8
CAPITOLO 1: LE DONNE E IL LAVORO
Dando uno sguardo al passato, si può affermare che la donna risulta essere il
membro più dinamico della società, quello che è mutato e sta mutando ancora
oggi i propri connotati in ambito sociale, economico e culturale. Pensiamo, ad
esempio, alla vita delle nostre nonne e bisnonne rispetto alla vita delle giovani
donne della attuale Generazione Y
1
. È un cambiamento radicale, avvenuto grazie
all’interminabile marcia nell’ambito dei diritti, dell’istruzione, del mondo del
lavoro, che ha portato il genere femminile da una condizione di assoluto
svantaggio ad una condizione di quasi parità. Quasi, perché sebbene le nostre
nonne abbiano lottato per ottenere nel 1945 il suffragio universale, le donne di
oggi lottano ancora per eliminare il divario salariale che subiscono (secondo il più
recente rapporto ONU, le donne guadagnano il 23% in meno degli uomini) e per
dimostrare che diventare madri non significa essere delle professioniste precarie.
Le pari opportunità tra i due sessi sono ancora una condizione lontana, ed è
necessario evidenziare l’incompiutezza di questo obiettivo per poter essere più
consapevoli rispetto a ciò che si deve ancora fare.
Per comprendere meglio il cambiamento avvenuto, si ritiene utile proseguire con
una breve digressione sull’evoluzione della donna nel mondo del lavoro fino ad
arrivare al contesto attuale.
1.1 L’EVOLUZIONE DEL LAVORO FEMMINILE
Già durante i decenni successivi all’Unità d’Italia, era documentata la presenza
delle donne nel mondo del lavoro. Difficile era, però, in quegli anni, avere una
classificazione delle donne per professioni, anche perché le stesse avevano
difficoltà nel definire la propria attività come “lavorativa”. Soprattutto le
1
Il termine Generazione Y si riferisce ai nati tra il 1980 e il 2000. Vengono chiamati anche
Millennials o Echo Boomers e seguono i nati tra il 1960 e il 1980, i quali appartengono alla
cosiddetta Generazione X.
9
contadine non riuscivano ad avere piena consapevolezza nel percepire la propria
attività (Taricone, Pisa, 1985).
Per i datori di lavoro la manodopera femminile era una risorsa favorevole. Per loro
natura, infatti, le donne erano abituate a lavorare tanto e docilmente percependo
già allora salari molto più bassi rispetto a quelli degli uomini.
Il lavoro femminile non era ancora ben riconosciuto, per tale motivo il loro operato
era caratterizzato da un’estrema precarietà.
La maggior parte delle donne erano impiegate in mansioni per cui non erano
richieste particolari doti cognitive o abilità tecniche straordinarie (Sitta, 1895).
Nelle fabbriche tessili preparavano e legavano i fili dell’ordito, nei lanifici si
occupavano della cernita delle lane, nell’edilizia erano addette alla costruzione di
strade e ferrovie, nelle miniere trasportavano i grossi e pesanti blocchi di
materiale: lavori duri che richiedevano tempo e fatica, ma non doti particolari
(Ortaggi, 1999).
Negli stessi anni, molte donne, trovarono occupazione nel commercio e nel
settore impiegatizio: segretarie, contabili, scrivane, commesse ed impiegate. Si
trattava di lavori apparentemente meno pesanti rispetto a quelli prestati
all’interno di industrie tessili e nelle miniere (Schwarzenberg, 1982).
Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 si ebbe un nuovo fenomeno: non più soltanto
la presenza di lavoratrici del ceto proletario, ma l’avvicinarsi al mondo del lavoro
di donne della borghesia. Il ceto medio aveva subito nel corso del tempo un
declassamento a livello economico, a questo si aggiungeva, da parte di queste
donne, una insoddisfazione personale nell’occuparsi soltanto dei compiti legati
all’accudimento della casa e dei figli.
Erano sempre più, poi, le donne che frequentavano la scuola, per cui si aprirono,
per loro molte più possibilità lavorative nei ruoli impiegatizi, nelle libere
professioni e in quei settori non dissimili per funzione al carattere materno proprio
della donna (insegnamento, professioni sanitarie, ecc.).
10
La presenza delle donne, in questo periodo, era ancora circoscritta nelle grandi
città. Il numero non era così elevato quanto l’impatto da un punto di vista sociale.
Questo nuovo fenomeno diventava sempre più interessante, tanto che sempre più
filosofi, sociologi, politici e giuristi iniziarono a descriverlo e documentarlo,
discutendo soprattutto la compatibilità tra la femminilità e la produttività (Scott,
1991).
A quell’epoca, la donna che lavorava al di fuori del contesto familiare era ritenuta
portatrice di disgregazione sociale e giudicata una cattiva madre che trascurava i
propri figli, proprio colei che per sua natura avrebbe dovuto prendersene cura.
Un altro timore era l’eccessiva indipendenza che il lavoro extra-domestico dava al
genere femminile, il quale veniva così a mancare o, per lo meno, a decrescere
l’autorità fino allora detenuta dal marito. Una donna che lavorava era una persona
che decideva, che poneva delle condizioni (Sitta, 1985).
La figura dell’operaia era paragonata ad un modello di femminilità più libera e ben
cosciente dei propri diritti. La fabbrica era ritenuto un ambiente corrotto e le
donne che vi lavoravano lo diventavano, a detta di molti, di conseguenza, sia da
un punto di vista fisico che morale (Bonomi, 1873).
Erano tempi in cui si era abituati ad una forte biforcazione di ruoli: il marito
instancabile lavoratore e la moglie che doveva occuparsi del benessere della
propria famiglia.
Qualcosa iniziò a cambiare con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la
necessità di poter avere gli uomini impegnati al fronte, fece sì che molte donne
fossero chiamate a rimpiazzare i propri mariti all’interno di fabbriche ed aziende,
alcune, addirittura, in ruoli amministrativi e direttivi (Palazzi, 1997); altre ancora si
sono dovute occupare del settore agricolo.
Se in precedenza, i lavori più pesanti ricadevano esclusivamente sugli uomini, la
Grande Guerra mise le donne in condizione di dover vangare, seminare, falciare e
11
guidare le macchine agricole (Bravo, 1980). Molti danni provocati dalla guerra
furono contenuti proprio dall’operosità di queste donne (Vaccari, 1978).
Nonostante ciò, appena terminato il periodo bellico, si sentì forte un bisogno di
sicurezza, le donne dovevano tornare ai loro “ruoli” ovvero a quelli di mogli e
madri. Perciò terminata l’emergenza, i mariti tornarono a casa e le mogli dovettero
tornare “in” casa (Palazzi, 1997).
Anche durante la Seconda Guerra Mondiale lo sviluppo del lavoro femminile trovò
non pochi ostacoli. Per i fascisti, infatti, l’ideale della figura femminile era quello
di moglie e madre, si accettava la donna lavoratrice soltanto per quei mestieri
ritenuti più consoni con la femminilità e soltanto finché, le stesse, non fossero
sposate (De Grazia, 2007). Alcune delle professioni ritenute più adatte al genere
femminile erano quelle della levatrice e della balia.
Anche nell’ambito dell’istruzione la donna era frequentemente occupata. Le
donne rappresentavano il 70% del totale del corpo insegnante soprattutto nel
contesto delle scuole elementari (De Giorgio, 1992).
La propaganda fascista si incentrò anche sull’importanza e la qualità della moda
italiana, in questo contesto ebbero grande sviluppo il mondo della moda e della
sartoria. Molte donne non solo cucivano e ricamavano per proprio piacere, ma
furono impiegate in fabbriche sartoriali, altre, invece, cucivano, su commissione,
presso la propria abitazione (Pende, 1933).
Per rendere più chiara la situazione sociale delle donne a quell’epoca è sufficiente
pensare al loro diritto di voto, come anticipato sopra, concesso dopo una lotta
tortuosa solamente nel 1945 e che sancisce un notevole traguardo: la donna da
suddita diventa una cittadina a tutti gli effetti.
Il valore di questa conquista non si esaurisce entro la sfera pubblica, ma si riflette
anche all’interno del privato e nella famiglia che inizia un processo di
rimodulazione verso un maggiore equilibrio tra donne e uomini (Cavaletto, 2017).
12
La società dei Paesi occidentali, negli ultimi anni, è notevolmente mutata e con
essa si è trasformato il mercato del lavoro. La società del secondo dopoguerra, che
si era sviluppata negli anni Sessanta, era, sostanzialmente, di tipo fordista, ovvero
basata sul lavoro a tempo indeterminato del capofamiglia. All’epoca, le famiglie
erano solide e di tipo nucleare. Si poteva contare su sistemi di protezione dei
cittadini contro i rischi della vecchiaia, della malattia, degli infortuni e della
disoccupazione. Verso la fine degli anni Settanta questo sistema iniziò a dare segni
di cedimento. L’ingresso della donna nel mondo del lavoro iniziò a creare nuovi
bisogni non previsti fino ad allora. L’interazione tra lavoro e famiglia ebbe come
conseguenza la necessità di un ripensamento e un potenziamento delle politiche
di welfare (Bosi, 2003).
Il mondo lavorativo per le donne è cambiato e tuttora sta cambiando grazie a due
fattori, uno oggettivo e l’altro soggettivo. Il fattore oggettivo riguarda le attuali
trasformazioni del lavoro. Si richiedono, infatti, sempre più competenze e una
professionalità meno improvvisata, le donne, in tal senso, sono pronte, spesso più
degli uomini, alla formazione continua. L’elemento soggettivo, invece, riguarda la
volontà e la determinazione che le donne hanno di potersi affacciare a nuovi
settori lavorativi come ad esempio l’ambito delle forze armate.
Considerando i giorni nostri, l’indagine condotta dall’ISTAT del 25 ottobre 2017,
specifica che gli ultimi quaranta anni, ad eccezione dei periodi di crisi economica,
hanno visto una costante crescita dell’occupazione femminile: dal 1977 al 2008 si
è passati da un tasso di occupazione del 33,5% al 48,1%. Dopo circa 7 anni in cui la
crescita è stata interrotta a causa della attuale crisi, nel 2016 torna a crescere e
nel secondo trimestre del 2017 si registra un 49,1% nelle donne tra i 15 e i 64 anni,
anche se permangono delle differenze sostanziali a livello territoriale: nelle regioni
settentrionali il tasso di occupazione femminile è del 59%, valore non troppo
distante dalla media europea, mentre nelle regioni meridionali la quota scende al
32,3%.
13
Da tale indagine emerge inoltre che, mediamente, in Italia le donne hanno un
grado di istruzione più elevato rispetto agli uomini. L’Italia, insieme alla Spagna è
il paese europeo ad avere il più alto tasso di istruzione della popolazione
femminile. Sono soprattutto le nuove generazioni a dare un maggior peso alla
propria istruzione scolastica.
Le donne, oltre ad essere più scolarizzate, difficilmente abbandonano gli studi,
persino al Sud, dov’è alto il fenomeno dell’abbandono scolastico precoce.
Nonostante l’alto tasso di formazione femminile, la transizione scuola-lavoro è
ancora piuttosto complicata.
L’occupazione femminile registra ancora notevoli differenze rispetto a quella
maschile. Le indagini sull’inserimento dei laureati nel mondo del lavoro mettono
in evidenza come per le donne sia più difficile trovare un lavoro adeguato al
proprio titolo di studio. Le laureate che, dopo quattro anni sono riuscite a svolgere
una professione consona al proprio iter scolastico, sono in totale il 67%, a
differenza dei colleghi maschi che sono in totale il 79%.
Altro divario sostanziale è quello retributivo, che verrà approfondito nel prossimo
paragrafo.
Le donne, inizialmente occupate in tutte le professioni a bassa qualifica, ora,
seppur con difficoltà, si stanno facendo strada nelle professioni dove è necessaria
una competenza maggiore.
Nel secondo trimestre del 2017, ad esempio, le donne occupate in tutte le
professioni intellettuali erano un totale del 19,2% vedendo un incremento
soprattutto tra le insegnanti di scuola secondaria.
Con il tempo è cresciuto anche il numero delle donne imprenditrici, nel 2017
hanno rappresentato il 26% del totale degli imprenditori, una cifra, ancora
totalmente sbilanciata rispetto a quella degli uomini.
Ma la disparità di genere riguarda soprattutto la ripartizione del carico di lavoro
extra lavorativo. Resta forte, infatti, il netto squilibrio nella ripartizione del lavoro
14
familiare. La donna è da sempre divisa tra impegni legati al lavoro retribuito e
quelli legati al lavoro non retribuito come la cura della casa e della famiglia (ISTAT,
2017). A partire da questa premessa, nel prossimo paragrafo svilupperemo la
questione della parità di genere, o meglio, in questo caso della disparità di genere.
15
1.2. PARITA’ DI GENERE
Nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite si dichiara
l’obiettivo di un’uguaglianza di genere: tutti gli uomini e tutte le donne dovrebbero
ricevere un trattamento uguale, senza subire discriminazioni.
Gli studi di genere, nati negli anni Settanta in Nord America, distinguono il sesso
dal genere: il sesso rappresenta un fattore biologico, in base al quale alla nascita
si viene identificati come femmine o maschi; il genere invece rappresenta la
risposta culturale e sociale del sesso ed essendo un prodotto culturale, come tale
non è innato ma appreso (Saraceno, Naldini, 2013).
A seconda del genere, agli individui vengono attribuiti caratteristiche, desideri,
atteggiamenti ritenuti appropriati rispetto a ciò che è considerato femminile o
maschile in una data società, trasformando in un costrutto culturale la sessualità
biologica. Per questo la società occidentale è stata definita “a discendenza
genderizzata”, dal momento che il genere diventa una categoria fondamentale
nella costruzione dell’identità (Balsamo, 2000).
Anche la famiglia è un prodotto culturale, in continua evoluzione e trasformazione,
che evoca universalmente un’immagine di cura. Ed è proprio la cura una delle
funzioni primarie della famiglia: un sostegno reciproco nella vita quotidiana di ogni
membro che vi appartiene. Ma la famiglia è anche un’entità economica produttiva
di consumo, poiché attraverso la ripartizione del lavoro dei membri si garantisce
la sopravvivenza. È qui che entrano in gioco le differenze di genere poiché, da esse
dipende il modo in cui vengono suddivise le mansioni all’interno della famiglia, che
come si è dimostrato precedentemente vede gli uomini garantire il lavoro
produttivo, mentre alle donne spetta quello riproduttivo, ossia quell’insieme di
attività indispensabili per permettere l’esistenza della famiglia stessa.
Lo stereotipo di genere in famiglia si inserisce a partire proprio dalla distinzione
tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo (Cavaletto, 2017).
16
Il lavoro svolto dagli uomini, producendo reddito, “portava (e continua a portare)
con sé anche il potere di decidere come allocare quel reddito, come spenderlo,
come distribuirlo e destinarlo ai diversi componenti”, e quindi ad esempio
decidere a chi spetta un’istruzione, chi poter sposare o chi possa lavorare
(Cavaletto, 2017).
Il lavoro svolto dalle donne, “proprio in quanto gratuito, restava invisibile, per
quanto indispensabile” (Cavaletto, 2017). Quindi nella famiglia vivono due
persone che si distribuiscono il carico di lavoro in base alle attribuzioni sociali di
genere (Saraceno, 2012). Inoltre, in base a come le differenti responsabilità
vengono attribuite, si generano diversi modi di adesione al mercato del lavoro,
diversi metodi per conciliare la vita lavorativa e quella privata, a dimostrazione del
fatto che il lavoro e la famiglia non sono due organi indipendenti, bensì fortemente
in relazione.
Oggi, sappiamo che l’asimmetria di potere all’interno della famiglia si è molto
ridotta, sebbene non del tutto azzerata.
Le studentesse di oggi, sono consapevoli di ricevere un trattamento paritario
rispetto alle loro scelte scolastiche, anche se in fase di orientamento, rimangono
delle zone d’ombra legate al genere (Cavaletto, 2015), incoraggiate da una
autosegregazione che le porta a scegliere percorsi di laurea umanistici a discapito
del cosiddetto ambito STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics)
ancora ritenuto una prerogativa maschile (Cavaletto, 2015).
Nonostante ciò, le donne rappresentano la maggioranza tra gli immatricolati
universitari, e sempre esse ottengono migliori risultati in termini di qualità e minor
discontinuità (Del Boca, Mencarini, Pasqua, 2012).
Conclusi gli studi, le donne italiane di oggi si propongono nel mercato del lavoro
con tutte le intenzioni per restarci a lungo, ma iniziano il cammino già in una
condizione di svantaggio, poiché si troveranno di fronte numerosi ostacoli: