle Nazioni Unite che più di tutti ha raccolto l‟impegno di tu-
tela delle IDPs è l‟Alto Commissariato per i Rifugiati, il quale è costretto a
muoversi con molta circospezione, nel timore di incrinare i rapporti con il go-
verno ospite e di compromettere così la sua capacità di assistenza ai rifugiati
di quell‟area. La ricerca di soluzioni a questo problema è, dunque, ancora agli
inizi ed un reale sviluppo dell‟analisi e della strutturazione di un piano di pro-
tezione per le IDPs, è ancora ad una fase embrionale.
Si è scelto di dedicare la terza parte di questo lavoro ad un‟analisi delle
nuove guerre che si sono generate negli anni successivi alla Guerra Fredda ed
a una riflessione sulle cause che hanno condotto al declino dello Stato Jugo-
slavo, perché, attraverso la comprensione delle molteplici implicazioni della
guerra, possano essere abbandonati gli stereotipi che vedono nello scontro
delle etnie e nei nazionalismi l‟unica vera origine delle ostilità, dimenticando
la specificità della cultura bosniaca che è invece, da sempre, caratterizzata da
un intrinseco pluralismo. Il conflitto, che in un primo momento aveva coin-
volto soltanto la Comunità Europea, ha visto successivamente il rapido inter-
vento delle Nazioni Unite, ed è stato alla fine risolto con l‟azione armata delle
forze NATO.
Il Trattato di Pace, firmato a Parigi il 14 dicembre del 1995, ha successi-
vamente dato forma alla nuova Bosnia-Herzegovina.
Nell‟analisi che segue si è ritenuto essenziale esaminare l‟assetto politico
ed istituzionale di questo nuovo Stato, nel tentativo di cogliere, nelle soluzioni
adottate, quel compromesso che si era cercato di realizzare a Dayton tra gli at-
tori internazionali ed i Paesi confinanti che avevano combattuto, e premevano
ancora, per mantenere un controllo forte nelle rispettive aree di influenza.
VII
Il progetto della Comunità internazionale, infatti, intendeva promuovere
una soluzione unitaria e di continuità con l‟entità preesistente, evidente so-
prattutto nel mantenimento, per il nuovo Stato, dei confini già riconosciuti a
livello internazionale. Come contrappeso alle rigide divisioni etniche della
Bosnia-Herzegovina postbellica, resesi necessarie per porre fine alle ostilità,
si è tenuta in grande considerazione la tutela dei diritti umani nella fase di ri-
costruzione dello Stato.
I Paesi confinanti sembravano, invece, intenzionati a realizzare ambienti
etnicamente omogenei, allo scopo di conservare su di essi i rispettivi poteri di
influenza.
L‟esito dei negoziati si è alla fine concretizzato nella creazione di due en-
tità separate, la Federazione di Bosnia-Herzegovina e la Republika Srpska, al-
le quali sono state attribuite molte delle prerogative proprie degli Stati sovra-
ni, assicurando loro la netta prevalenza sulle assai deboli istituzioni centrali e
legittimando, di fatto, il principio della segregazione etnica.
Con la scelta di privilegiare la tutela degli interessi vitali dei popoli costi-
tutivi, le parti in conflitto hanno però contribuito alla nascita di un sistema po-
litico scarsamente efficiente, basato sostanzialmente sulla mera spartizione
delle cariche istituzionali tra rappresentanti dei maggiori gruppi etnici.
Nella parte del lavoro che segue sono state affrontate quindi le varie fasi
del processo di implementazione del Trattato di Pace di Dayton, affidato quasi
esclusivamente, in un primo tempo, alle maggiori Organizzazioni Internazio-
nali e coordinato dall‟Ufficio dell‟Alto Rappresentante, la cui linea politica
veniva costantemente indirizzata dal Peace Implementation Council.
La storia della ricostruzione delle istituzioni bosniache ha visto a lungo
contrapposte le spinte centrifughe della Repubblica Serba e dei Cantoni croati
della Federazione, da una parte, ed il tentativo della Comunità internazionale
di creare un unico spazio multinazionale, dall‟altra.
Nel dicembre del 1997 i poteri dell‟Alto Rappresentante, che fino ad allo-
ra si erano dimostrati inadeguati a contrastare le istanze nazionaliste, sono sta-
ti fortemente incrementati, fino ad includere la facoltà di rimuovere i soggetti
politici che si opponevano alla realizzazione dell‟Accordo di Pace, di imporre
VIII
provvedimenti amministrativi e di convocare le sedute delle istituzioni comu-
ni. Le modalità secondo le quali ciascun Alto Rappresentante ha fatto ricorso
a questi poteri sono state analizzate facendo riferimento, soprattutto, alle figu-
re di Wolfgang Petritcsh e Paddy Ashdown, dedicando un ampio spazio al
punto di vista dei molti osservatori su ciascuno dei due approcci.
In particolare, nel contesto di una graduale implementazione dell‟Accordo
di Pace, ha assunto fondamentale importanza la sentenza della Corte Costitu-
zionale bosniaca sui popoli costitutivi, che ha imposto una serie di emenda-
menti alle Costituzioni della Republica Srpska e della Federazione di Bosnia-
Herzegovina, nel tentativo di stabilizzare il sistema di Dayton in ordine alle
due entità e tre etnie, allontanando, temporaneamente, la necessità di nego-
ziare una nuova Carta costituzionale.
L‟analisi si è poi spostata sulle diverse iniziative che le Istituzioni Euro-
pee hanno intrapreso nel tentativo di favorire la membership bosniaca
nell‟Unione. Lo studio si concentra sul processo che tende al progressivo raf-
forzamento dello Stato centrale della Bosnia-Herzegovina verso la piena so-
vranità, basato, soprattutto, sul fattore attrattivo che la dimensione comunita-
ria può esercitare nell‟accomunare le aspirazioni di tutti e tre i popoli costitu-
tivi.
Attualmente, quindi, la Bosnia-Herzegovina sembra attraversare
un‟importante fase di transizione, guidata sempre più dall‟Unione Europea,
verso il generale superamento delle previsioni del Trattato di Dayton ed il
graduale disimpegno internazionale.
Nella ricostruzione del quadro generale della situazione bosniaca come
appare oggi, sono stati approfonditi i temi connessi alla tutela dei diritti uma-
ni fondamentali, evidenziando come il caso specifico della Bosnia-
Herzegovina abbia visto prevalere a lungo una tutela esclusiva dei diritti dei
gruppi etnici, piuttosto che del cittadino in quanto tale. L‟analisi ha riguarda-
to, inoltre, la complicata questione del diritto dei profughi e degli sfollati di
fare ritorno alle proprie abitazioni.
Successivamente si è analizzata la situazione degli spostamenti di popola-
zione nel dopoguerra. Alla fine del conflitto, infatti, la Bosnia-Herzegovina si
IX
presentava come un Paese diviso e privato di una gran parte delle sue risorse
umane. Gli scontri feroci che avevano travolto le tre comunità durante il peri-
odo 1992-1995 avevano causato la morte di 250.000 persone, la fuga di più di
un milione di rifugiati e circa un milione di sfollati.
L‟Allegato n. 7 agli Accordi di Dayton pone particolare attenzione al di-
ritto di profughi e rifugiati di tornare nei propri territori d‟origine, prevedendo
anche la restituzione delle proprietà pre-belliche e il diritto ad un compenso
ove ciò non fosse possibile. Nonostante siano stati fatti numerosi passi avanti
nella restituzione delle proprietà, grazie al Property Law Implementation
Plan, tuttavia ancora non ci sono dati affidabili sul numero di coloro che, una
volta rientrati, hanno deciso di rimanere nelle case riavute. Per molti, infatti,
non è semplice tornare a vivere nei luoghi in cui hanno subito violenza e che
hanno dovuto abbandonare con la forza; inoltre persistono forti ostacoli ad un
rientro sostenibile, specie per le minoranze, che spesso si trovano a dover
fronteggiare una costante discriminazione etnica, scarse opportunità di lavoro,
infrastrutture assenti o danneggiate dal conflitto. Purtroppo non è possibile
avere una stima accurata del numero effettivo di questi Abortive Returns, a
causa della mancanza di censimenti attendibili, visto che l‟ultimo risale al
1991. Un nuovo censimento potrebbe essere la giusta base per reimpostare le
politiche sociali in Bosnia-Herzegovina; tuttavia, il governo continua a ri-
mandare per evitare che un‟etnia dominante sulle altre possa essere causa di
nuovi scontri.
Nell‟ultima parte di questo lavoro, infine, si è cercato di approfondire la
tematica dei ritorni, soffermandosi maggiormente sui principali ostacoli ai
rientri di sfollati e rifugiati. Sono state individuate, inoltre, le nuove sfide a cui
la Comunità internazionale deve far fronte per garantire che gli Accordi ven-
gano effettivamente attuati in tutti i loro aspetti.
L‟Allegato n. 7 al Trattato di Pace ha, infatti, riconosciuto una notevole
rilevanza al problema dei rientri di profughi e sfollati nei luoghi in cui aveva-
no vissuto prima della guerra, allo scopo di contrastare le conseguenze della
pulizia etnica. Si sperava, in questo modo, di bilanciare la divisione territoria-
le, politica e nazionale che gli Accordi stessi avevano istituzionalizzato. Que-
X
sti, tuttavia, solo in apparenza hanno creato una cornice giuridica soddisfa-
cente per favorire i ritorni. Di fatto, le divisioni etniche del Paese e
l‟ostruzionismo da parte dei Governi locali hanno reso impossibile un signifi-
cativo rientro dei profughi e degli sfollati, per il quale si è dovuto aspettare
diversi anni.
Il problema maggiore riguarda soprattutto il reinserimento delle mino-
ranze, per molteplici motivi. Innanzitutto, gli Accordi di Pace di Dayton, pur
avendo fermato gli scontri, non sono riusciti a risolvere il conflitto etnico. Nel
tentativo di raggiungere un accordo accettato da tutte le parti, Dayton ha, di
fatto, creato un precario equilibrio tra unità e divisione e tra reintegrazione e
separazione etnica. Di conseguenza le minoranze sono state, e sono tuttora,
vittime di violenze ed intimidazioni, subendo anche discriminazioni di matri-
ce economica e sociale.
Tra gli ostacoli che si frappongono al ritorno di profughi e rifugiati, la
discriminazione sul lavoro è uno dei fattori di maggiore influenza. Le radici di
una tale discriminazione affondano nel periodo della guerra, durante la quale
sono stati attuati una serie di licenziamenti di massa dei lavoratori che appar-
tenevano alle altre nazionalità, che costituiscono il preludio delle successive
deportazioni forzate delle minoranze. Alla fine del conflitto pochissimo è sta-
to fatto per permettere ai lavoratori licenziati di essere reintegrati nei loro pre-
cedenti impieghi. Coloro che sono tornati alle proprie case vengono così si-
stematicamente discriminati nell‟accesso al lavoro. Questi fenomeni, perpe-
tuando la pulizia etnica originatasi nel corso del conflitto, hanno condizionato
negativamente il ritorno di sfollati e rifugiati alle proprie case. In altre parole,
la riforma delle legislazioni locali in materia di lavoro resta inadeguata ad af-
frontare il problema e per di più non viene applicata costantemente.
Un ulteriore ostacolo alla reintegrazione sostenibile si è tradotto nella
mancanza di un programma di sviluppo multiculturale dell‟istruzione. Tutti
gli studenti formalmente usufruiscono di pari diritti, ma, nella realtà quotidia-
na, le donne sono estremamente svantaggiate a causa, soprattutto, dei proble-
mi economici e della discriminazione sessuale. La situazione è anche più cri-
tica nelle aree rurali, dove la consuetudine sembra quella di non mandare a
XI
scuola le figlie, poiché i genitori non ritengono conveniente finanziare i loro
studi. Le più esposte al rischio sono le bambine e le ragazze di etnia Rom,
quelle appartenenti a nuclei familiari che si trovano ancora nella condizione di
profughi e quelle che vivono nei piccoli villaggi. La conseguenza è che, in
generale, tra le donne della Bosnia-Herzegovina il tasso d‟analfabetismo è
molto alto. Per contrastare questo fenomeno occorre una radicale riforma del
sistema scolastico che superi la discriminazione etnica e sessuale.
Nella creazione di un contesto adeguato al ritorno di profughi e rifugia-
ti occupa un posto di primo piano la possibilità di punire i crimini di guerra,
utile a diffondere un sentimento di sicurezza e a riportare una pace duratura,
non soltanto in Bosnia-Herzegovina, ma anche nell‟intera regione dei Balcani.
Nel marzo del 2005 è entrato in funzione un nuovo organo giudiziario
nazionale, la Camera per i Crimini di Guerra, con il compito di sostituirsi gra-
dualmente al Tribunale dell‟Aja, allo scopo di alleggerirne il lavoro, coordi-
nando i processi che sono già in corso. L‟entrata in funzione della Camera per
i Crimini di Guerra rappresenta un ulteriore progresso verso il rafforzamento
delle istituzioni e delle responsabilità dello Stato centrale, necessarie per con-
sentire alla Bosnia-Herzegovina il definitivo ingresso nell‟Unione Europea.
Nonostante i numerosi passi avanti compiuti dal Tribunale dell‟Aja, le Auto-
rità della Bosnia-Herzegovina devono ancora affrontare in maniera soddisfa-
cente le conseguenze del conflitto: solo l‟impegno delle autorità e la volontà
politica di portare di fronte alla giustizia i responsabili dei crimini di guerra
potranno, infatti, condurre ad una pace sostenibile.
Mentre il diritto di ritorno rimane essenziale, oggi si è molto in ritardo
su una risposta di protezione più completa, che preveda soluzioni che vadano
oltre il ritorno. L‟urgenza principale è l‟assistenza agli individui più vulnera-
bili, che richiedono un ampio supporto nel luogo di rifugio. Inoltre occorrono
maggiori sforzi per rendere effettiva la reintegrazione, l‟accesso alle attività
lavorative, ai servizi pubblici, all‟istruzione delle IDPs e dei rifugiati, senza
alcun tipo di discriminazione.
Nel 2007 è stata tracciata una Strategia di Attuazione dell‟Allegato n. 7
degli Accordi di Dayton, con lo scopo di risolvere la situazione dei rimanenti
XII
esuli dalla Bosnia-Herzegovina, che è riuscita ad ottenere l‟approvazione del-
la House of People nel giugno di quest‟anno. La Strategia rappresenta uno
sforzo significativo verso la soluzione del processo di ritorno nel Paese ed è
stata promossa con il sostegno della Comunità internazionale. Spetta ora alle
Autorità locali competenti il compito di assicurare l‟attuazione della Strategia
e consentire il ritorno dei rifugiati, assicurando inoltre un sostegno locale agli
sfollati che non possono rientrare nelle loro abitazioni.
E‟ difficile quindi immaginare una Bosnia-Herzegovina stabile senza
prima risolvere il problema degli spostamenti forzati di popolazione e le divi-
sioni etno-politiche. Nell‟attesa che la Strategia venga attuata, la situazione
dei profughi rimane sospesa in equilibrio precario.
XIII
CAPITOLO I
Le migrazioni e la globalizzazione
Negli ultimi dieci anni del XX secolo si sono verificati significativi cam-
biamenti nel rapporto tra economia e politica determinati dalla diffusione del
capitalismo.
Il secolo appena trascorso, infatti, si è concluso con un ventennio caratte-
rizzato da un rinnovato e, per certi versi, inevitabile confronto tra etnie, na-
zionalità, religioni e popolazioni differenti.
La diffusione di mezzi di trasporto veloci, lo sviluppo dei mass media, la
scomparsa dell‟URSS (come Stato e come polo di attrazione geo-politica) e
il crescente squilibrio economico e sociale tra Nord e Sud del mondo sono
solo alcuni dei fenomeni che hanno fornito caratteristiche peculiari a tale
processo.
Da una parte si è assistito ad un‟intensificazione dei movimenti migratori
e ad una stabilizzazione degli immigrati sul territorio dei paesi di accoglien-
za. Tale fenomeno ha inevitabilmente condotto alcuni paesi ad interrogarsi,
non senza passare attraverso momenti di tensione politica e sociale, sulle
possibilità e le modalità di una convivenza multietnica.
Dall‟altra parte in molti paesi conflitti interetnici sopiti da tempo sono rie-
splosi con violenza, negando la possibilità di convivenza multietnica e con-
1
ducendo, in molti casi, a scontri violenti e sanguinosi.
Così, mentre gli Stati dell‟Europa occidentale raggiungevano con la con-
clusione del trattato di Maastricht nel 1991 un traguardo importante nel
1
Cfr. Galli C., Spazi politici. L‟età moderna e l‟età globale, il Mulino, Bologna, 2001.
14
cammino iniziato a Roma nel 1957, alle porte della neonata Unione comin-
ciava la sanguinosa dissoluzione della Jugoslavia, che avrebbe messo subito
a dura prova la volontà espressa dai 12 paesi europei impegnati nel vertice
olandese di seguire una politica estera comune.
Lévi Strauss nel 1967 scrisse che: “si è visto come ogni progresso cultura-
le sia funzione di una coalizione tra culture. Tale coalizione è tanto più fe-
2
conda quanto più avviene tra culture diversificate”. In realtà la convivenza
tra culture non sempre ha dato luogo ad una feconda coalizione: la storia è
ricca di esempi in cui l‟incontro tra culture diverse ha significato la distru-
zione di una di esse e spesso di intere etnie. Lo scenario nell‟area balcanica è
ancora più complesso, poiché a periodi di pacifica convivenza tra le diverse
culture si sono alternati periodi di acerrima conflittualità.
Proprio nel momento in cui si parla di globalizzazione e di regionalizza-
zione come tendenze complementari, alle porte dell‟Europa sono rinati e
continuamente si alimentano, forti e sanguinari nazionalismi e particolarismi
culturali e religiosi.
Così, accanto ai movimenti migratori connessi ai fenomeni di regionaliz-
zazione e globalizzazione, continuano gli spostamenti forzati di popolazione
dovuti al particolarismo etnico, politico e religioso.
1.1 Le migrazioni interne al continente europeo
Le migrazioni interne all‟Europa si sono sviluppate con ritmi e caratteri-
stiche diverse nei vari decenni, a seconda dei differenti scenari che si sono
delineati sia dal punto di vista demografico-economico, sia da quello delle
politiche adottate dai principali paesi di destinazione di questi flussi.
Dal periodo immediatamente successivo alla seconda Guerra Mondiale fi-
no alla crisi economica degli anni Settanta, in molti paesi europei vennero
2
Cfr. Levi Strauss C., Razza e Storia, Einaudi, Torino, 1968, su www. nilalienum.it.
15
adottate una serie di politiche tese a facilitare e ad incoraggiare
l‟immigrazione di forza lavoro su larga scala. I vari paesi europei di acco-
glienza furono spinti da motivazioni simili ad aprire le porte
all‟immigrazione, anche se ogni Stato perseguì degli obiettivi politici parti-
colari. In un primo momento la necessità comune fu quella di disporre di una
domanda di manodopera consistente, tesa ad ovviare alle carenze di forza la-
voro interna per attuare la ripresa economica. In seguito, questa necessità
venne legata alle carenze settoriali di forza lavoro causate dalla rapida cre-
scita economica.
I maggiori flussi migratori europei di questo periodo ebbero come paesi d‟
origine l‟Italia, la Spagna, il Portogallo, la Turchia e la Jugoslavia e furono
diretti verso l‟ Europa nord-occidentale.
La politica dei governi nel periodo della ripresa economica del dopoguerra
tese a sfruttare al massimo la manodopera a basso costo, scoraggiando
l‟integrazione e la permanenza a lungo termine dei migranti, attraverso poli-
3
tiche restrittive riguardo ai ricongiungimenti familiari e alla cittadinanza.
I fenomeni migratori in Europa hanno subito dei cambiamenti fondamen-
tali a partire dalla fine del 1973. In questo periodo si assiste, infatti, alla ri-
duzione dell‟emigrazione di tipo tradizionale e ad un‟inversione di tendenza
del fenomeno dei rimpatri rispetto agli espatri. Di conseguenza si vennero a
creare forti squilibri nelle regioni di origine dei flussi migratori, causati sia
da un incremento della disoccupazione nell‟area, sia dalla sottoccupazione e
dalla marginalità di individui rispetto al mercato del lavoro. Inoltre, questa
inversione di tendenza nei movimenti migratori è stata più consistente
nell‟area dell‟emigrazione non qualificata, creando un nuovo contingente di
disoccupazione, che è andata ad aggravare una situazione in cui disoccupati
e sottoccupati già premevano sul mercato del lavoro nelle regioni di origine.
In compenso, l‟emigrazione divenne a carattere prevalentemente specializza-
4
to, al seguito di grandi imprese e verso nuove destinazioni produttive.
3
Cfr. Bussini O., Politiche di popolazione e migrazioni, Morlacchi Editore, Perugia, 2006.
4
Cfr. AA.VV., Le Migrazioni in Europa, CIFE, 2010, su www.cifeitalia.org
16
Gli anni Settanta, oltre a modificare drasticamente la struttura delle eco-
nomie dei paesi di ricezione, creando molti problemi connessi
all‟accoglimento degli immigrati, favorirono anche un progressivo abbando-
no in Europa della netta suddivisione fra paesi di emigrazione e paesi di im-
migrazione. In realtà, questa distinzione fenomenologica era iniziata a venire
meno già a partire dagli anni Sessanta, in corrispondenza del boom economi-
co raggiunto da alcuni paesi precedentemente poco sviluppati.
A partire dal 1973 fino all‟inizio degli anni Ottanta, si è assistito in Europa
5
al sovvertimento degli schemi migratori classici. Nelle regioni di destina-
zione, infatti, le politiche di rapida sostituzione dei lavoratori migranti, che
avevano caratterizzato gli anni precedenti, vennero rapidamente rimpiazzate
da nuove politiche di integrazione di contingenti più selezionati e più quali-
ficati di lavoratori migranti con le proprie famiglie, favorendo il consegui-
mento di importanti progressi nelle condizioni civili e sociali dei lavoratori
migranti e delle loro famiglie, a danno dei migranti non ritenuti necessari o
spinti al rimpatrio, e con restrizioni ai ricongiungimenti familiari di questo
tipo di immigrazione non desiderata.
Negli anni Ottanta l‟Europa meridionale divenne un polo di attrazione sia
per i paesi della riva Sud del Mediterraneo che per quelli dell‟Est Europa, il
cui flusso, peraltro, si intensificherà soltanto nel decennio successivo, a se-
guito del crollo dell‟impero sovietico. Accanto alla Francia, tradizionale me-
ta delle migrazioni internazionali dal secondo dopoguerra in poi, si istituiro-
no nuovi paesi di accoglienza in quest‟area: l‟Italia, il cui cambiamento si
era già avviato nel corso degli anni Settanta, la Spagna, la Grecia e, seppure
in maniera più ridotta, il Portogallo.
In questo periodo il superamento della crisi economica avrebbe dovuto
consentire la formulazione di politiche molto più aperte, volte a trattare il fe-
nomeno migratorio in maniera più armoniosa, anche in virtù del progressivo
allargamento della Comunità Economica Europea. Gli squilibri demografici,
5
Vedi Population Council, The United Nations on Levels andTtrends of International
Migration and Related Policies, in Population and Development Review, 2003, 29(2).
17
uniti ai forti squilibri economici esistenti tra Nord e Sud del Mediterraneo,
portarono in primo piano la questione delle politiche migratorie.
Con la Conferenza Internazionale sulla Popolazione Mondiale di Città del
Messico nel 1984 si cercò di affrontare il problema delle migrazioni a livello
universale, ma ai buoni propositi espressi nella Conferenza seguì la elabora-
zione di politiche migratorie che, pur essendo meno restrittive rispetto a
quelle degli anni Settanta, prevedevano ancora dei vincoli piuttosto stringen-
ti, a dimostrazione di una ancora incerta pianificazione in materia, originata
dal timore che una ulteriore ondata migratoria potesse aggravare le condizio-
ni economiche dei paesi di accoglienza.
Le politiche degli anni Ottanta spostarono la propria attenzione sui pro-
blemi legati all‟integrazione, quali il miglioramento delle politiche di inse-
diamento, un più facile accesso all‟abitazione, un miglioramento delle politi-
che di ricongiungimento familiare e di accesso gratuito all‟assistenza pubbli-
ca.
In questi anni si svilupparono nuovi fenomeni migratori tra i paesi
dell‟Europa centrale e orientale, i quali, prima dei mutamenti politici avve-
nuti tra il 1989 e il 1991, venivano considerati trascurabili. Dopo la caduta
del muro di Berlino, infatti, la ritrovata libertà di movimento da parte dei cit-
tadini dell‟Est fece temere un esodo incontrollato e senza precedenti verso
Ovest. Al contrario, non soltanto gli spostamenti di massa che si temevano
dall‟Europa centro-orientale, non si sono verificati, ma nel corso degli anni
Novanta si è assistito all‟inclusione delle nuove democrazie all‟interno di
una regione paneuropea di immigrazione.
L‟Europa dell‟Est è divenuta allo stesso tempo area di attrazione di flussi
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migratori: la migrazione di transito è stata la manifestazione principale di
questo fenomeno, ma nell‟Est si è anche manifestata una migrazione di per-
sone altamente qualificate, una migrazione di tipo etnico, e vi è stata una
crescente pressione di persone in cerca di asilo politico.
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Cfr. Livi Bacci M., Storia minima della popolazione del mondo, Il Mulino, Bologna,
2005.
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