V
l’interazione spontanea guidata proprio dal naturale interesse egoistico.
Grazie a tale acquisizione concettuale la scienza ha avuto l’opportunità di
rivedere le linee guida e le metodologie d’analisi delle scienze sociali come
l’economia, il diritto, la politica, la sociologia. Nell’economia, scelta ed
interesse individuale sono concetti facilmente applicabili. Nel diritto e nella
scienza politica, invece, il peso assunto dall’istituzione pubblica nella
determinazione delle regole ha reso più difficile apprendere questi nuovi
concetti. È probabile, dunque, che le acquisizioni fatte dalla scienza
economica possano fornire alla scienza politica e al diritto un valido aiuto
per trovare nuove vie più feconde.
1
1. L’agire collettivo tra Machiavelli, Smith e Olson.
L’analisi condotta dalle scienze sociali, e quella politica in particolare,
ignorarono il contributo di Smith e degli economisti. Gli scienziati sociali non
distinguevano molto tra studi economici e studi politici. Con l’adozione, a partire
dalla metà del XIX secolo, di strumenti matematici, del metodo deduttivo e un
approccio di tipo positivo la scienza economica si distanzia dalla scienza politica
in quanto quest’ultima rimane ancorata al metodo induttivo, a tradizioni e
argomenti di tipo verbale oltre che ad un approccio di tipo normativo. Ciò
avviene non solo perché gli scienziati politici ignorano gli strumenti economici,
ma anche perché gli economisti non utilizzavano quegli stessi strumenti, applicati
con successo alle scelte individuali ed economiche, per analizzare i
comportamenti dei soggetti coinvolti nelle decisioni politiche.
Quello messo in moto dalla scienza economica è un processo che è ancora
oggi lontano dal fornire tutte le spiegazioni ai perché di certi fenomeni complessi
come la crescita o il declino di una nazione o di un sistema economico. Esso pare
però contenere gli ingredienti necessari per adottare i giusti approcci scientifici.
La tradizionale teoria neoclassica pare, in certi casi, commettere l’errore di
non tener conto di certi aspetti della realtà, ma essa ha fornito un valido modello
per un’analisi scientifica che ha contribuito non poco allo sviluppo del mondo
occidentale.
Ciò che rende rivoluzionario, rispetto al passato, l’approccio è il porre come
punto di riferimento della riflessione teorica e dell’analisi scientifica l’individuo,
vale a dire le scelte che l’uomo compie, i comportamenti che esso assume in base
ai bisogni percepiti. Tutto questo una volta che l’individuo è inserito in un
ambiente e soprattutto una volta che egli entra in contatto con gli altri individui, e
quindi in un contesto sociale, e pone in atto delle interazioni e degli scambi con
esso. La teoria neoclassica è concepita, infatti, come teoria della scelta.
Secondo Smith, l’uomo, lasciato libero di interagire con gli altri uomini e
perseguendo quindi il proprio interesse personale, è in grado di effettuare degli
2
scambi reciprocamente vantaggiosi grazie al sistema dei prezzi relativi che, in un
mondo concorrenziale in cui i diritti di proprietà siano specificati e
l’informazione sia piena, fornisce i giusti segnali agli agenti sul mercato.
Ciò che pare mancare all’approccio neoclassico è la comprensione della
natura dell’attività sociale, di coordinamento e di cooperazione, che lo sviluppo
degli scambi, la specializzazione e la divisione del lavoro portano con sé come
condizione da realizzare. L’idea che la presenza dei costi di negoziazione possa
incidere sugli scambi, pareva inoltre rendere fantasioso l’ideale modello di
singoli individui che scambiano sul mercato in modo reciprocamente vantaggioso
senza bisogno di terze entità che avessero il compito di rendere possibile lo
scambio.
Smith, dunque, si colloca in quelle analisi dei rapporti sociali che partono
dall’assunto che l’uomo agisca secondo il proprio interesse egoistico. Da tale
presupposto fondamentale si diramano essenzialmente due strade. Una è quella
del contratto sociale, inaugurata da Hobbes, che sostiene la necessità di una
qualche forma di rinuncia da parte dei cittadini a favore dello stato affinché esso
risolva i problemi che la natura egoistica dell’uomo comporta. L’altra è quella
che, con Smith, adotta strumenti economici per dimostrare che è lo stesso
comportamento egoistico degli individui a produrre l’armonia sociale.
L’origine, dunque, trae le mosse da una visione pessimistica dell’uomo che
porta, secondo Romani, all’affermazione del modello del cosiddetto homo
oeconomicus e che ha poi una grande tradizione intellettuale (Sant’Agostino, La
Fontaine, Esprit, La Rochefoucauld).
La riflessione sulla natura dell’uomo che ha originato questo tipo di visione
può essere ricercata, per la prima volta nella riflessione politica, qualche secolo
prima degli economisti scozzesi, ed in particolare nell’Italia tra il XV e il XVI
secolo, quando si può agevolmente affermare che sia seguito per la prima volta
un approccio scientifico allo studio dei fenomeni sociali e in particolare storico-
politici.
3
Esiste un ambito letterario filosofico che costituisce, se non il primo passo,
quello che può aver tracciato un punto di discontinuità, per noi di una certa
rilevanza, rispetto al rapporto tra la politica come scienza (o teoria) e la politica
come azione guidata da un giudizio morale e subordinata ad argomenti teologici o
metafisici. Vale a dire, si distingue la politica studiata per quello che è da quello
che dovrebbe essere. In altre parole, si assiste ad un tentativo di separazione tra
politica e morale e alla costituzione di un realismo politico e di una scienza
politica.
Quest’ambito filosofico, letterario e storico si colloca negli anni della crisi
politica e istituzionale dell’Italia del ‘500, che è anche crisi degli ideali del
periodo precedente, quello dell’Umanesimo e degli “idealisti”, dell’uomo
virtuoso, padrone del proprio destino e vittorioso sulla fortuna.
L’attenzione degli intellettuali e degli studiosi si sposta dunque dalle creazioni
fantastiche e da una visione del mondo immaginaria e che trova nel letterario la
figura che pienamente rappresenta questo modo di pensare, alla realtà storica
vista con lucida oggettività attraverso gli occhi di un filosofo, di uno storico e di
un politologo che, attento ai destini degli stati, cerca di ragionare con coerenza
sui problemi esponendo gli argomenti e le relative possibili contraddizioni
secondo una prospettiva laica e pragmatica che poi significava mettere al centro
di tutto l’agire umano e la sua autonomia e libertà.
In questo ambito storico e culturale due scrittori come Guicciardini e
Machiavelli, forti delle loro esperienze, anche se con sorti diverse, di pratica
politica, si rendono conto quanto di problematico e critico ci sia nella condizione
umana in generale e di come questo si rifletta nelle istituzioni e nella storia che
l’uomo stesso inequivocabilmente disegna.
L’uomo secondo Guicciardini non è malvagio ma tende per sua natura a
perseguire l’obiettivo di far prevalere i propri interessi particolari, sicché è facile
che i buoni siano calpestati dai malvagi e, nonostante lo sbandieramento d’ideali,
esso, in quanto governato, rimane lontano rispetto ai governanti. Secondo lo
storico statunitense Felix Gilbert (1965) nella Storia d’Italia “Guicciardini
4
presuppone che l’interesse egoistico, la soddisfazione del “particolare” sia un
elemento fondamentale della natura umana, e il solo elemento permanente di
questa”.
Secondo Machiavelli la natura umana ha delle inclinazioni e dei sentimenti
che, per l’osservazione di fatti storici, “la realtà effettuale”, e non per condizione
presupposta dell’agire umano, diventa una regola generale e cioè la
predisposizione della situazione umana, e delle relative istituzioni, alla “ruina” e
alla sofferenza, a causa dei rapporti di forze che determinano la realtà.
Guicciardini aveva trovato negli interessi dei singoli, e nelle mire signorili
tiranniche, le cause degli inconvenienti che gli stati e le repubbliche del suo
periodo avevano subìto, minando il rapporto tra governanti e governati dove i
primi operassero nell’interesse dei secondi. Machiavelli considerava la causa
dell’instabilità delle repubbliche i mille modi inattesi, che egli chiamava
“accidenti”, in cui esse potevano cadere in rovina rendendone impossibile la
perpetuazione nel tempo.
Le soluzioni che Machiavelli e Guicciardini propongono risentono
dell’assenza della considerazione del “Principe” (e potremmo dire dei soggetti
investiti di uffici pubblici) come anch’esso individuo dedito al perseguimento di
fini terreni o ultraterreni e dell’attribuzione ad esso solo della caratteristica di
soggetto detentore del potere di imperio e che comanda nell’interesse del popolo.
La soluzione che essi propongono è di tipo, potremmo dire, hobbesiano. Non
bisogna però trascurare che l’analisi di Machiavelli e Guicciardini fanno dello
stato è più articolata di quanto sembri. Ad esempio, per il problema della
corruzione e soprattutto per lo scopo dell’azione politica che è quello di
permanere al potere dopo averlo conquistato e, a tal fine, risulta funzionale fare
affidamento su di una successione di élites, riconoscendo che per le classi che
sono al di fuori di tale establishment la possibilità di instaurare nuovi ordini di
cose è minima, a meno che non emergano le circostanze a ciò favorevoli.
Machiavelli, pur ipotizzando la possibilità di instaurare, in casi eccezionali,
regimi di tipo dittatoriale (l’uomo prudente), pensa a tale possibilità come offerta
5
dalla carta costituzionale, e ciò per evitare che per necessità essa debba essere
violata, e in ogni caso sempre come ultima alternativa alla “rovina” che poteva
sopraggiungere improvvisa a causa di “accidenti” imprevedibili. La concezione
che Machiavelli ha di quella che dovrebbe essere la repubblica, che per lui era il
sogno svanito, era utopica ma teneva conto di fattori finora ignorati. Machiavelli
si rende conto che le azioni individuali sono il risultato di motivazioni spiegabili
razionalmente e che, dunque, occorrerebbe una qualche organizzazione della vita
sociale che diriga tutti gli impulsi dei cittadini verso lo stato, mentre il principe
manipolerebbe gli interessi egoistici per i propri scopi. Questa concezione utopica
deriva dalla convinzione che l’uomo deve accettare l’idea di essere un elemento
della natura, che interagisce con il mondo circostante.
Guicciardini elabora invece una vera e propria teoria dello stato e si dedica ad
una sorta di ingegneria costituzionale cioè ai rapporti e all’integrarsi tra le varie
istituzioni. Per il Guicciardini, vi è la necessità di creare un equilibrio tra i poteri
in modo da affidare alla legge la sovranità al di sopra degli interessi dei singoli.
In ciò Guicciardini si differenzia dal Machiavelli che propone il Principe
come detentore della forza e della politica capace di superare i particolarismi,
anche in modo violento, ma si tratta di una componente, quello dell’uso della
violenza, che non verrà trascurata nella descrizione che, anche ai nostri giorni, si
fa delle caratteristiche di un modello di stato al suo nascere(D. North).
Si tratta dunque di riflessioni sia quelle sulla natura umana che quelle sullo
stato che, nonostante siano state formulate secoli fa, hanno un valore oggi e lo
hanno avuto nel tempo, anche se con periodi di oblio e quindi di restaurazione.
Non a caso, dunque, il realismo politico di Machiavelli ha dichiaratamente
ispirato quello di Vilfredo Pareto, nella sua dottrina sociologico-politica, ad
esempio quando riflette sulla natura umana e afferma che la rilevanza degli
interessi sul piano psicologico, fa di essi il fattore più decisivo delle dinamiche
sociali. Pareto considera le analisi storico-politiche di Machiavelli le uniche
dotate di un carattere di scientificità.
6
In entrambi questa impostazione realistica deriva da un approccio di tipo
positivo, secondo uno schema logico e sperimentale, e arriva ad operare una
analisi induttiva dell’azione umana traendo molte delle conclusioni raggiunte
dall’osservazione empirica della storia passata e presente.
A tutto ciò Pareto aggiunge, considerando che egli vive quattro secoli dopo
Machiavelli, riflessioni più approfondite ad esempio sul concetto di utilità che
una collettività dovrebbe cercare di rendere massima, risultato ottenibile solo in
un clima di libertà, attraverso un’azione politica che scelga i mezzi giusti con
criteri scientifici, ed equilibrando e dividendo i vari poteri e considerando varie
componenti, per quel fine, vale a dire la stabilità politica, il progr esso civile e la
prosperità economica.
Il realismo politico ha accomunato, secoli dopo Machiavelli e Guicciardini,
autori come Baruch Spinoza per quanto riguarda le riflessioni sull’ordinamento
politico, ed ha anticipato, per molti aspetti, quelle sull’ordinamento economico di
David Hume e Adam Smith.
La preoccupazione di Spinoza ad esempio era quella di costruire istituzioni
politiche che inducessero gli individui, motivati soltanto da considerazioni di
interesse personale, a promuovere gli interessi di tutta la collettività politica,
senza con ciò voler dare giudizi morali sul comportamento umano ma
considerando quest’ultimo un fatto empirico.
A tal fine, egli proponeva una distinzione tra norme costituzionali, frutto di un
consenso comune, e quelle ordinarie, per le quali si potevano adottare semplici
regole di maggioranza.
Sulla stessa strada Hume, preoccupandosi di dare un fondamento all’obbligo
di obbedire alle leggi diverso da considerazioni di filosofia morale, e adottando
invece un approccio scientifico alla politica fondando quell’obbligo sull’auto-
interesse, sostiene che le parti possano assoggettarsi a un contratto sociale perché
è nel loro interesse e le regole di tale contratto sono derivate socialmente.
Queste considerazioni aprono la strada ad un metodologia di analisi
dell’azione politica e sociale di tipo individualistico, senza però che ciò significhi
7
adottare l’individualismo come criterio prescrittivi dell’organizzazione sociale,
ispirando un nuovo modello di realismo politico quello di L. Von Mises e F. A.
Von Hayek. Per questi ultimi il realismo nega la possibilità di previsioni non
sorrette da un fondamento scientifico, cioè ispirate all’utopismo, costruzioni
puramente mentali o frutto di una costruzione metafisica o della fantasia e della
speranza. Concetti come quelli di classe sociale o di società sono delle
costruzioni mentali mentre vedono come metodologia di analisi per una teoria
dell’economia e della società l’ individualismo (individualismo metodologico) che
adotta il concetto di scelta come fenomeno basilare dell’agire e atto compiuto da
individui mossi dall’intenzionalità (più che dalla razionalità). Il mercato poi è
visto come luogo in cui tale fenomeno, tra individui indipendenti, si manifesta.
La teoria economica e sociale trova nella teoria della scelta validità scientifica in
un percorso coerente e, per questo, dotato del carattere del realismo.
A partire da Hobbes, il problema della cooperazione tra gli individui è stato
visto come un dramma di fronte al quale la soluzione migliore sembrava essere
quello che alcuni hanno definito, contratto sociale, e che altri invece hanno
definito lo “stato leviatano”, vale a dire lo stato mediatore in mezzo al conflitto
tra gruppi sociali aventi finalità redistributive.
Il problema della cooperazione poggia su di una concezione della società e
dell’uomo che potremmo definire di individualismo sfrenato, in quanto parte
dall’assunto di una natura umana guidata dall’interesse egoistico, ma
l’individualismo ha, in generale, portato a due strade opposte. Quella
contrattualista appartiene ad una tradizione intellettuale risalente al XVII e XVIII
secolo e che ha visto un revival negli ultimi trent’anni; quella basata sulle nuove
teorie economiche che si serve di strumenti quali la teoria dei giochi o le teorie
sui gruppi e che ridanno fiducia alla mano invisibile di Smith.
Il Contrattualismo è una dottrina politico-filosofica, che ha radici anche nel
mondo antico, e che ebbe la sua fase di maturità con la scuola contrattuale tra
fine seicento e inizi del settecento, quando essa si opponeva ai monarchi assoluti.
Ha come maggiori esponenti Hobbes, Spinosa, Locke, Rousseau e Kant.
8
Il contrattualismo di Hobbes e di Spinoza parte, pur con sfumature diverse, da
considerazioni analoghe sulla natura dell’uomo e adotta concetti quali il diritto
naturale e lo stato di natura. Hobbes descrive questi concetti come ambiti sui
quali non si può fare affidamento, perché l’uomo è guidato dai desideri e dalle
avversioni che lo spingono solo a difendere se stesso secondo le leggi della natura
suggerite dalla ragione, ma che sono leggi che l’uomo non rispetta per via del suo
egoismo. La legge, infatti, per essere rispettata ha bisogno di essere imposta con
la forza ed incutendo timore, cioè deve essere imposta da un sovrano che abbia la
forza di farla rispettare. Gli uomini devono, per dar luogo alla società civile,
stipulare tra loro un contratto sociale con cui essi concordano di conferire al
sovrano, che non è parte del contratto, il potere ed essi, diventando sudditi, si
obbligano ad obbedirgli.
Pufendorf, pur criticando la concezione conflittuale dello stato di natura
considerando l’uomo un essere incline alla socievolezza, conviene con Hobbes
sul fatto che esista nell’uomo uno stimolo ad appagare il desiderio della propria
convenienza. L’uomo, dunque, pur portato alla naturale socievolezza, non riesce
per mezzo di essa a dar luogo ad uno stato e ad una società civile in quanto ciò
comporta il sacrificio della libertà naturale mentre il rispetto della legge naturale
non basta ad assicurare la sicurezza agli uomini in una vita associata. Pufendorf,
sostiene che prima del contratto di governo esista un contratto sociale, in modo
che i cittadini costituiscano un corpo in grado di porsi come controparte del
sovrano. Con Hobbes invece il sovrano rimaneva fuori del contratto ed erano i
cittadini ad obbligarsi all’obbedienza verso di lui.
Lo stato di natura presentato da Locke non differisce molto da quello di
Hobbes, ma egli introduce delle innovazioni nel percorso teorico del contratto
sociale. Lo stato di natura, secondo lui, vede l’uomo non come un essere in preda
ai desideri sregolati, bensì soggetto a degli obblighi che egli è propenso a
rispettare, anche perché fin dall’antichità è stato abituato ad un governo a lui
preesistente. Locke comunque sostiene, come Hobbes, che in assenza di un
governo gli uomini si troverebbero in uno stato di guerra, proprio a causa dello
9
stato di natura, quindi essi devono rinunciare ai diritti naturali affidandoli alla
maggioranza e agli scopi per cui essi si associano. Le differenze rispetto a
Hobbes, non irrilevanti, risiedono nel fine che dietro a tutto ciò sussiste, vale a
dire il “pubblico bene”, e nel fatto che lo stesso sovrano avrà degli obblighi e non
agirà in modo arbitrario.
Il contratto sociale visto da Rousseau vede il popolo sovrano come entità
titolare dell’atto di istituzione del governo, senza che il popolo sia legato ad esso
da un rapporto di contratto. Il contratto invece coinvolge il popolo e quest’ultimo,
in quanto titolare della sovranità, delega al governo la propria volontà generale
sovrana, quasi secondo un rapporto di tipo fiduciario che è tenuto insieme dalle
leggi alla cui osservanza il popolo, e i suoi capi che esso stesso si è scelti, si
obbligano. Secondo Rousseau lo stato di natura deriva dai nuclei sociali originari
come la famiglia o le tribù a partire dai quali l’uomo arrivò poi a forme di
aggregazione che abbandonavano sempre di più lo stato precedente di vita
nomade e di isolamento, cedendo il passo ad altre che per la loro complessità
davano luogo alla necessità di un patto fondamentale tra i cittadini, in quanto la
vita sociale è superiore allo stato di natura fornendo dei benefici irrinunciabili. Il
popolo, dunque, rinuncia alla libertà naturale e acquista la libertà civile e la
libertà morale sottraendo l’uomo dai propri istinti. Ciò avviene attraverso una
qualche forma di associazione, e non con un governo cui cedere completamente
la propria libertà, in quanto ciò porta all’oppressione di alcuni uomini sugli
altri.Lo stato di natura secondo Rousseau va abbandonato, ma senza che ciò
significhi sacrificare la libertà, la persona e i suoi beni, inoltre, prima e dopo il
contratto ogni uomo dovrebbe obbedire solo a se stesso. Aver messo in questi
termini così difficoltosi, se non contraddittori, il problema del contratto sociale
significò per Rousseau, e per i suoi successori, contribuire a mettere in crisi la
stessa teoria contrattuale. La teoria, infatti, pur basata sul principio della
maggioranza e limitata alle questioni generali e non contenziose, non risolveva il
contrasto tra volontà generale e volontà particolari.
10
Kant, pur parlando di contratto originario invece che di contratto sociale,
non si discosta molto da Rousseau. Egli descrive il contratto originario come
un’emanazione della volontà generale dell’intero popolo, per cui, siccome tutti
deliberano su tutti, allora ognuno delibera su se stesso. Tutti rinunciano alla loro
“libertà esteriore” per poi ricevere la libertà stessa di nuovo, ma come membri di
una comunità. La teoria del contratto sociale sembra dunque non aver più
bisogno di trarre la propria utilità dal dover dare un fondamento all’obbligazione
politica, né dal dover dare una spiegazione all’origine dello stato. Ciò sembra
decretare la fine della teoria contrattualista in quanto i presupposti individualisti
vengono meno e lo stato si va delineando, con Hegel, come un’entità superiore,
che trova in se stessa la natura di ambito non distinto dalla società, per cui
l’appartenenza ad esso è, per gli uomini, qualcosa che è sottratto alla volontà
arbitraria e non ha lo scopo di proteggerne la proprietà e la libertà personale.
L’interesse per i problemi del contratto sociale non si esaurì con il momento
che potremmo definire classico, ma ha avuto un revival nell’ambito del pensiero
politico ed economico contemporaneo.
Filosofi come Rawls, Nozick, Ackerman si collocano nella fase che
potremmo definire di rifioritura degli studi, prevalentemente di scuola
anglosassone, legati ai problemi della convivenza civile, politica e sociale.
L’approccio di questi filosofi politici e morali, ponendosi come obiettivo l’analisi
del problema della giustizia sociale, si muove tra istanze egualitarie e libertarie,
cerca di conciliare l’individualismo con una giusta distribuzione del benessere,
nel tentativo di superare il principio dell’utilitarismo secondo loro fonte di
ingiustizia.
Rawls, autore nel 1971 dell’opera di grande successo intitolata “A Theory of
Justice”, critica l’utilitarismo in quanto, benché si tratti di una teoria elegante e
che adotta strumenti economici, va rigettata se contraria al principio di giustizia.
In questo senso si può agevolmente sostenere che Rawls si collochi nella
tradizione del contratto sociale e all’interno della tradizione della democrazia
costituzionale. Secondo Rawls l’egualitarismo preme per la redistribuzione della
11
ricchezza e il libertarismo ritiene tale redistribuzione un limite alla libertà degli
individui. I principi che possano superare tale divisione devono coniugare il
“principio della libertà equa”, che viene incontro alle istanze della libertà
personale, con il “principio della giusta equità delle opportunità e della
differenza” che prestano l’attenzione alla distribuzione economica. Gli individui,
secondo Rawls, devono raggiungere un accordo sulle regole fondamentali che
governano una società, in modo da stabilire un principio di giustizia, di cui essi
sono già in possesso, che conduca verso una società ordinata. Tale accordo deve
essere raggiunto attraverso l’ignoranza da parte degli individui, dei loro punti di
partenza e delle caratteristiche personali.
Le posizioni di Rawls hanno raccolto nel tempo molte critiche. Alcune di esse
interpretano Rawls come proponente di un modello che può riferirsi né più e né
meno ad una forma di welfare state e che sacrifichi più libertà di quanto sembri a
svantaggio dei gruppi sociali meno rappresentativi.
Nozick, poco tempo dopo, critica le impostazioni distributive di Rawls che il
suo approccio alla giustizia sociale comporta. Nozick, pur partendo da posizioni
antiutilitaristiche, offre una soluzione libertaria e cioè uno stato minimo che limiti
la propria funzione alla protezione dei diritti individuali della persona, il diritto
alla vita, alla libertà e alla proprietà. La posizione di Nozick è stata anch’essa
oggetto di critiche, ad esempio da parte di chi si chiede quale deve essere la
natura dello stato minimo da lui proposto, e se tale stato proprio perché minimo
non sia costretto ad offrire la protezione solo ad alcuni escludendo gli altri solo
perché la diversità di carattere rende difficile la convivenza tra gli individui in
una stessa comunità. Uno stato che deve forzare gli individui al rispetto di certe
norme a causa della diversità non sembra avere quel carattere di flessibilità
supposto, soprattutto se questa protezione è basata su principi morali. Ad
esempio, pare vi sia contraddizione tra il ruolo del mercato proposto da Nozick
come meccanismo di compensazione della violazione del diritto di proprietà e
l’adozione di considerazioni morali a riguardo della difesa da quelle violazioni al
fine di riportare l’individuo allo stato di benessere senza quella violazione, se non
12
attraverso un intervento redistributivo dello stato con strumenti come la
tassazione.
Hayek invece, mettendo in discussione lo stesso concetto di giustizia sociale,
in quanto privo di significato e rappresentativo di un valore puramente morale,
mette al centro del suo discorso la società libera la quale, portando ad un
miglioramento per tutti del livello di soddisfazione dei bisogni, porta ad una
situazione distributiva che non può essere giudicata né giusta né ingiusta. Per
Hayek è, anzi, lo stesso perseguimento della giustizia sociale a creare tensioni
sociali, a causa delle difficoltà che le politiche distribut ive comportano per
l’impossibilità di trovare in questo modo un accordo stabile.
Con Hackerman si assiste al tentativo di superare sia la posizione utilitarista
che quella contrattualista. Egli suggerisce il dialogo neutrale tra gli individui
come metodo superiore per risolvere il problema della giustizia sociale, in quanto
capace di fornire qualche informazione in più su quale possa essere per ciascun
individuo il concetto di utilità. Il metodo del dialogo neutrale, infatti, è alla base
del processo tra avversari come meccanismo che consente meglio di altri di
avvicinarsi alla verità in quanto consente di disperdere il minor numero di
informazioni grazie alla consapevolezza dei propri interessi che ciascuna parte
del dialogo ha. Questo consente di superare l’approccio utilitaristico basato solo
sulle valutazioni quantitative delle regole di distribuzione.
Come affermano Buchanan e Tullock in “The Calculus of Consent”:”La
teoria contrattualistica dello stato può essere considerata tanto un tentativo di
separare la teoria politica dalla filosofia morale quanto un tentativo di dedurre
la logica dell’organizzazione politica da un’analisi della scelta individuale”, ma
i contrattualisti attuali sembrano non essere interessati al dibattito sull’origine
dello stato ma bensì sono alla ricerca di una teoria alternativa per studiare i
mutamenti nelle istituzioni che già esistono. Buchanan e Tullock, pur
considerando Hume, fautore dell’autointeresse come fondamento dell’obbligo
politico, loro immediato precursore, accettano di collocarsi nella tradizione
contrattualista a patto però che per contrattualismo si intenda un tentativo di dare
13
una spiegazione marginale delle costituzioni politiche, per cui la prospettiva
contrattualista ha valore solo se trascura il tema della nascita delle istituzioni e si
concentra sui mutamenti istituzionali. Bisogna comunque dire che il
contrattualismo di Buchanan e Tullock si riferisce più che altro all’attenzione da
loro riservata alla costruzione di un modello di costituzione, e in particolare a
regole di votazione, che limiti la discrezionalità degli agenti attraverso sistemi di
automatismo che contengano in sé dei vincoli che indirizzino il comportamento
egoistico individuale. Tutto ciò avviene tenendo conto delle differenze tra lo
scambio di mercato e quello che avviene nel settore pubblico, ma cercando di
tenere sempre il modello del mercato come punto di riferimento in quanto esso
consente di mutuare strumenti concettuali come quelli dello scambio che possono
risultare molto utili. L’attenzione rivolta da Buchanan e Tullock per le
conseguenze in termini di costi sociali che l’agire collettivo degli individui
nell’ambito di gruppi d’interesse specifico comporta, avvicina i due economisti
più a orientamenti à la Olson che alla tradizione dei contrattualisti. Ciò è vero
soprattutto quando i due studiosi affermano che, finché il governo persegua
attività che forniscono benefici generali, gli individui non hanno interesse ad
organizzarsi in gruppi o associazioni rivolte a conseguire dei risultati dal processo
specifico.
Gli approcci seguiti dagli economisti o filosofi citati finora ha, bene o male,
convenuto sulla necessità di dover prendere qualche contromisura che
compensasse il carattere razionalmente, o se vogliamo istintivamente, tendente
all’egoismo dell’uomo in quanto ciò impedisce di raggiungere l’ordine sociale.
Tali contromisure sono sempre state attinenti alla presenza di una collettività che,
essendo destinataria delle decisioni riguardanti il bene comune, doveva essere
anche protagonista nel suo insieme della decisione. Le diverse posizioni che nei
secoli si sono avvicendate sembrano aver semplicemente offerto delle varianti di
come tale volontà collettiva dovesse esprimersi, e ciò ha dato la giustificazione
alla nascita dello stato, al relativo fondamento dell’obbligo politico e alla nascita
dei più svariati sistemi di elezione, di rappresentanza in queste entità della