4
INTRODUZIONE
Approfondire il tema dei detenuti immigrati in carcere significa
esplorare la condizione di coloro che, oltre a vivere il comune disagio
legato all’immigrazione in un Paese nuovo, l’Italia – che ha da sempre
assunto un atteggiamento oscillante tra rifiuto e ospitalità nei confronti
dei nuovi arrivati - subiscono il peso del fallimento del progetto
migratorio. L’immigrato detenuto, infatti, vive due volte il processo di
esclusione: al momento dell’ingresso in Italia e al momento
dell’ingresso in carcere, e vive due volte anche il senso di frustrazione
conseguente alla mancata integrazione. L’interesse per questo
argomento nasce dall’esigenza di valutare, mediante l’analisi di
ricerche, testi, articoli riguardanti questo tema, se il trattamento degli
immigrati in carcere e se le loro possibilità di reinserimento sociale
una volta usciti, coincidano effettivamente con quelle dei detenuti
italiani o se, invece, sia più opportuno ipotizzare l’esistenza di un
“doppio binario penitenziario”, che agisce comportando una
situazione di discriminazione nei confronti del detenuto immigrato.
Nel primo capitolo, dopo aver esaminato sinteticamente la
legislazione in materia di immigrazione, per dare un’idea di come le
leggi si stiano muovendo verso la chiusura delle frontiere e verso
l’inasprimento delle condizioni di vita, già difficili, degli immigrati,
vengono analizzati gli effetti che queste politiche poliziesche e di
allarme sociale producono, ed in particolare il nesso tra la ricerca
ossessiva della sicurezza, che queste politiche si prefiggono, la
criminalizzazione e la criminalità degli immigrati. Infine, viene
esposta la disciplina dell’espulsione dal territorio nazionale nelle sue
diverse forme e modalità attuative, la quale è divenuta, nella gran
parte dei casi, l’unica prospettiva per l’immigrato a fine pena.
Nel secondo capitolo viene affrontato il tema centrale del presente
lavoro, ovvero la condizione in cui, effettivamente, gli immigrati si
trovano a vivere all’interno del carcere. Un approfondimento a parte
5
viene fatto riguardo alla triplice emarginazione che è costretto a subire
il detenuto immigrato con problemi di tossicodipendenza, per
l’impossibilità, se “irregolare”, di ottenere un trattamento terapeutico
all’esterno del carcere. Inoltre, viene denunciata l’iniquità che si
abbatte sui detenuti immigrati, rispetto agli italiani, nella possibilità di
fruire dei benefici penitenziari riconosciuti dall’Ordinamento
Penitenziario. Infine, nel terzo ed ultimo capitolo, si giunge a
delineare il “problema del dopo”, ovvero le reali possibilità di
reinserimento di cui dispone l’immigrato all’uscita dall’istituto
penitenziario e, soprattutto, se sia sensato parlare di “reinserimento”
per queste persone, su cui, nella maggioranza dei casi, incombe
l’ulteriore pena dell’espulsione.
6
CAPITOLO I
LA CONDIZIONE DELL’IMMIGRATO IN ITALIA
1. La legislazione sull’immigrazione: cenni generali
L’Italia ha conosciuto a partire dagli anni ‘70, relativamente tardi
rispetto al resto dei Paesi europei, il fenomeno migratorio. Vi è stata
un’inversione di tendenza: da terra di emigrazione è diventata paese di
immigrazione. Da qui ad oggi il fenomeno migratorio è sempre stato
considerato un “problema” da affrontare tramite una legislazione dai
tratti ambivalenti, che, se da un lato tende all’“integrazione”, seppur a
metà e in un’ottica di non riconoscimento delle differenze culturali e
religiose, dall’altro ha come obiettivo quello di servirsi
esclusivamente della forza-lavoro immigrata, attraverso meccanismi
selettivi, che garantiscono l’esistenza e l’esercizio dei diritti ai soli
immigrati con un lavoro in regola.
All’arrivo dei primi movimenti migratori l’Italia si fa trovare
impreparata in quanto non dispone di una politica migratoria
formalizzata, nonostante nelle pratiche sociali si stesse già
consolidando un atteggiamento oscillante tra accoglienza e rifiuto nei
confronti dei nuovi arrivati, il quale connoterà i principi base della
legislazione in materia di immigrazione elaborata negli anni
successivi.
Le uniche norme previste erano contenute nel Testo Unico delle Leggi
di Pubblica Sicurezza del 1931, il quale regolava l’ingresso, il
soggiorno e il provvedimento di espulsione degli stranieri
(quest’ultima poteva essere disposta in caso di condanna per delitto,
per denuncia per alcune tipologie di contravvenzioni, per motivi di
ordine pubblico – il cui provvedimento non necessitava di essere
motivato). L’istituto del permesso di soggiorno non era disciplinato da
nessuna norma di legge, salvo l’esistenza di una prassi amministrativa
7
che prevedeva l’obbligo per gli stranieri di “presentarsi, entro tre
giorni dal loro ingresso nel territorio dello Stato, all’autorità di
pubblica sicurezza del luogo ove si trovano, per dare contezza di sé e
fare la dichiarazione di soggiorno”.(1) Il primo comma dell’art. 152
del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza attribuiva ai prefetti
delle province di frontiera il potere di respingere, per motivi di ordine
pubblico, gli stranieri non in grado di dimostrare la propria identità e/o
“sprovvisti di mezzi”.
Con la Legge 30 dicembre 1986, n. 943, recante: “Norme in materia di
collocamento e trattamento di lavoratori extracomunitari immigrati e
contro le immigrazioni clandestine” veniva data attuazione alla
convenzione internazionale dell’Organizzazione Internazionale del
Lavoro del 24 giugno 1975, n. 143 in quanto venivano garantiti
formalmente i fondamentali diritti per i lavoratori extracomunitari.
L’ingresso in Italia per motivi di lavoro veniva ammesso solo se lo
straniero fosse in possesso del visto rilasciato dall’autorità consolare
sulla base dell’autorizzazione al lavoro concessa dal competente
ufficio provinciale del lavoro. Il complesso normativo, dunque, non
prevedeva una vera e propria programmazione, bensì disciplinava gli
ingressi caso per caso, in relazione alle disponibilità occupazionali di
volta in volta manifestatesi; le quali, tra l’altro, erano subordinate al
previo accertamento di indisponibilità di lavoratori italiani e
comunitari aventi qualifiche professionali per le quali è stata richiesta
l’autorizzazione. Ecco dunque che viene confermato quanto detto
precedentemente circa la tendenza a considerare l’immigrato
unicamente in quanto risorsa occupazionale, funzionale
all’abbassamento del costo del lavoro.
Solo a partire dagli anni ‘90, con l’intensificarsi degli ingressi, si cerca
di adottare delle misure più incisive. E’ con la Legge n. 39 del 1990,
conosciuta come “Legge Martelli”, che viene elaborata la prima
regolamentazione organica ed esplicita della materia
dell’immigrazione. Vengono disciplinati l’ingresso e il soggiorno
degli immigrati per motivi, oltre che di lavoro, di studio, di famiglia,
di cura e di culto e, per conformarsi agli Accordi di Schengen, si è
8
provveduto a dettare nuove norme in materia di espulsione e viene
riconosciuto e ampliato lo status di rifugiato e il diritto di asilo politico
a esso collegato. Per quanto riguarda l’immigrazione non
documentata, la Legge Martelli introduce per la prima volta pene
detentive e pecuniarie, aggravate dalla circostanza del concorso per
delinquere. Come si vede, questa legge presenta forti ambiguità, in
quanto situata in mezzo tra pressioni verso la chiusura delle frontiere
esterne, da un lato, e la necessità di muoversi nella direzione
dell’integrazione, dall’altro. La stessa disciplina dell’espulsione ha
risentito di questo conflitto, infatti se da una parte vengono ampliate le
tipologie di reato che hanno come pena l’espulsione, dall’altra
vengono aumentate le garanzie riconosciute agli stranieri destinatari di
un provvedimento di espulsione, ad esempio viene stabilito che il
provvedimento del prefetto debba essere disposto con decreto
motivato. La seconda parte del testo si pone invece come un tentativo
di regolamentare l’aumento dei movimenti migratori degli anni ‘80,
mediante programmazione statale dei flussi di ingresso degli stranieri
non comunitari in base alle necessità produttive e occupazionali del
Paese. La Legge Martelli, inoltre, ha conferito un certo rilievo alla
logica delle “sanatorie”, ovvero all’adozione di misure straordinarie
finalizzate a concedere il permesso di soggiorno solo a coloro che
dimostrano la loro presenza nel territorio nazionale prima di una data
stabilita, precedente all’emanazione dell’atto normativo. Con questo
provvedimento, il legislatore si è limitato a sanare la posizione di
irregolarità in cui si trovava, per necessità, la maggioranza dei
lavoratori immigrati, assunti “in nero” per sottopagarli, ma non ha
tracciato un quadro organico per il futuro. (2)
Dopo una lunga gestazione senza una successiva conversione del
decreto legge 18 novembre 1995, n. 489, il cosiddetto “decreto Dini”,
si provvede, con la Legge 6 marzo 1998, n. 40 (conosciuta come legge
Turco-Napolitano), poi confluita nel decreto legislativo 25 luglio
1998, n. 286 (“Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”) a dar
vita ad un complesso normativo unitario e generale in materia di
9
immigrazione. L’aspetto centrale della legge Turco-Napolitano sta
nell’individuazione di due categorie di migranti, “regolari” e
“irregolari”, fortemente differenziate in quanto a riconoscimento dei
diritti fondamentali e alla stessa possibilità di soggiorno in Italia. Il
legislatore ha così determinato l’instaurarsi di una “logica binaria”,
che ha caratterizzato la politica migratoria italiana (3), in quanto, se da
un lato non vengono posti particolari ostacoli ad un immigrato
regolarmente presente in Italia di cadere nell’irregolarità, dall’altro
non è contemplata la possibilità, per un “irregolare”, di sanare la
propria posizione. Un immigrato regolare non può avere la certezza
che la sua stabilizzazione in Italia sarà duratura in quanto la sua
condizione è resa precaria a causa delle difficoltà poste al
mantenimento dei requisiti necessari al rinnovo del permesso di
soggiorno. I canali di ingesso regolare, inoltre, vengono resi
ulteriormente difficili da percorrere, se non impraticabili, per cui le
uniche possibilità di acquisire una posizione di legalità sono
rappresentate dall’istituto della sanatoria o dalla discrezionalità del
datore di lavoro che decide se regolarizzare o meno il suo dipendente.
Ciò dimostra l’assoluta inefficacia della politica degli ingressi prevista
dalla normativa in esame, o se considerata secondo un altro punto di
vista, la precisa rispondenza allo scopo di precludere i canali di
ingresso legale e di rendere precaria la condizione dell’immigrato
regolare. Se quest’ultimo vive in una condizione di lavoratore “in
prova” a scadenza indeterminata, all’immigrato irregolare è riservato
un “diritto speciale” (4): nuova creazione della legge Turco-
Napolitano è tra l’altro l’istituto della detenzione amministrativa nei
C.P.T.A. (Centri di permanenza temporanea e assistenza) nei quali il
migrante irregolare viene recluso senza aver commesso alcun crimine,
costretto a condizioni disumane, fino ad un massimo di trenta giorni,
“quando non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione
mediante accompagnamento alla frontiera, ovvero il respingimento,
perchè occorre procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti
supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero
all’acquisizione di documenti per il viaggio”.(5) La disciplina