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Come fenomeno sociale, la quantità dei bambini di strada cresce in maniera
inquietante in molte nazioni del Sud America. In Colombia i bambini tenuti in istituti
sono circa 20.000 ; quelli in stato di abbandono, nelle strade, sono oltre 400.000 ;
infine i minori in fuga dalle loro zone per motivi di scontri armati tra forze regolari,
guerriglieri e paramilitari sono circa un milione.
La popolazione più giovane è la più colpita dalle restrizioni che durante gli
ultimi anni hanno fatto crescere il debito estero, e non sfugge alle crisi politiche, ai
danni dell'economia instabile, all'inefficienza delle istituzioni pubbliche, alla crudeltà
del conflitto, ormai più che trentennale, con la narco-guerriglia.
Le possibilità dell’infanzia colombiana di inserirsi normalmente, con la
crescita, nel mondo adulto, si sono ristrette. Le offerte educative sono scarse; la
disoccupazione è alta; la famiglia, da tempo, mostra forti segni di disgregazione.
Le caratteristiche di insicurezza sociale, l’aumento della violenza e dei crimini,
le varie forme di disgregazione sociale provengono, in gran parte, dalle
discriminazioni e dall’impoverimento che alla Colombia vengono imposti dal
sottosviluppo e dagli interessi delle organizzazioni criminali che sono legati al
prodotto “droga”. Negli ultimi venti anni, circa l’8% degli abitanti si sono trasferiti
all’estero perché minacciati con le loro famiglie di sequestro o morte. Ciò ha fatto si
che ingenti capitali sono stati spostati in altri stati.
La situazione politica e socio-economica che attraversa il paese si ripercuote in
tutti gli ambiti della società, avendo come sua manifestazione, nelle città più grandi,
tra gli altri fenomeni, come la delinquenza, l’impoverimento, la crescita dei cinturoni
di miseria intorno alle periferie urbane, il fenomeno del bambino di strada, che si
presenta in varie forme, da meno tragiche a più tragiche, da meglio assistite ad
ignorate.
Quando mi decisi ad iniziare la mia ricerca sul gaminismo, dovetti andare in
Colombia e permanervi a lungo. Sbarcai, nel Natale del 1995, all’aeroporto El
Dorado di Bogotà di Santa Fé e non immaginavo la vera realtà vissuta da migliaia di
bambini nel paese. Ero stato altre volte in Colombia, ma proprio quella volta, data la
particolarità dello scopo della mia visita, ero giunto senza alcuna credenziale, né
politica né universitaria e ciò mi preoccupava. Certo contavo vecchie amicizie nel
Piano Orientale, ai piedi della cordigliera, ma non sapevo fino a che punto queste
persone avrebbero potuto aiutarmi o esporsi, data la situazione d'estremo pericolo a
causa degli attacchi dei gruppi in lotta.
Attendevo già da un pezzo che sul nastro trasportatore della sala arrivi
comparisse la valigia a seguito, quando la mia attenzione fu richiamata dalla figura
nera di un prete, ben piantato a dire il vero, che aveva già ritirato i suoi bagagli.
Veniva da Roma come me.
- Padre, le sue valigie sono arrivate tutte?
- Gentile signore, siamo in paese dove se lei ha pazienza la perde, e nel caso
che lei la benedetta pazienza non l’abbia, presto gliela faranno venire.
Il prete si fermò a parlare e mi chiese i motivi del mio arrivo. Mentre gli
esponevo il desiderio di poter avviare una ricerca sociologica sull’infanzia, in grado
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di darmi un quadro reale sulle cause che portano il bambino alla strada e sui rimedi al
problema, giunse sul nastro ruotante la sospirata valigia dove avevo premuto una
quantità di testi e fotocopie.
- Vede parroco, sono confuso perché non so dove è meglio cominciare, non ho
alcun supporto da parte dell'università La Sapienza.
Era come dirgli che, benché non fossi un emerito sprovveduto, credevo in
quell’aiutati che Dio ti aiuta che, per molti, spesso ha l’esatta funzione di assicurare
loro che un qualcosa, poi, realmente si avveri. Gli occhi del prete brillarono un attimo
nella penombra che cadeva su El Dorado per l’approssimarsi di un temporale.
- Qui ci bagneremo. Facciamo così, venga a trovarmi domani mattina, ecco
l’indirizzo. Al portiere dica che don Paolo la sta aspettando.
L’idea di un aiuto mi diede coraggio. Presi alloggio nell’hotel Capital, nei
pressi dell’aeroporto e dopo avere fatto una doccia ed essermi nutrito, riordinai le
carte e i miei numeri di telefono. Avvisai alcuni amici dell'Università Sergio
Arboleda che ero giunto nella capitale e che mi sarei fatto vedere dopo qualche
giorno. La mattina seguente mi feci accompagnare da un taxi e il tassista, notata la
mia indecisione nell’uscire dall’auto, mi confermò che eravamo arrivati. Restavo
fermo dinanzi al cancello e mi rileggevo la targa in spagnolo che dichiarava
l’ubicazione della Commissione Episcopale. Un sorvegliante mingherlino uscì dalla
sua cabina e mi venne incontro. Mi chiese se poteva essermi utile in qualcosa e io
cercai di emettere un tono sicuro.
- Don Paolo. Ho appuntamento. Sono Luigi.
Tornò alla sua cabina e sollevò un telefono. Parlò con l’interlocutore senza
perdermi di vista. Uscì nuovamente. Mi disse di procedere diritto fino al cancello
centrale, oltre il piazzale. Sarebbero venuti a prendermi.
Un prete che indossava il clergyman uscì dall’ascensore e mi tese la mano con
aria amichevole, mi sospinse nell’ascensore.
- Sua Eccellenza il Nunzio Apostolico mi ha detto tutto. Oggi non può essere
qui. E’ arrivata una segnalazione di un attentato e la polizia ha stretto la sorveglianza.
Qui la vita è molto movimentata, non siamo a Roma.
Caddi dalle nuvole con un’espressione da ebete.
- Don Paolo è il Nunzio?
- Monsignor Paolo Romeo.
Che figura! Ma come si fa ad arrivare in un posto come la Colombia senza
conoscere il nome del Nunzio? E pensando di iniziare una ricerca sui bambini di
strada, per giunta! La mia presunzione, prima della partenza, mi aveva fatto pensare
al solo alla U .S. E. ma fortunatamente “don Paolo” si era reso subito conto del mio
errore e mi rimetteva sul giusto sentiero.
Il segretario mi fece sedere da un lato della scrivania, ma prima chiamò una
suora affinché mi portasse una tazza di caffè. Devo dire in verità che servì bene per
spegnere il senso di frustrazione che mi era caduto addosso per la magra. Il segretario
mi aveva fissato una serie di appuntamenti con persone che a Bogotà lavorano in enti
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ed organizzazioni per il recupero dei bambini di strada. Nel porgermi una busta mi
assicurò che era di Sua Eccellenza. La lessi all’istante.
“Non si perda d’animo. Non dimentichi che qui il problema principale è la
disgregazione familiare. Lasci da parte le biblioteche e gli enti di statistica e si metta
subito nella strada accompagnato dalle persone che le ho annotato. Sono certo che in
Colombia imparerà ad usare bene la sua ferramenta. Buona fortuna”.
Devo molto a Monsignore Paolo Romeo. La sua è stata per me una gran
lezione. Per tale ragione ho potuto completare il lavoro di ricerca sulla condizione
dell’infanzia colombiana.
Ho dovuto, all’inizio del mio lavoro, nel primo capitolo, necessariamente fare
una sintesi dello sviluppo sociale e della dinamica familiare ai tempi della conquista.
L’intuizione di un bambino coloniale diverso da quello europeo, muoveva la mia
curiosità. Ho tentato le possibili comparazioni e ne è apparso il tipo. Il bambino
colombiano attuale ne è l’erede e le sue precipue percezioni delle differenze etniche
sono interessanti. Ho poi presentato, nel secondo capitolo, la condizione storica
dall’infanzia in Europa, per comparare la diversità dei due tipi e ho evidenziato come,
in massima parte, l’infanzia colombiana, non essendo derivazione diretta della lunga
e multivariata esperienza che ha formato il bambino europeo, rimane diversa, nel suo
modo di essere e di ritrovarsi, da quella italiana, certo più fortunata. Nel terzo
capitolo, ho affrontato la problematica generale dei minori nel mondo e in Colombia,
puntualizzando le caratteristiche che assumano il fenomeno e le risposte date
attraverso i progetti nazionali e internazionali.
Prima di chiarire il contenuto del capitolo quarto, devo a questo punto fare una
precisazione che scaturisce dalla mia personale esperienza fatta, tra il 1996 e il 2000,
in seguito all’avvio, al completamento e al successivo rinnovo di una pratica di
adozione italiana.
L’immagine idealizzata del bambino, che in Europa l’adulto si è rappresentata,
dal medioevo ai nostri giorni, (ossia fino al consolidamento del sentimento
dell’infanzia all’interno della famiglia moderna), in Colombia si è formata in modo
differente. La rappresentazione del bambino europeo non può essere presa, da noi
europei, come unico parametro per verificare il sistema dei valori di una società come
quella colombiana. La natura simbolica e la natura reale, se si vuole confrontarle, in
Colombia, devono essere vedute in ottica diversa da quella che viene presentata in
Italia, vuoi dai mass media, vuoi dalle istituzioni, (come ad esempio i Tribunali dei
Minori, che nel rispetto delle Legge, e nel tentativo di garantire al massimo l’interesse
e il benessere del minore abbandonato, applicano alla stessa maniera, per i bambini di
tutto il mondo, parametri e limiti che, in un paese dilaniato come la Colombia, dove
minori di ogni età, in numero impressionante, sono “non protetti”, vengono a perdere
significato).
In Italia, mediamente, sono solo un migliaio i minori, in istituto, o presso
famiglie in affido temporaneo, che i Tribunali possono dare in adozione. In
Colombia, vertiginosamente, il numero sale a 400.000 e nessuna politica di adozione
è realmente in atto presso il parlamento italiano per aiutare, de facto, i bambini
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colombiani. Il problema non è solo colombiano, come qualcuno pensa. Riguarda ogni
europeo. L’importante è togliere, prima possibile, i minori dalla strada, perché la
Colombia non ha strutture pubbliche o private sufficienti per ospitare la gran quantità
di bambini in abbandono. In Colombia, per facilitare le adozioni, la differenza di età
tra minore e genitore, non esiste; nessuno si sogna di imporla. In Italia vi è
contraddizione quando si vede equiparato l’atto adottivo tra due infanzie il cui
soffrire è molto diverso. La differenza di età tra possibili genitori adottivi e minori
senza famiglia, non può fissarsi, come la legge italiana stabilisce, in un numero di
anni che, nella realtà colombiana, non ha senso intrinseco. Migliori e innegabili
risultati si avrebbero se un minore colombiano, piccolo per quanto si voglia, levato
dalla strada, luogo ove è destinato a restare e ad apprendere l’apprendibile, fosse dato
anche ad una coppia di vecchi italiani, che in qualche modo gli possono garantire un
tetto, un’istruzione e affetto, pur se di nonni. Fa più male sapere, a chi è a conoscenza
di questa realtà, che il minore colombiano passa, prima dei dieci anni, nella
prostituzione minorile, nel sicariato, nelle unità della guerriglia o, fondo del barile,
dinanzi alle pistole spianate dagli squadroni di “limpieza social” che ne buttano i
corpi crivellati nella spazzatura. La frase asettica che in Italia troppo spesso ho sentito
proferire da assistenti sociali, giudici minorili e politici, quando si è parlato di abolire
il limite di età tra adottante adottato, date certe estreme condizioni, “Se si facilita
l’adozione dei più piccoli, quale garanzia di essere adottati avranno poi i minori più
grandi tenuti negli istituti italiani”? in territorio colombiano suona fuori posto, data
la mancanza di coppie che desiderano adottare in rapporto al numero di ragazzi in
abbandono e data pure la scarsezza di mezzi delle istituzioni colombiane. Qui, parte
delle risorse prendono altra strada. Non si contano più i milioni di dollari spesi per
combattere la guerriglia e i danni provocati in anni da paramilitari e guerriglieri,
organizzati come eserciti.
Una nuova riflessione è necessaria. Nuove impostazioni devono essere date alle
iniziative a favore delle adozioni. Certo, come da più parti riconosciuto, bisogna agire
sulle cause dell’abbandono minorile, ma pure adeguare le misure di intervento. Il
disagio e l’emarginazione sono legati alla vita e alla crescita del bambino, perché
l’estensione della povertà ha radici profonde. Si deve aggiungere che spesso l’uscita
dal disagio è legata a cause culturali mediate dall’ambiente che determina il
comportamento, le valutazioni, il modo di vita e i rapporti tra le persone e le
istituzioni. L’impoverimento odierno delle periferie urbane non è un incidente di
percorso, ma il risultato delle attuali strutture economiche, sociali, politiche. Una
nuova animazione sociale è perciò necessaria come misura di prevenzione, dato che
l’educazione di bambini in condizione di disagio è un fatto eminentemente sociale.
Durkheim, in Educazione e Sociologia, scrive : “... in ogni società vi sono tante
educazioni speciali quanti sono i differenti contesti sociali. Persino nelle società
ugualitarie come la nostra, che tendono ad eliminare le differenze ingiuste,
l’educazione varia secondo le professioni. Non vi è dubbio che tutte queste
educazioni speciali si appoggiano su di una base comune, però queste educazioni
speciali variano da una società all’altra. Ciascuna società si forma un certo ideale
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dell’uomo, ed è questo ideale ciò che costituisce il polo dell’educazione. Per ciascuna
società l’educazione è il mezzo con cui essa prepara nel cuore del bambino le
condizioni essenziali della propria esistenza...”
Ogni tipo di popolo ha la sua educazione, che gli è propria e che può servire, a
noi, per ben definirlo, allo stesso modo in cui lo definisce la sua organizzazione
morale, politica e religiosa. L’educazione è l’azione esercitata dalle generazioni
adulte sopra quelle che non sono mature per la vita sociale. Essa ha per obiettivo
sviluppare nel bambino un certo numero di stati fisici, intellettuali e morali, in altre
parole socializzarlo.
Visitando un Progetto Pilota, che viene in questo caso, in forma sperimentale, a
sostituire il carcere minorile, mi colpì un’intervista, (fatta in presenza del direttore del
Progetto), che feci a un minore, diciamo Juan, e che voglio riportare di seguito.
“D. : Juan, da quanto tempo sei ospite del Centro Pilota ?
R. : Da due mesi, signore.
D. : Perché ?
R. : Mia madre mi picchiava perché rubavo delle cose dentro casa.
D. : Non capisco. Ti picchiava ?
R. : Si, mi legava e mi dava con un bastone. Sono scappato.
A questo punto interviene il direttore del Progetto che mi chiarisce che Juan era
scappato da casa, che aveva percorso molti chilometri a piedi altri due suoi amici,
anch’essi scappati da casa, e si erano diretti verso il Centro Pilota, dove già una volta
Juan era stato rinchiuso.
D. : E’ vero che sei venuto qui volontariamente ?
R. : Si.
D. : E quanto pensi di rimanerci ?
R. : Fino a che non mi buttano fuori. Ho portato con me anche due amici.
D. : Come ci stai qui dentro ?
R. : Sto bene. Però uno dei miei amici ieri è scappato.
D. : Perché ?
R. : Non so perché. Però la “limpieza” lo ha ucciso stanotte.
Rivolgo nuovamente lo sguardo al direttore e lui mi spiega che il ragazzo che è
rimasto ucciso è scappato. Di notte viene tolta la sorveglianza alla rete di recinzione
del Progetto Pilota che non vuole essere un carcere. I ragazzi devono capire che
stanno lì per essere reinseriti, che non sono considerati delinquenti comuni. Sono
ragazzi che, come gli altri, devono agire per libera scelta. Gli chiedo ulteriori
spiegazioni e il direttore mi dice che durante la notte è stato fatto un furto a uno dei
magazzini dove è custodito il necessario per i ragazzi. Viveri, sapone, vestiario. Sono
in corso le indagini. Probabilmente, chi ha commesso il furto ha dato incarico al
nuovo venuto di andare all’esterno del Progetto Pilota per piazzare la refurtiva e
procurare della droga. C’è stata una sparatoria della “limpieza”.
D. : Il tuo amico si drogava ?
R. : No signore.
D. : Secondo te perché gli hanno sparato la notte scorsa ?
R. : E’ successo altre volte. Non lo so.
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D. : Quanti anni hai ?
R. : Quattordici.
D. : Hai fratelli ?
R. : Cinque.
D. : Tua madre viene a trovarti ?
R. : No. Io sto qui per protezione.
Ancora una volta guardo il direttore che mi spiega che il ragazzo non è un
recluso ma un ospite che, per un caso eccezionale, si trova presso il Centro Pilota. Per
proteggerlo dalla violenza materna. Mi dice che non è compito del Centro dare
protezione : che sarebbe il l’Istituto del Benestare Familiare a doversene occupare. Io
continuo a fissare il direttore per avere altri dettagli che poi arrivano. “...Il Benestare
Familiare non ha i mezzi per proteggere tutti i ragazzi vittime della violenza. Mi sto
battendo per tenere qui Juan quanto più posso. Uscito da qui andrà nella strada perché
non ha altre alternative”.
Riprendo a parlare con il ragazzo.
D. : Juan, dove vivevi ?
R. : Nella strada, signore.
D. : Raccontami. La prima volta perché ti mandarono qui ?
R. : Perché prendevo a sassate mia madre.
D : Cosa dicesti al giudice ?
R. : La verità. Che lei mi picchiava.
D. : Lei ti picchiava e tu lanciavi i sassi.
R. : Si. Una volta mi ruppe un braccio.
D. : Juan, hai qualcosa in particolare che desideri chiedere al direttore
dell’istituto ?
R. : Si. Che mi porti a casa sua. Solo la domenica.
D. : Vuoi bene al direttore ?
R. : Siamo amici.
D. : Sai leggere ?
R. : Si.
D. : Dove hai imparato ?
R. : Da solo. Qui dentro.
D. : Cosa ti piacerebbe fare ?
R. : Studiare.
D. : Cos’è la ferita che hai alla gamba ?
R. : Lavorando.
D. : Dove ?
R. : Qui dentro.
D. : Che lavoro ti hanno dato da fare ?
R. : Devo rinchiudere i vitellini nel recinto.
D. : Qui non ti hanno curato ?
R. : Il direttore mi ha portato all’ospedale.
D. : Che ti hanno fatto ?
R. : Il gesso.
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D. : E dov’è il gesso ?
R. : Me lo sono levato.
D. : Perché ai tolto il gesso ?
Il ragazzo resta muto e io riguardo il direttore che rivela come il ragazzo si sia
tolto il gesso per farsi riaccompagnare all’ospedale così da poter uscire alcune ore dal
Centro Pilota.
D. : Ma dimmi, come si stavi nella strada ?
R. : Avevo degli amici. Facevano i lustrascarpe. Sono stati uccisi anche loro.
Uno aveva diciotto anni.
D. : Perché sono stati uccisi ?
R. : Parlavano molto.
D. : Con chi ?
R. : Con la polizia. La guerriglia pensava che erano spioni.
D. : Come passavi il tuo tempo nella strada ?
R. : Toccando il sedere alle ragazze e scappavo.
D. : Come ti guadavi da vivere ?
R. : Lustrando scarpe. Quando guadagnavo bene mi pagavo una stanza,
altrimenti dormivo nella strada.
D. : Quanti eravate nella stanza ?
R. : Quaranta.
D. : Hai ricordi di quando eri più piccolo ?
R. : No. Una volta mia madre picchiò mio padre.
D. : Hai altri ricordi ?
R. : No.
D. : Andavi a scuola ?
R. : Mi mandavano. Non frequentavo.
D. : Ricordi qualche tuo maestro ?
R. : Una maestra dell’asilo. Mi promosse a fine anno.
D. : Che altro ti piacerebbe fare ?
R. : Vorrei che qualcuno la domenica mi portasse a fare un giro fuori di qua.
Mi piacerebbe”.
Adesso credo di potere meglio spiegare lo spirito che animò la ricerca di dati
raccolti nel capitolo quarto. La necessità, principalmente, di arrivare a definire la
gravità delle condizioni in cui si trova la famiglia e l’infanzia in Colombia. Le
difficoltà di socializzazione sono innumerevoli e s'annientano migliaia di diritti ad
essere bambini, ogni ora, ogni giorno. Il problema di sopravvivenza della famiglia
colombiana ha origini antiche; dalle formazioni delle prime forme di aggregazione
sociale, formatesi subito dopo la conquista spagnola, alla famiglia costretta a vivere
nei cinturoni di miseria. Dalle politiche parassitarie adottate dai paesi conquistatori, ai
programmi economici del 20.mo secolo errati.
I disagi si sono aggravati anche per la instabilità politica, endemica; per la
nascita della guerriglia, a metà del XX secolo, che prima era comunista e poi è stata
narcoguerriglia, alleata delle grandi organizzazioni criminali internazionali, dedite a
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massacri e a sequestri di persona, avendo perso, i capi stessi, gli ideali di una giusta
rivoluzione popolare. La risposta alla guerriglia è stata il paramilitarismo, che ha
aggravato ancor più la crisi. La famiglia colombiana, indubbiamente, risente della
crisi economica e sociale che, a sua volta, è figlia delle crisi politiche e della
corruzione dilagante.
Tale stato di fatti, è certo, perdurerà fino a che non vi sarà un vero interesse
mondiale nei riguardi del disastro che affligge la Colombia. Il primo obiettivo,
inevitabilmente, dovrebbe essere il soffocamento del mercato della droga prodotta in
Colombia. Ma i lettori sanno bene quanto ciò sia difficile, aldilà di ogni idea politica
o religiosa.
Il capitolo quinto descrive l’Istituto de Bienestar Familiar Colombiano, che da
questo punto chiamerò IBFC. Esso è un ente che dipende dal Ministero della Salud ed
è responsabile del benessere della famiglia e del minore. Sono esaminate le sue
competenze, i suoi interventi e la maniera di utilizzare le organizzazioni non
governamentali, dette ONG, che collaborano con il Ministero suddetto per
l’attuazione dei progetti. Ma i mezzi a disposizione dell’IBFC sono quelli che sono e
mancano fondi sufficienti.
Nel capitolo sesto, infine, sono presentati i risultati della ricerca qualitativa,
dopo una breve descrizione della metodologia usata. L’analisi delle diciotto interviste
ai testimoni privilegiati si sviluppa intorno a quattro temi: 1) la condizione
dell’infanzia in Colombia; 2) il gaminismo; 3) le attività delle organizzazioni
governamentali e non governamentali; 4) i progetti delle organizzazioni nel campo
dell’assistenza al minore bisognoso. Il lavoro è chiuso dalle conclusioni.
Spero vivamente che la mia ricerca serva all’interesse del minore colombiano e
stimoli ad un più mirato intervento di quelle organizzazioni umanitarie che vogliono
davvero aiutare i minori colombiani.
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Capitolo Primo
Il processo di socializzazione in America del Sud durante
la colonizzazione dei secoli XVI e XVII.
1.1 La relazione stabilita dalle potenze europee con la civilizzazione del Nuovo
Mondo seguì un Modello di Dominazione ben preciso. In esso si mischiavano
elementi economici e ideologici (anche religiosi). Le quattro fasi, scoperta invasione
organizzazione dominazione, seguirono tempi precisi e costarono sangue da una parte
e dall’altra. Si piantò una complessa rete di istituzioni che assicurava il controllo delle
popolazioni autoctone, e i libri e registri scritti dalla “Real Audiencia” dicono che i
suoi membri furono considerati dagli spagnoli, inizialmente, persone di seconda
classe.
La società europea viveva, alla fine del 14.mo secolo, attanagliata dalla lotta
per la proprietà, dalle guerre per il potere, dalle epidemie di peste, dalle carestie. Il
contrasto tra povertà e ostentazione delle élite era molto forte. L’errore inevitabile dei
paesi invasori, fatale per i popoli del mondo appena scoperto, fu di trasferire nelle
nuove terre tali contrasti. Poco a poco civilizzazioni che non conoscevano né la fame,
né la proprietà, né gli stermini delle guerre, furono contaminati dal fanatismo europeo
e dalle ambizioni di avventurieri e politici.
La forma altamente disordinata in cui iniziò il processo di conquista del Nuovo
Mondo dopo il secondo viaggio di Cristoforo Colombo, con l’entrata in vigore del
così detto Sistema di Capitolazione, particolari facoltà rilasciate dalla corona di
Spagna ai conquistatori, dette luogo ad una serie infinita di soprusi e illeciti che si
tradussero nel rapido annientarsi della popolazione aborigena, come pure in lotte
sanguinose tra coloni e conquistatori, in seguito, per la divisione delle terre.
Le prime istituzioni create dalla Spagna per i suoi possedimenti oltreoceano
furono la Casa di Contrattazione (la prima fu quella di Siviglia del 1503) e, sopra di
essa, il Consiglio delle Indie. La prima aveva obiettivi commerciali, la seconda
politico legislativi. Seguirono le “Governatorie” che erano, nell’intenzione della
corona spagnola, organizzazioni amministrative dei nuovi territori, che dovevano
accertare e vigilare affinché le nuove terre non cadessero nelle mani di avventurieri e
scopritori non al servizio della Spagna. I reali si servirono anche di navigatori
stranieri, oltre che spagnoli; davano mandato affinché una spedizione partisse, ma
capitava che il capo non fosse designato da loro, ma dalla Casa di Contrattazione o
dal Consiglio. Capitava anche che il capo spedizione morisse o fosse destituito o
tradito dai suoi uomini, oppure succedeva che una spedizione spagnola scoprisse terre
che nello stesso periodo venivano percorse da truppe di altri stati ed era inevitabile
che ne nascesse uno scontro a colpi di fucili e di cannoni.
La prima provincia di “Terra Ferma” fu quella di Panama, stabilita nel 1515
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sotto l’autorità di Pedro Arias Davila e comprendeva numerose tribù native della
zona, come Veraguas, Chagres, Cariaries, Carabaries, Panamaes, Uriraes, Dururies,
Pacorosas, Comagre, Tubana, Darienes, Chames, Capeche, Chiruca, Pauca, Coiba,
Quema, Nata, Cutara, Aburena, Sobrara, Burica e altre, la maggior parte comandate
da un cacique sottomesso agli aztechi, che, molti sanno, confusero gli invasori con
divinità passate che venivano a riprendersi la loro terra, così come scritto nelle
profezie.
Gli indios, i veri padroni di tali lontane terre, (oggi in Colombia i loro
discendenti sono chiamati Indigenas), passarono dal giogo azteco a quello spagnolo e
si abituarono presto alla voce rabbiosa dei pezzi di artiglieria che, facendo una nuvola
di fumo alla bocca, trapassavano i muri maya, incaici, aztechi, che erano stati costruiti
dalle divinità per il bene e la difesa dei popoli.
Le scoperte susseguendosi, altri uomini giungevano dalla Spagna, decisi a
varcare l’oceano e con la ferma intenzione di stabilirsi definitivamente nella nuova
terra. Essi, prendendo possesso di una regione, come prima azione ufficiale,
facevano la ripartizione dei “solares”, appezzamenti che dovevano rispettare una
maglia reticolare nel cui centro si trovava la Piazza d’Arme o Piazza del Re,
fiancheggiata dalla casa del governatore, dalla chiesa, dal “Cabildo” o Giunta
ecclesiastica, e dalla “Real Audencia”. Quest’ultima cos’era?
I re di Spagna, per essere sicuri che oltremare tutto, o quasi, si svolgesse
nell’interesse della corona, stimolarono, qualche anno dopo la conquista, la nascita
delle “Audiencias” e le incaricarono di visitare le provincie per rilevare ogni
irregolarità. Esse giunsero ad avere poteri sommi, al punto che potevano processare
governatori e persino viceré. Ispezionavano le “haciendas” dove erano tenuti al
lavoro gli indios e dispensavano tratti di corda senza troppo lesinare, giacché,
nell’intenzione, vi era la volontà di tenere gli indios lontani dalle ambizioni che
affliggevano i colonizzatori.
Il piano primitivo delle nuove città contemplava la costruzione di mura di
difesa delle nuove città, in un primo tempo dagli attacchi degli indios, in un secondo
tempo, in particolare lungo la costa, dai bucanieri inviati a bella posta da sua Maestà
Britannica a solcare i mari delle Nuove Indie. Le nascenti città, in tal modo, parevano
più fortezze che centri abitati in espansione dal centro verso l’esterno. In tale
contesto, metà militare, metà civile, prese forma la nuova società.
1.2 A differenza degli invasori inglesi e francesi del Nord America, gli
spagnoli accettarono l’unione con le donne indigene come elemento essenziale per lo
sviluppo della colonia. Si andò profilando l’identità “criolla”, in un mosaico che
incorporò elementi autoctoni e ispanici, si dette origine all’identità latino-americana.
Le due invasioni, a Nord e a Sud del nuovo continente, ispanica e inglese,
iniziate rispettivamente con uno stacco di tempo di circa cinquanta anni, furono
differenti principalmente per il carattere religioso dato alla conquista, (cattolica,
anglicana o protestante), e per il diverso spirito colonizzatore che accompagnava la
conquista : era idea degli spagnoli, dopo averne tratto ricchezze, ritornare alla loro
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terra di origine. I coloni inglesi partivano dall’Europa con le famiglie, decisi a restare
sul nuovo continente.
Le differenti forme culturali che vivificarono le colonizzazioni hanno portato,
oggi, ad una differente maniera di sentire il colore della pelle nel Nord e nel Sud del
continente americano. Di clan xenofobi in Sud America non si è veduta formazione.
Di fenomeni come l’apartheid, in Sud America non se ne è sentita la necessità, anche
se non si può negare che esiste una differenziazione sociale di carattere etnico, eredità
del passato coloniale. Nel capitolo 2.7 sarà chiarita la percezione del sentimento di
etnicità da parte del nativo colombiano.
La prima voce che si levò, ufficialmente, contro gli abusi dei conquistatori fu
quella del domenicano padre Antonio de Montesinos, durante un sermone
pronunciato in una chiesa dell’isola detta Spagnola la notte di Natale del 1511. Un
secondo frate, padre Bartolomé de las Casas, fece rapporto alla corona che attuò, in
breve, leggi e cedole reali affinché i coloni trattassero gli indios al pari degli spagnoli,
ma la distanza da Madrid fece restare tutto come prima, anzi, venendo a mancare
mano di opera locale, si dette inizio a una massiccia importazione di negri come
schiavi.
L’educazione degli indios restò pertanto prerogativa unica dei frati missionari e
le decisioni sinodali di Santafé, nel 1555, sono considerate la base storica sulla quale
si cominciò a costruire la struttura per organizzare la vita sociale, religiosa ed
educativa di tutti gli indios, grandi e piccoli, nel Nuovo Regno. Non mancarono casi
di vescovi che si scontrarono oltreoceano con notabili per il trattamento riservato ai
nativi e richiami reali ai prelati, che in alcuni casi dovettero rientrare in Europa, come
il noto richiamo e la scacciata di tutti i gesuiti dall’America sotto il controllo della
Spagna, ripetutasi in due occasioni : il 7 giugno del 1767 per ordine di Carlo Terzo e
nel 1851 con un nuovo decreto reale. Nei due casi ne risentì il sistema dell’istruzione
dato che i collegi maggiori, come pure quelli con meno di otto missionari, furono
soppressi. Il potere civile non fu in grado di sostituire gli insegnanti per mancanza di
professori e di fondi economici.
Nel 1573 si promulgarono le Nuove Leggi del Patronato che marcarono la
divisione tra potere religioso e civile. Le leggi assegnarono ai religiosi il compito di
istruire i nativi. Fu possibile, dal 1576, ordinare sacerdoti i creoli, figli di spagnoli e
indie, e solo dopo la petizione al re e al papa del vescovo Zapata il diritto fu esteso ai
meticci, figli di spagnoli con negri. Solo nella seconda metà del 16.mo secolo ci fu
preoccupazione più viva per l’educazione. Per la fine del secolo si rimise in funzione
il collegio seminario di San Bartolomeo a Santafé, chiuso per mancanza di fondi nel
1586.
Dobbiamo, ora, renderci conto del significato della parola Castas. Con essa si
identificavano segmenti di popolazione dell’America ispanica, formati ognuno da
individui procedenti dall’incrocio fatto tra spagnoli, indios e negri che si creò sino
dall’inizio del dominio coloniale, a partire dal finale del secolo XV.
La monarchia spagnola tentò di organizzare la complessa società coloniale
attraverso la creazione di un sistema di governo basato sulla divisione della
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popolazione in “repubblica degli spagnoli” e “repubblica degli indios”. Però questo
schema risultò illogico sino dal principio, giacché sino dal primo insediamento sorse
una nuova generazione di meticci. Questi figli di soldati e donne indigene facilitarono
il radicarsi delle strutture di parentela indigena, basate sulla famiglia estesa,
rinforzando tali alleanze come elemento chiave della conquista. Nello stesso tempo,
quegli indios integrati nei valori della società ispanica, furono parte decisiva del suo
trapianto. Lo spazio occupato dalla nuova popolazione creola e meticcia fu molto
amplio e allo stesso tempo ambiguo a causa della sua estrema mobilità sociale. La sua
vita poteva svilupparsi nei pueblos indios, assimilandosi alla popolazione indigena,
come nei paesini e nelle città, e situarsi in uno status sociale impreciso che
permetteva di eludere la regolamentazione ufficiale - molto restrittiva nella
distribuzione delle cariche pubbliche - per mezzo dell’acquisto del suo “biancore”, o
per la prossimità economica alle élite formate da spagnoli peninsulari e spagnoli
americani. L’ultimo scalino della gente meticcia era formato per le castas. Il termine
generico era di uso comune nel 18.mo secolo, e poteva includere, a diversi livelli,
meticci delle più disparata provenienza etnica, uniformati dal solo fatto di appartenere
a uno status inferiore. Il numero dei meticci crebbe con rapidità e fu considerato dalla
amministrazione coloniale come fonte permanente di conflitti, derivanti, secondo la
suddetta amministrazione, dall’oziosità e dall’indolenza, caratteristiche salienti dei
meticci. Tanto i testi legali, come la letteratura descrittiva dell’epoca, tennero una
visione negativa delle caste e aumentarono, con ciò, la loro marginalità, che sfociava
in tumulti. Tutta la problematica relativa alle caste, suscitò accesi dibattiti tra deputati
americani e spagnoli, tanto liberali che conservatori, dinanzi alla Corte di Cadice fatta
riunire dal Re nel 1810.
Il territorio colombiano ha differenti qualità. Intanto due oceani, Atlantico e
Pacifico, bagnano, rispettivamente, a Nord e all’Ovest le due sponde. Una triplice
cordigliera divide da Nord a Sud il territorio. La zona ad est della cordigliera, fino
alla foresta amazzonica, andando verso il Brasile, è pianeggiante e si presta
all’allevamento del bestiame. I differenti gruppi di indigeni che abitavano l’America
Precolombina generarono, data l’orografia e il corso dei grandi fiumi, tutta una rete di
intercambi tra i gruppi, rete che permetteva di scambiare diversi prodotti e
conoscenze necessari alla sopravvivenza. Tale rete fu spezzata dai conquistatori e
vaste porzioni di territorio furono così isolate. Oggi, la situazione attuale colombiana,
le zone di guerriglia, paramilitarismo, coltivazioni illecite, sono eredità di quel
macroscopico errore. Bogotà è divenuta la capitale accentratrice di ogni cosa, dal
potere, di ogni tipo, alle popolazioni che vi accorrono da ogni angolo. La
conseguenza, col passare dei secoli, è stata una lenta progressiva inevitabile perdita
del controllo del territorio. Lo stato si è eclissato, così come fece la Corona spagnola.
Riprendere il controllo sarà molto difficile. Prima della scoperta la continuità dei
diversi territori indigeni facilitò il mutuo servizio dei popoli che occupavano
ecosistemi differenti. La vita di ogni giorno era cultura, apprendimento,
insegnamento e ciò per il valore della stessa vita. E’ la razionalità di quegli antichi
scambi e il modo antico di insegnare al fanciullo indigeno che può darci, se
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volessimo costruire un paradigma precolombino, il destino promesso per quei popoli
e queste terre oggi bagnate di sangue umano. Risorse come il cotone, piante tossiche
o medicinali, metodologie di cura erano gestite dagli indigeni. La trasmissione della
conoscenza era per tutti i bambini ; i più sensibili verso i fenomeni della natura erano
chiamati dagli sciamani per un maggiore apprendimento del riconoscimento delle
piante e dell’arte della cura. Ogni albero, ogni corteccia, ogni foglia, ogni seme esiste
per un preciso scopo e non se ne può perdere la memoria. In Colombia, fatta
eccezione per i popoli incas, nessun gruppo andino si avventurò per stabilirsi nella
parte ad est della cordigliera e pertanto le relazioni degli indios di questo lato non
furono mai marcate dai conflitti, (come accadde in Perù o Bolivia). Non era l’Eden
ma gli indigeni che vi dimoravano godevano di stabilità. La dottrina delle superiorità
razziale e della spada, portata dagli spagnoli, tentò di giustificare il sopruso, ma la
mancanza delle appropriate conoscenze da parte dei conquistatori e la cecità sociale
innescò la disgregazione che porta oggi ai loro eredi una problematica più che mai
violenta.
1.3 Come viene rappresentato il bambino al tempo della colonizzazione ? Se
andiamo ad ammirare il tipo di pittura sviluppato durante il 18.mo secolo da artisti
che vivevano nelle colonie spagnole, in particolare in Messico, potremo vedere il
modo di fissare su tela l’idea che nella mente di quegli artisti si formava circa la
rappresentazione della famiglia coloniale. Il gruppo familiare dipinto era formato dal
padre, dalla madre e da uno o due figli vestiti con gli abiti della casta di appartenenza.
Un'iscrizione sul quadro identificava il censo e segnava un albero genealogico, a
partire dal primo incrocio del capostipite spagnolo con l’india e poi con la nera. Molti
di questi dipinti furono ordinati dal viceré Fernando de Alencastre perché fossero
invianti in Spagna. La conquista spagnola ebbe importanti conseguenze
demografiche, la nuova popolazione aumentò continuamente di numero, sia in forma
naturale, per l’arrivo di nuovi coloni, sia per gli incroci con le donne locali. A causa
delle malattie potate dai conquistatori, la riduzione delle popolazioni indigene fu
drammatica. In un secolo si ridusse da 50 milioni a tre milioni. All’inizio della
conquista la popolazione in Spagna era di circa sette milioni. Gli indios che abitavano
l’ Amazzonia era circa sei milioni. Su di un territorio conquistato di due milioni di
chilometri quadrati, quattro volte la Spagna, le malattie esantematiche uccisero più
dei fucili e dei cannoni. Un numero di persone, circa sette volte gli abitanti della
Spagna d’inizio XVI secolo, perì. Nonostante ciò gli invasori popolarono 225 città e
mantennero vaste “haciendas”, dove gli indios, lasciati in libertà a causa della loro
vulnerabilità fisica, vennero man mano sostituiti dagli schiavi negri in arrivo
dall’Africa. Furono importati nelle colonie spagnole circa 550.000 schiavi. Il Brasile
ne richiese oltre 2 milioni. I vicereami spagnoli, in Sud America, inizialmente furono
due : quello della Nuova Spagna che comprendeva Mexico, Santo Domingo,
Guatemala, Guadalajara, le Antille, e l’America Centrale ad eccezione di Panama, e il
secondo, vicereame riconosciuto nel Perù, che comprendeva tutto il territorio
continentale dell’America del Sud ad eccezione di Panama e della costa nord del