6
Da quanto accennato, si evince chiaramente quale sia la rilevanza di tale
fenomeno e quali, di conseguenza, i motivi che mi hanno spinto a scriverne in
questo lavoro.
Essendo il principio cronologico alla base della mia tesi, ho voluto, nella
prima parte (capitolo I), tracciare un quadro storico del fenomeno in oggetto,
partendo dall’inizio del secolo scorso sino ad arrivare agli anni Ottanta.
Attraversando questo lungo arco di tempo, segnato da eventi storici (i due conflitti
mondiali) ed economici (il crollo di Wall Street) di fondamentale importanza, ho
cercato di mettere in evidenza i motivi scatenanti il fenomeno delle concentrazioni
bancarie, non limitandomi al contesto italiano, ma analizzando le realtà
economiche anche di altri importanti Paesi europei, Germania e Regno Unito in
primis.
Nella seconda parte (capitolo II), ho analizzato i motivi che, al giorno d’oggi,
possono spingere verso il consolidamento bancario e quali siano le determinanti
essenziali del fenomeno in oggetto di trattazione, ponendo particolare attenzione a
quei fattori (strategici, difensivi, catalizzatori, ecc.) in grado di motivare una
operazione di concentrazione.
Dopo una rapida analisi della fusione bancaria, considerata lo strumento
cardine nel panorama concentrativo internazionale, ho preso in esame le più
rilevanti innovazioni normative nel quadro legislativo italiano, le quali hanno
rappresentato una “svolta epocale” e hanno permesso al nostro settore bancario,
seppur in ritardo rispetto ad altri Paesi, di rimanere al passo di altre realtà
economiche più evolute, sia in Europa, sia nel mondo.
7
Nella terza ed ultima parte, si è cercato di intravedere il futuro
dell’intermediazione bancaria, soprattutto in relazione ai progressi della
tecnologia, l’utilizzo della rete Internet, intesa come fonte di espansione dei confini
bancari tradizionali, e lo sviluppo di innovativi modelli di banca “virtuale”, che
ridefinisce completamente il rapporto banca-cliente in un’ottica di velocità e
sicurezza di transazioni (capitolo III).
Tuttavia, è stata posta particolare attenzione anche ad alcuni modelli
organizzativi “tradizionali” di banca (capitolo IV): dopo un’analisi dei tre esempi
classici di conglomerato finanziario (tedesco, britannico e americano), ho rivolto la
mia attenzione al sistema bancario italiano, esaminandone le peculiarità e,
attraverso l’analisi dei dati resi disponibili dalla Banca d’Italia, individuando il
modello organizzativo più confacente alla situazione italiana. Inoltre, ho dedicato
particolare attenzione ai gruppi “federali” ed alle piccole banche locali di credito
cooperativo, tipologie emergenti nel panorama del nostro Paese.
Infine, ho cercato di analizzare la questione della Vigilanza bancaria
(capitolo V), soprattutto in tema di concorrenza, attraverso l’esame delle Autorità
preposte a tali compiti (A.G.C.M. e Banca d’Italia). Dopo aver considerato
l’evoluzione del quadro normativo italiano rilevante per la concorrenza, ho posto
attenzione, in particolar modo, alla ormai prossima entrata in vigore dell’Unione
Monetaria, agli inevitabili risvolti che questa avrà sui mercati comunitari
continentali e alla conseguente necessità di una normativa armonizzata in tema di
Vigilanza.
8
CAPITOLO I.
IL PROCESSO DI CONCENTRAZIONE
BANCARIA NELLA STORIA
9
1.1 Definizione del fenomeno
Il fenomeno delle concentrazioni tra imprese, ovvero la ricerca e il
conseguimento di dimensioni di impresa più efficienti attraverso l’utilizzo di
fusioni ed incorporazioni
1
, è una delle manifestazioni più caratteristiche dell’età
moderna e, da sempre, al centro del dibattito economico ed istituzionale, in quanto
affidabile indicatore dei cambiamenti in atto nel tessuto produttivo di ogni Paese.
Le concentrazioni costituiscono spesso l’unico strumento a disposizione
delle aziende per adeguare, in maniera rapida, la propria posizione all’interno della
realtà economica che le circonda, per fronteggiare le continue sollecitazioni
provenienti dai mercati, per entrare in nuovi ambiti economici
2
; inoltre, attraverso
tale processo, può verificarsi l'uscita dal mercato di tutte le imprese inefficaci,
minimizzando tuttavia i costi che di solito seguono le procedure fallimentari.
Tra i motivi che spingono le imprese a ricorrere a processi di
concentrazione, senza dubbio uno tra i più determinanti appare l’intenzione di
creare apparati economici maggiormente competitivi attraverso l’ampliamento
delle dimensioni aziendali: maggiori dimensioni significano, quindi, un aumento
dell’efficienza produttiva e, conseguentemente, l’affermazione sui mercati.
1
V. DESARIO, La concentrazione del sistema bancario, 1995.
2
F. PAPARELLA (a cura di), La fusione delle aziende di credito, 1993.
10
Inoltre, i cicli di concentrazioni che talvolta si verificano in alcuni settori
economici, oltre che mostrare le tensioni che sottendono tali comparti, possono
indicare nuove soluzioni tecnologiche, poiché l’innovazione di processi e di
prodotti è spesso il motivo che spinge le imprese al riposizionamento strategico
all'interno di un dato mercato.
In altri casi, è invece il processo di internazionalizzazione che spinge le
imprese a mutare le proprie dimensioni; l’obiettivo di tale comportamento appare
il raggiungimento di nuovi mercati di sbocco o l’intenzione di proteggere dalla
concorrenza esterna la propria posizione sul mercato interno.
Infine, le concentrazioni ricoprono un ruolo determinante “nel processo di
riorganizzazione della struttura dell’offerta di settori attraversati da crisi di
carattere non transitorio, nel modificare la distribuzione del potere di mercato, nel
consolidare posizioni dominanti, nel rendere possibili coalizioni di imprese di
minori dimensioni in grado di sfidare l’impresa leader del settore”
3
.
Tutti i motivi succitati rendono semplice la comprensione delle finalità che
spingono i policy makers a guardare con interesse sempre maggiore al fenomeno
concentrativo: la politica industriale pone attenzione alla struttura di settori
cardine per quanto riguarda l’occupazione e la crescita dell’economia nazionale, le
autorità a tutela della concorrenza sanzionano l’eventuale creazione o
rafforzamento di una posizione dominante.
3
V. DESARIO, Presentazione, in N. TRIDENTE, La concentrazione bancaria dalla prima guerra
mondiale ai giorni nostri, 1997.
11
Infine lo Stato e altri organismi pubblici, nei diversi periodi storici, sono
intervenuti prendendo parte ad operazioni di acquisizione o dismissione di
imprese nel tentativo di limitare eventuali inefficienze dell’iniziativa privata.
Sono state, quindi, numerose le normative statali (civilistiche, di tutela della
concorrenza, fiscali) che hanno permesso di seguire l’evoluzione dei processi di
concentrazione messi in atto dalle imprese ed accesi sono risultati i dibattiti che
sono seguiti alla loro emanazione ed applicazione.
12
1.2 La concentrazione bancaria dalle origini al crollo si
Wall Street
Tra i vari settori coinvolti in processi di concentrazione, sicuramente quello
bancario appare uno tra i più interessanti, sia per le caratteristiche proprie
dell’attività creditizia, sia per l’importanza che il fenomeno, nel corso degli anni, è
andato acquisendo.
La pratica delle concentrazioni bancarie, infatti, trova le sue origini negli
anni che vanno dal 1914 al 1919.
Per quanto riguarda l’Italia, l’inizio del primo conflitto mondiale trovò le
banche in piena fase espansiva e concentrativa, anche grazie ai considerevoli
prestiti pubblici e gli investimenti delle industrie. Il settore industriale era
impegnato a fondo nella produzione bellica e le banche “un po’ per patriottismo,
un po’ perché allettate dalla facilità dei guadagni, si strinsero sempre più alle sorti
dell’industria”
4
. Gli anni a venire videro, così, la formazione di pochi grandi gruppi
finanziari “universali” che, essendo in grado di esercitare una forte influenza sul
mercato, si contesero il dominio delle grandi banche, arricchite dall’aumento di
capitale circolante. Ne conseguì un distorto funzionamento dei meccanismi
allocativi, che avrebbe potuto mettere a repentaglio l’intera struttura finanziaria
nazionale se non fossero intervenuti organismi appositamente istituiti, l’I.R.I. in
particolare.
5
4
N. TRIDENTE, La concentrazione bancaria dalla prima guerra mondiale ai giorni nostri, 1997.
5
V. DESARIO, op. cit., 1995.
13
La fine del conflitto costrinse l’Italia, così come le altre nazioni in guerra, a
dover fare i conti con la riconversione industriale, il lento processo con cui si
riportava alla normalità un sistema economico straordinario. Le banche, per
sostenere lo Stato durante il periodo bellico, si erano oltremodo legate, come già
detto, alla sorte delle industrie, le quali, d’altro canto, non desideravano altro che
rimanere attive, nel momento in cui le ordinazioni per i bisogni di guerra erano
venute a mancare.
Pertanto, dopo un primo periodo di facile ottimismo, durante il quale gli
Stati mantennero ancora provvedimenti di carattere straordinario (razionamento
delle materie prime e controllo dei cambi in primis) al fine di rendere il passaggio
congiunturale meno traumatico, l’inevitabile crisi deflagrò coinvolgendo tutti i
settori dell'economia.
Naturalmente, le grandi banche più legate alle industrie e tutti quegli istituti
di credito minori, nati da iniziativa privata durante il precedente periodo di
speculazione, risentirono maggiormente del contraccolpo e furono spazzate via. È
il caso, per l’Italia, del crollo della Banca Italiana di Sconto, del 1921, seguito da
quello di molte piccole banche.
La caduta della banca suddetta segnò l’inizio del risanamento economico-
finanziario italiano dopo la prima guerra mondiale: determinatosi il panico, la
situazione avrebbe potuto degenerare, ma gli altri grandi istituti di credito, forti di
una più lunga esperienza e, perciò, meglio attrezzati, sostennero l’urto,
consentendo al Paese di risollevarsi.
14
Nel 1924 andava delineandosi la ripresa, che si sviluppò completamente nel
1925. Intanto, mentre era in atto tra le grandi banche un lento processo di
concentrazione, le migliorate condizioni dell'economia italiana, dovute soprattutto
alla ferma intenzione dello Stato di uscire dalla crisi, stimolavano la nascita di
nuove iniziative nel campo creditizio. Questo interessante fenomeno si verificò
essenzialmente per due ragioni:
ξ Prima di tutto, a causa del livello eccezionale dell’inflazione, che portò ad
accrescere le speculazioni in vista di facili guadagni.
ξ In secondo luogo, fattore determinante fu la scarsa esperienza delle
piccole banche e dei banchieri privati, i quali, incoraggiati dalla
prudenza dei grandi istituti, crebbero a ritmo molto accelerato.
Sul finire del 1925, com’era prevedibile, la situazione economica del Paese
cambiò nuovamente: i prezzi, che sino ad allora erano cresciuti enormemente,
cominciarono a tendere verso limiti più logici e più consoni alla reale situazione
delle imprese. Ma il ritorno alla normalità non poteva avvenire senza dissesti ed,
infatti, gli speculatori più audaci e le imprese bancarie sorte nel periodo
precedente pagarono a caro prezzo la loro inesperienza, trascinando nel loro
fallimento le categorie più umili di risparmiatori, quelli, cioè, attirati
semplicemente dagli alti tassi d’interesse.
Nel 1926 un tentativo di disciplinare organicamente la legislazione bancaria
fu messo in atto attraverso il R.D.L. n. 1511 e il R.D.L. n. 1830 con i quali veniva
colmata una lacuna della legislazione italiana: infatti i due decreti succitati, da un
lato miravano essenzialmente a tutelare il risparmio, e quindi disciplinavano
l’attività delle banche che raccoglievano depositi, dall’altro, affinché questa tutela
15
fosse effettivamente raggiunta, tendevano a limitare il numero degli istituti, a
regolare la loro espansione, a consolidare la loro posizione. In caso di istituzione o
di fusione, l’azienda di credito interessata doveva richiedere al Ministero delle
Finanze, coadiuvato dalla Banca d’Italia, un’autorizzazione che consentisse l’avvio
dell’attività. Questo esame preventivo impediva la diffusione incontrollata di
banche e banchieri ed armonizzava il loro numero con il grado di sviluppo
economico della zona. Anche in caso di fusioni, le operazioni dovevano risolversi in
un rafforzamento patrimoniale delle imprese e non nella creazione di dannosi
monopoli, privi di collegamenti con il tessuto creditizio delle zone in cui esse
operavano.
In tal modo, lo Stato si dotava di un primo, potente mezzo di acceleramento
della concentrazione bancaria, attraverso cui garantire il rispetto del limite di
efficienza economica in quel determinato momento.
A distanza di tre anni dai provvedimenti di tutela del risparmio messi in atto
dal Governo italiano, alla fine del 1929, crollava Wall Street. Data
l’interdipendenza dei rapporti economici mondiali, il collasso della Borsa di New
York si propagò rapidamente, investendo prima i mercati produttori di derrate
agricole e materie prime, poi i Paesi industriali; ben presto il sistema di equilibri
nazionali ed internazionali fu spazzato via ed intere popolazioni ridotte in
difficoltà.
La situazione economica italiana, ancora scossa dalla politica deflazionista
perseguita dal Governo, non sfuggì al nuovo cambio di congiuntura, subendone in
pieno tutte le conseguenze: la crisi mondiale imponeva un nuovo adeguamento
delle attrezzature industriali, adatto alle mutate condizioni di mercato.
16
Inevitabilmente, tali interventi gravarono in massima parte sugli istituti di credito,
“costretti”, sia per dovere nazionale, sia per proprio tornaconto economico, a dare
fondo alle disponibilità liquide in loro possesso. Inoltre , così come per tutto il
sistema industriale, anche per il ramo bancario un ulteriore problema da
affrontare riguardava l’elevato livello dei costi, inadeguati alla nuova situazione.
Compromissione della liquidità e alto coefficiente di spese generali
imponevano dunque una soluzione immediata ed efficace che permettesse
all’organismo produttivo un nuovo adattamento alle mutate condizioni di mercato;
il processo di concentrazione, già avviato precedentemente, sembrò l’unica strada
che consentisse il superamento del disagio connesso alla crisi.
Naturalmente, le difficoltà da superare erano molte: “In primo luogo, per
salvare la liquidità bancaria era necessario scaricare ad altri istituti la mole ingente
delle immobilizzazioni per i finanziamenti industriali e lasciare alle banche di
credito ordinario soltanto l’attività di deposito e sconto. Secondariamente, per
ridurre considerevolmente i costi era necessario fondere i grandi organismi e
razionalizzare i loro impianti, chiudere le filiali ed agenzie che costituivano su
alcune piazze inutili doppioni, (…) fare una cernita intelligente del personale (…)”
6
.
Tale programma fu affrontato in pieno dalle due più grandi banche italiane:
il Credito Italiano e la Banca Commerciale.
6
N. TRIDENTE, op. cit..
17
1.2.1 Due casi di concentrazione bancaria in Italia
Il Credito Italiano, nel marzo 1930, deliberò l’incorporazione della Banca
Nazionale di Credito con conseguente aumento del capitale sociale a L. 625
milioni. A seguito di questa grande operazione finanziaria, senza precedenti nel
panorama creditizio italiano e paragonabile solo ai movimenti di concentrazione
tedeschi o americani, il Credito Italiano accentrò presso di sé il lavoro di natura
prettamente bancaria, lasciando alla nuova Banca Nazionale di Credito tutte le
partecipazioni azionarie industriali possedute dalle due banche. Oltre all’indubbio
vantaggio derivante dalla separazione tra l'attività creditizia pura ed attività
finanziaria mobiliare, la fusione di questi istituti portò ad un notevole incremento
della razionalizzazione delle filiali, sia nazionali, sia estere.
Ancora più importante risultò la fusione tra la Banca Commerciale Triestina
e la Banca Commerciale Italiana attuata nel 1931, in quanto, più di tutti gli altri
istituti di credito, la COMIT aveva impedito lo sconvolgimento dei mercati
finanziari e permesso, con il proprio intervento, il funzionamento della industria
attraverso il sostegno della Borsa e i finanziamenti necessari per non bloccare
l’attività produttiva e agevolare la razionalizzazione in atto.
Ma quest’opera di sostegno e collaborazione, attuata soprattutto attraverso
un forte immobilizzo di capitali
7
, unitamente all’aggravarsi della crisi del 1931,
minò la struttura del più importante istituto ordinario di credito italiano,
minacciando di travolgerlo.
7
La cifra ammonta a circa quattro miliardi, tra partecipazioni dirette ed indirette.
18
Si resero, dunque, necessari provvedimenti, primo fra tutti la suddetta
fusione, al fine di razionalizzare gli impianti ed il personale e conseguire riduzioni
nelle spese generali. In secondo luogo, il salvataggio della COMIT fu operato anche
grazie alla costituzione dell’Istituto Mobiliare Italiano (I.M.I.), organo creato con il
compito di essere l’anello di congiunzione tra il credito pubblico e l’industria. In
altri termini, l’I.M.I. doveva raccogliere il risparmio disponibile tra il pubblico,
attraverso forme di investimento sicure e garantite, affinché il credito che deteneva
la Banca Commerciale fosse interamente rimborsato.
19
1.3 Gli anni della riforma bancaria: dal 1935 al secondo
dopoguerra
La lunga serie di fallimenti bancari degli anni precedenti ed i segni che
questi avevano lasciato nell’economia nazionale imponevano un avvicinamento dei
vari istituti di credito, allo scopo di trovare una soluzione nell’interesse di tutti. Da
tempo si erano tentate le prime intese interbancarie, i primi cartelli per cercare di
porre un freno alla spinta concorrenziale che minacciava di portare al tracollo tutte
le banche, grandi e piccole.
Per questo motivo, la proposta, avanzata da Governo, di tracciare i quadri
delle attività economiche nazionali su base corporativa, incontrò il favore delle
banche, pronte a trovare, se non una soluzione definitiva, almeno una tregua alla
propria crisi. L’inquadramento corporativo sembrò essere il più adatto non solo
per il miglioramento dell’economia nazionale, ma anche l’unica possibilità di
dotare il settore bancario di un coordinamento e di una disciplina.
Con l’istituzione della Corporazione del Credito vennero affrontati molti
problemi che erano rimasti a lungo irrisolti:
ξ Il ruolo di controllo della Banca d’Italia veniva messo ora in discussione
in relazione alla sua natura di ente di diritto privato. Si pensava, infatti,
che un controllo così ampio e così vitale per l’economia nazionale
dovesse essere affidato ad un ente che rappresentasse l’interesse
pubblico e che non fosse in concorrenza sul mercato con gli istituti di
credito su cui doveva vigilare.